La filosofia non può ridursi alla sola condanna morale della guerra
di Simone Regazzoni - 07/12/2025

Fonte: Inside Over
Alessio Mannino
5 Dicembre 2025
La guerra è un fatto. Solo a personalità psicopatiche può piacere, e tuttavia, a meno di abolire la dimensione politica in quanto tale, rimane un fatto. Con cui fare i conti, quanto meno per limitarne il più possibile gli effetti e ridurre i danni che produce. Un approccio realista, questo, che non nega le aspirazioni alla pace ma le include in una prospettiva non consolatoria, ma che evidentemente è alieno dalla sensibilità politica del Dipartimento di Filosofia di Bologna. Il caso scoppiato nei giorni scorsi ha messo in imbarazzo l’ateneo più antico del mondo, al quale si era rivolto prima dell’estate il generale Carmine Masiello, capo di Stato Maggiore dell’esercito, per creare un corso di laurea di filosofia per l’Accademia Militare, sita a Modena. Fra l’università e l’istituto di formazione per ufficiali intercorrono già rapporti che prevedono posti riservati per certi corsi.
Nelle aule della sede bolognese, però, non un corso ad hoc e distaccato, con relativi costi aggiuntivi. Una novità che ha scatenato le proteste dei collettivi universitari, che l’hanno interpretata come un’iniziativa di segno bellicista, una forma di legittimazione dei conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Il progetto è quindi abortito, giustificando il rifiuto, secondo il rettore Giovanni Molari, con il “fabbisogno didattico” aggiuntivo non coperto dall’offerta economica dell’esercito (8 mila euro a docente). Al di là della cronaca, l’episodio assume un significato simbolico che investe il rapporto fra il fenomeno guerra, con i suoi risvolti economici, politici ed antropologici, e la branca del pensiero che li abbraccia tutti: la filosofia, per l’appunto. O almeno di questo è convinto Simone Regazzoni, già docente alla Cattolica di Milano e all’università di Pavia. Allievo del decostruzionista Jacques Derrida, autore di libri alcuni dei quali tangenti al tema (“Stato di legittima difesa. Obama e la filosofia della guerra al terrorismo”, 2013, o “La palestra di Platone. Filosofia come allenamento”, 2020), oggi insegna all’Istituto di Ricerca Psicanalisi Applicata diretto da Massimo Recalcati.
Professor Regazzoni, che la scelta dell’università di Bologna abbia una valenza politica, non c’è dubbio. Ma Lei pensa sia figlia di un rigetto aprioristico di tutto ciò che richiama le armi? Anche comprensibilmente, bisogna dire, con le guerre in corso. E guerra, da ottant’anni a questa parte, dopo Hiroshima e Nagasaki, evoca non solo la distruzione del nemico, ma l’autodistruzione dell’umanità per via atomica.
Riferendomi non ai singoli, ovviamente, secondo me di fondo nell’ambito della filosofia contemporanea c’è una resistenza a misurarsi con la dimensione della guerra e del militare, che invece per moltissimo tempo è stata al cuore della riflessione filosofica. Questo è un dato di fatto. È una resistenza di tipo soprattutto ideologico: se la guerra viene considerata come il male in sé, è evidente che il pensiero instaura una sola forma di rapporto, che è di condanna e di presa di distanza con una postura pacifista. E questo è comprensibile, come diceva lei, in un contesto in cui, dopo aver parlato di “fine della Storia”, la guerra è tornata prepotentemente sulla scena, suscitando rigetto perché se ne percepisce il pericolo. Il che, dal punto di vista psicologico, è condivisibile. Meno, invece, dal punto di vista del pensiero.
E invece se c’è una questione che dovrebbe essere posta al centro della riflessione è proprio quella della guerra. Se non pensiamo che cos’è, quali sono le sue dinamiche e trasformazioni contemporanee, non ci misuriamo con quella che è una delle articolazioni dello spazio del Politico. È impossibile pensare il Politico senza pensare alla possibilità della guerra. È uno degli insegnamenti di Carl Schmitt, e non c’è niente da fare. Ma basti pensare anche a Hobbes o a Machiavelli. C’è tutta una tradizione filosofica che ha riflettuto su questo. Oggi ci troviamo di fronte a una filosofia che rimuove il problema.
Rimozione, dice Lei. Sicuramente c’è un problema culturale, forse anche psicologico, con la forza, per lo meno nel nostro quadrante ideologico, l’Occidente. La si impiega senza remore travestendola da esportazione di democrazia, missioni umanitarie, essere pronti (come da nome del piano di riarmo europeo) alla pace, ma visto che stiamo ragionando su un piano filosofico, ovvero dei princìpi o cause prime, qual è il motivo profondo di questo atteggiamento, se non di rimozione, sicuramente di negazione?
A mio pare c’è l’illusione che se la guerra viene in qualche modo esorcizzata, si può pensare a uno spazio in cui il problema non viene più a presentarsi. Questo è il dato filosofico: non che se ne parli, la si stigmatizzi o, all’opposto, venga assunta come soluzione, ma che sia possibile rimuoverla. Il punto è che noi hegelianamentedobbiamo misurarci con la realtà. C’è un’impostazione morale oggi, e non politica. È ovvio che sul piano morale condanniamo la guerra, ma resta un nodo politico che va pensato, al di là del giudizio morale. Ecco cosa dovrebbe fare una buona filosofia. C’è un moralismo filosofico per cui, essendo la guerra il male, con tutto ciò che vi ruota attorno, compresi i militari, sono una forma del male con cui non ci si può contaminare. Perciò i militari, specie in un certo ambito culturale (Bologna ha una certa connotazione politica), rappresentano qualcosa con cui non ci si può rapportare. Io al contrario penso che la filosofia debba occuparsi di guerra, proprio in un periodo in cui deflagra in condizioni inaccettabili, e dall’altro lato che anche chi si occupa di guerra debba interessarsi alla filosofia.
C’è una battuta di Georges Clemenceau, capo del governo francese a Versailles nel primo dopoguerra, che dice che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali. Non troppo vera: non di rado, i comandi militari sono più realisti dei vertici politici. In ogni caso, la frase rimanda alla famosa tesi di uno dei fondatori della polemologia occidentale moderna, Carl von Clausewitz, secondo cui la guerra è continuazione della politica con altri mezzi. Per i pacifisti, invece, la guerra dovrebbe diventare tabù assoluto, come lo è diventata la schiavitù. È possibile bilanciare un atteggiamento che tenga cioè conto degli inevitabili rapporti di forza fra gli Stati, con la tensione ideale a un mondo dove gli innocenti non finiscano ammazzati?
La cornice che dalla Seconda Guerra Mondiale in poi si è tentato di costruire è quella di un assetto internazionale con istituzioni preposte a evitare che i conflitti vengano risolti tramite la forza, e penso anzitutto all’Onu. Sarebbe la cornice ideale, kantiana. Abbiamo però visto quanto sia fragile, in primo luogo perché l’attore che doveva intervenire là dove le regole internazionali fossero violate è un attore politico che è parte del campo, gli Stati Uniti. Con tutte le strumentalizzazioni del caso: è evidente che non sono mai stati i paladini della giustizia incondizionata, facendo i loro interessi. D’accordo avere leggi internazionali, ma poi chi è che le fa rispettare? Più che migliorare le istituzioni di diritto internazionale, bisognerebbe ormai rifondarle, perché hanno dimostrato di non funzionare.
Tutto quel che è avvenuto, anche in tempi recenti, ci dice che il diritto internazionale non viene rispettato. Ora, pur mantenendo quella cornice, se ci limitiamo a mantenerci al suo interno continuiamo a esorcizzare la Storia, che sta andando da un’altra parte. È inevitabile, cioè, che i processi vadano pensati. Restare fedeli alle idee morali va bene, ma non si può soltanto continuare a ribadirle e a fare come il prete di turno che condanna senza sforzarsi di riflettere sui problemi. Il pensiero, che sia storiografico, antropologico o filosofico, non equivale a erigersi sui fatti per condannarli suddividendoli in Bene e Male. Altrimenti, sul nazismo scriviamo libri di storia solo per dire che era Male, punto. Invece ne scriviamo ancora per comprenderlo meglio e pensare i processi storici.
La Chiesa Cattolica, che nel curriculum ha una poco invidiabile serie di guerre sante, crociate e violenze di vario tipo, nel suo Catechismo odierno ammette solo la guerra per legittima difesa, e con molti paletti. Anche un non cattolico potrebbe sottoscrivere questa tesi come punto di caduta universalmente accettabile, o siamo, anche qui, alle pie intenzioni?
Beh, no, direi che questo è un dato che anche politicamente oggi viene tirato in ballo considerandolo accettabile. L’Italia ripudia la guerra, ma come strumento di offesa. Come strumento di difesa, invece, rimane una delle imprescindibili e irrinunciabili caratteristiche di una democrazia. Ecco perché investiamo ancora in spese militari. Non esiste entità politica priva di una forza di difesa legittima, altrimenti non si costituirebbe nemmeno come entità politica. Ed è qui il punto di caduta minimo per uno spazio politico di libertà, per cui non ha senso rimuoverlo, anzi va pensato nel modo più intelligente possibile. Non possiamo lasciarlo semplicemente ai militari di professione, altrimenti sì che diventa mero esercizio di forza. Mi lasci fare un appunto.
Prego.
Nel corso della seconda metà del Novecento, noi abbiamo visto nell’ambito del pensiero militare svilupparsi delle riflessioni di natura strategica di assoluto livello che hanno già attinto alla filosofia. C’è ad esempio un grande studioso di strategia americano, John Boyd (in Italia poco conosciuto, anche se è uscito una biografia su di lui), che ha incorporato le teorie del post-modernismo di Derrida. La strategia contemporanea come pensiero non lineare è estremamente complesso. Voglio dire che in ambito militare si è sentita l’esigenza di staccarsi dalla semplicistica idea che accumulando forza e armi si acquista la supremazia strategica. Cosa molto significativa se pensiamo alle più recenti forme di combattimento, in cui alle armi convenzionali si aggiungono armi di tipo nuovo.
Sul fronte ucraino abbiamo un conflitto classico, ma sempre più si parla di guerre di quarto tipo, non lineari, ibride dove sistemi tecnologici e di informazione intervengono per destabilizzare l’assetto politico e culturale degli avversari. È chiaro che qualcosa che è intrisa di pensiero. È quindi è segnale storico, non un capriccio, che i militari chiedano un corso apposito di filosofia. Loro lo hanno capito, ma la filosofia dov’è? Per me, la necessità di una relazione fra conflitti e pensiero è un tema aggirabile. Una parte dei filosofi non è all’altezza del momento storico. Derrida diceva che il campo militare va pensato. Mentre c’è tutta una parte della filosofia che suona, direbbe Nietzsche, una canzone da organetto per evitare di confrontarsi con queste questioni.
Ci sono altri autori o testi utili da suggerire che le vengono in mente?
Uno imprescindibile, a mio avviso, è “Guerra oltre i limiti”. È un testo straordinario scritto da due studiosi e militari cinesi, due veri pensatori che hanno rivoluzionato l’idea di guerra, e che è diventato un classico sulle nuove forme di guerra, incidendo molto di più di tanti testi filosofici degli ultimi anni. Un altro è “L’arte della guerra” di Boyd, che cita ampiamente il post-moderno, il decostruzionismo, lo stesso Foucault molto caro ai professori e studenti bolognesi. Sono testi che ci dicono che filosofia e strategie militare hanno già iniziato a dialogare. E non è un caso: sono i tempi che lo impongono. Lo spazio militare non è solo quello della forza, ma anche del pensiero, perché la guerra diventerà sempre più un fatto di idee, di informazione, di parole, e quindi appunto di pensiero. Boyd non era amatissimo dai generali americani, perché contrariamente alla tesi tradizionale dell’accumulo lineare di armamenti, sosteneva invece la necessità di armamenti leggeri e strategie complesse. Dobbiamo cambiare schemi di pensiero. Quel che è successo a Bologna è un risultato molto basso di vecchi schematismi incapaci di comprendere il cambiamento. E che sia venuto da filosofi, è abbastanza triste.
Lei ha scritto un libro sulla filosofia di Platone come allenamento. Il maestro di Platone, Socrate, aveva combattuto in guerra. I tragici Eschilo e Sofocle lo stesso. Ma a quei tempi, combattere equivaleva a essere cittadino, e il soldato doveva avere caratteristiche da guerriero. Oggi, con la guerra tecnologica e ibrida, i droni, i robot e l’intelligenza artificiale, non risulta difficile equiparare il soldato attuale al guerriero antico? Non si rischia di far retorica?
Dipende da cosa intendiamo per guerriero. Il guerriero non è un guerrafondaio, se stiamo a Platone. È qualcuno che, nel caso si trovi a dover fare la guerra, ha lo spirito per non fuggire dal campo di battaglia. È una postura etica. Ce la descrive benissimo Alcibiade nel Simposio: quando era inverno ed eravamo in guerra, dice, e tutti stavano chiusi tremando per il freddo, Socrate se ne stava fuori, con semplice mantello e i sandali, fermo. Dava l’idea di uno che non ama la guerra, ma che sa mantenersi saldo. Non è un elogio del guerriero in senso stretto, ma dell’atteggiamento di chi sa comportarsi in quel modo davanti all’estremo pericolo.
La morte.
In Platone c’è l’idea del guerriero come chi sa esprimere il proprio valore nel momento della paura, che ha lo thymόs, la forza interiore di andare fino in fondo. Io pratico arti marziali da tanti anni, sono anche assistente istruttore: i nostri maestri ci dicono “siete dei guerrieri”. Che è una cosa che stride tantissimo con la società che ci circonda. Ma non è che siamo gente che ama la guerra: piuttosto, che si sforzano di mantenere un’etica di fronte a qualsiasi circostanza, non lamentandosi in continuazione, non adagiandosi sulle proprie fragilità. Infatti non parliamo di allenamento, che istruisce a fornire prestazioni sportive, ma di addestramento. Per diventare guerrieri in tempo di pace. È la trasformazione che hanno subìto in Oriente i samurai i quali, non potendo a un certo punto combattere più, hanno conservato l’etica, appunto, del samurai. Il guerriero è questo: chi mantiene la postura etica, non tirandosi indietro di fronte alle difficoltà del reale.

