Papato contro Impero: dopo secoli, la Monarchia di Dante torna a far paura ai tradizionalisti
di Cosmo Intini - 07/12/2025

Fonte: Come Don Chisciotte
Il problema
L’annosa e disputata questione che ha come tema la ‘relazione’ che dovrebbe intercorrere tra Autorità spirituale e Potere temporale, in seno alla Romana Ecclesia – il che in senso ‘orizzontale ed immanente’ equivale a dire: tra ‘religione e politica’; in senso invece ‘verticale e trascendente’, più ontologicamente elevato, vuole significare: tra ‘Sacerdozio e Regalità’, tra ‘Papato ed Impero’ – pare oggi non trovare ancora un definitivo chiarimento teorico in vista di una soluzione condivisa tra le parti coinvolte nel dibattito; e ciò non tanto e non solo per i particolari caratteri della presente contingenza storico-politica, ma anche sulla scorta dei numerosi e radicati fraintendimenti di certa cattolicità che continuano ancora a permanere nel merito.
D’altro canto, tutto ciò è un ulteriore sintomo della crisi in cui versa l’odierna Europa (la particolare entità geopolitica che a noi interessa porre al centro delle nostre presenti riflessioni), pienamente partecipe, come purtroppo essa è, non solo della decadenza ontologica dell’intero Occidente, ma anche della diffusa confusione spirituale che oramai affligge, al proprio interno, persino la stessa ‘romana Chiesa’.
Per quel che ci riguarda, non è questa la prima volta, né sarà l’ultima, in cui riteniamo doveroso indicare la dottrina politica di Dante quale più opportuno punto di partenza per un rinnovato slancio di riflessioni che contribuiscano alla soluzione della suddetta disputa, con argomentazioni solide e coerenti. Seppur sempre chiaramente suscettibile di approfondimenti e di riadattamenti in seno alle nuove contingenze storiche, l’ideale imperiale dantesco rimane insomma, a nostro modo di vedere, l’insuperato ed insostituibile apice teorico che fornisce ancora e sempre il supporto per ricostruire, con efficacia, quell’‘identità cristiano-europea’ ormai da troppo tempo mortificata spiritualmente e politicamente, dacché recisa dalle proprie tradizionali radici.
Laicità imperiale, laicismo democratico
Immediatamente dopo la morte dell’ultimo Imperatore d’Austria-Ungheria il Beato Carlo d’Asburgo, avvenuta nel 1922 a conclusione di un secolare processo di progressiva ‘implosione’ della tradizionale Potestas imperiale – processo che era già cominciato nel ‘300 ma che aveva trovato una definitiva e fatale accelerazione nel 1806, a seguito della coatta ‘sospensione’ del Sacro Romano Impero[1] – il XX secolo ha assistito al prevalere di una visione ‘orizzontale’ della politica europea, resasi esplicita col diffuso instaurarsi della formula della ‘democrazia parlamentare’, peraltro inserita in un contesto di separazione tra Chiesa e Stato.
Ma se la ‘scomparsa’ dell’Impero possa aver contribuito a rendere di sempre minor attualità l’apertura di un dibattito risolutivo sulla questione in oggetto, tuttavia sono anche altri i motivi che, a nostro avviso, ancora ne inibiscono la corretta e decisiva chiarificazione.
Bisogna intanto partire dagli importanti studi politologico-giuridici di Carl Schmitt (1888-1985), peculiarmente incentrati sui rapporti tra teologia e politica nella moderna cristianità occidentale (lo studioso pubblicava il suo studio Teologia politica proprio nello stesso fatidico anno 1922) e con i quali egli ha inteso denunciare il subdolo processo di trasferimento delle categorie teologiche nel contesto delle istituzioni politiche ‘secolari’. Secondo Schmitt, la politica più recente ha ambiguamente trasfigurato quelle connotazioni che erano originariamente di carattere sacro-religioso per riassumerle in chiave ‘laicista’; e si badi bene che non diciamo ‘laica’, in quanto i due termini, mantenendo una propria irriducibilità di significato e di valore, non possono pertanto essere usati indifferentemente: se non a costo, come spesso accade, di confondere la fondamentale rispettiva diversità di rapporto che è da essi mantenuto con il concetto di ‘clericale’.
Tale fenomeno, giunto a estrema realizzazione nei moderni Stati-Nazione, ha avuto come esito quello dell’instaurazione di una identità politica di carattere prettamente ‘orizzontale, secolarizzato, ateo e religiofobico’, in cui poteri, funzioni, concetti e strutture di pensiero appaiono svestiti della loro legittima radice metafisica per essere riapplicati immanentisticamente, dopo l’indebita loro appropriazione, secondo un sovvertimento del legittimo senso originale. Tutto ciò non solo tradisce l’ipocrisia e la vacuità, appunto ‘laicista’, della moderna ideologia democratica e repubblicana, ma conferma altresì, ontologicamente, quello che il laicismo non è nemmeno in grado di comprendere: ossia la curiosa inevitabilità che costringe l’immanenza profana a doversi sempre e comunque paradossalmente inscrivere, pur suo malgrado, entro un imprescindibile ‘verticale’ riferimento alla sfera del trascendente e del sacrum, da cui niente può infatti tentare di svincolarsi – fosse anche solo per negarlo – se non velleitariamente.
Tutto questo, insomma, la dice lunga non solo sull’inconsistenza, ma pure sulla pericolosità della visione socio-politica di carattere ‘laicista’, la quale si propone equivocamente come una sorta di ‘religione anti-religiosa’.
Le acquisizioni di Schmitt ci servono allora per osservare come ogni politica europeo-cristiana che intenda garantire la propria ‘legittimità nella verità’, deve parimenti mantenere un rapporto di consapevole ed appropriata relazione con gli archetipi ‘metapolitici’: princìpi sacri, questi, che non sono altro se non quanto attiene a quel ‘diritto divino e naturale’ a cui ogni tradizionale ‘umano diritto positivo’ deve necessariamente informarsi. Ben si comprende come ciò stabilisca che una riflessione che conduca ad un chiarimento riguardante la relazione tra i due principali poteri in una Europa cristiana, foss’anche se considerati soltanto nel loro aspetto ‘orizzontale’ (religioso e politico), non può assolutamente prendere come proprio punto di partenza l’attuale ‘laicista’ realtà politico-sociale, quanto piuttosto quella dell’unica istituzione politica che abbia sempre mantenuto una vera ed effettiva ‘laica identità sacrale’: l’Impero, la Monarchia Universale.
Ma per poter proseguire, è necessario preventivamente inserire nelle presenti riflessioni qualche ulteriore presupposto.
Neotomismo e Dante
Sempre agli inizi del XX secolo, ponendosi su differenti prospettive filosofiche rispetto agli studi schmittiani, si consolidava la riscoperta del pensiero di S. Tommaso d’Aquino ad opera di quel movimento di pensiero cattolico denominato ‘neotomismo’.
Gli studi filosofici neotomistici, ispirati e incoraggiati dalla promulgazione dell’enciclica Aeternis Patris di Papa Leone XIII (1879), si proponevano di riportare la ratio filosofica dei cattolici sulla strada della vera e corretta fede, proteggendola dalle insidie ingannatrici di sempre più diffuse dottrine secolari, laiciste e moderniste. Ciò, peraltro, esigeva di affrontare tutti i campi della filosofia, tra cui spiccavano particolarmente la gnoseologia, l’antropologia, la morale, la metafisica e, non per ultima, anche la politica.
A tal proposito, bisogna altresì osservare come quelli furono proprio gli anni della riabilitazione del dantesco trattato politico della Monarchia.
Esplicitamente composto per difendere i diritti dell’Istituto imperiale contro le pretese ‘temporali’ del Papato, il trattato della Monarchia in effetti era stato presto accusato di eresia e posto al rogo nel 1329, dal Cardinale Vescovo Bertrando del Poggetto. Nel 1559 veniva inserito dal Santo Uffizio nell’Indice dei libri proibiti, per poi esserne tolto, a metà XVIII secolo, da Papa Benedetto XIV; sino a quando, nel 1881, Papa Leone XIII ne revocava definitivamente la condanna.
Nel 1921, la figura di Dante si guadagnava finalmente la totale riabilitazione ecclesiale grazie a Papa Benedetto XV; il quale, nell’enciclica In Praeclara Summorum, esaltava il validissimo valore cristiano del Nostro, così come esplicitato non solo nella Commedia, ma “in tutte le sue opere”.
È ovvio che affrontare in generale il pensiero di Dante, e la sua dottrina politica in particolare, vuol dire doverlo porre inevitabilmente a confronto con la filosofia di S. Tommaso e con i suoi esegeti.
In relazione a ciò, va menzionata la figura dello studioso ‘neotomista’ Étienne Gilson (1884-1978), il quale non solo è considerato uno dei “maggiori storici del pensiero medievale”, in quanto autore del più significativo compendio di storia della filosofia relativa a quell’epoca, ma anche “tra i migliori interpreti della filosofia di Dante”. In seno alle sue riflessioni sulla dottrina politica dantesca, rimangono di fondamentale importanza soprattutto le due opere: Dante e la filosofia (1939) [2] e Le Metamorfosi della Città di Dio (1952), la seconda delle quali dedica specificatamente il IV capitolo, intitolato L’Impero Universale, al trattato della Monarchia di Dante[3].
Dante e la Dottrina della Regalità sociale di Cristo
Ora, abbiamo notato come, negli anni più recenti, una certa parte del pensiero cattolico ‘tradizionalista’ italiano abbia sempre più ripreso proprio tali saggi del Gilson, per convocarli nell’alveo delle discussioni attorno alla dottrina sociale della Chiesa e, in particolare, alla dottrina della Regalità sociale del Cristo.
Codeste discussioni, a nostro modo di vedere, seppur inserite nella del tutto condivisibile e auspicabile ‘battaglia’ che miri sia a riportare i contenuti di tale dottrina al centro di una più convinta pastorale ecclesiale – soprattutto dopo l’‘intiepidimento’ post conciliare – sia ad apportare un fermo contributo per un suo integrale recupero: colmando le mancanze, chiarendo le confusioni e diradando tutti quegli errori che si sono configurati a seguito del sopravvenuto nuovo approccio teologico di carattere ‘modernista’; ebbene suddette discussioni, nel momento in cui hanno inteso coinvolgere la dottrina politica di Dante ci sono invece parse responsabili di acuire le problematiche in gioco anziché risolverle, di alimentare le errate comprensioni anziché superarle. E del resto, è stato proprio questo il motivo che ci ha spinti ad intervenire qui, sull’argomento, in maniera così specifica.
In generale, il biasimo ‘tradizionalista’ prende le mosse dalla considerazione del fatto che la più recente teologia ‘modernista’, tradendo lo spirito originale dell’enciclica Quas primas (1925) promulgata da Papa Pio XI sul tema della Regalità cristica, ha decisamente ‘stemperato e affievolito’ l’incidenza di essa dottrina riducendola, come osservato ad esempio dal prof. Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio internazionale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa, ad “un significato spirituale, oppure escatologico, oppure vagamente pastorale, ma non sociale e politico”[4].
A partire dalla comprensibile esigenza sia di reinquadrare la dottrina della Regalità sociale di Cristo all’interno di una più concreta visione anche politica, secondo una maggiormente corretta adesione ai contenuti dell’enciclica di Pio XI, sia di incentivare una sua più convinta, coerente e attiva applicazione pratica da parte del laicato cattolico, sempre Fontana ha avuto modo di supportare le proprie riflessioni appoggiandosi, tra le altre cose, su quella che egli presenta come la delegittimante ‘critica’ della Monarchia di Dante avanzata autorevolmente dal Gilson.
Esplicito ed emblematico è il titolo del suo intervento, postato sul sito dell’Osservatorio Van Thuan: Laicità della politica: Dante criticato da Gilson[5]. Tuttavia, diciamo subito che nel prosieguo vedremo come sulle posizioni del Gilson possano in realtà operarsi diversi e importanti distinguo.
Il suddetto riportare la tesi politica della Monarchia di Dante al centro di una odierna discussione sulla Regalità di Cristo e sulle sue incidenze socio-politiche, si prefigge più che altro l’obiettivo di presentarne i contenuti sotto una luce di profondo scetticismo critico; e ciò a causa del fatto che nella decisa opposizione danesca a riconoscere al Papato il possesso di una potestà in temporalibus si ravviserebbe una sorta di ‘peccato originale anticlericalista’.
Senza insistere sul fatto che il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprima già piuttosto chiaramente in merito al fatto che «non spetta ai Pastori della Chiesa intervenire direttamente nell’azione politica e nell’organizzazione della vita sociale. […] Compete ai fedeli laici animare, con impegno cristiano, le realtà temporali»[6], ciò che ravvisiamo con disappunto non è tanto la partigianeria interpretativa mostrata qui da Fontana, convinto fautore appunto della potestà papale anche in temporalibus, quanto piuttosto il reiterato e improprio uso dell’aggettivo ‘laico’, con cui si continua a far confusione tra differenti livelli di significato.
Per esporre sinteticamente la questione, si può dire che mentre Fontana stigmatizza e biasima in Dante, e in particolare nella Monarchia, la propugnazione di una certa sua qual ‘laicità’ – ma ci chiediamo retoricamente: questo non dovrebbe forse esprimere l’effettiva e naturale sua ’‘identità’ personale nonché quella della sua idea politica, in quanto con ‘laico’, stricto sensu, si indica semplicemente tutto ciò che non rientra nell’ordine ‘sacerdotale’? – ebbene, egli aprioristicamente avanza, nel merito, delle osservazioni che interpretano la sua dottrina come espressione di un atteggiamento equiparabile alla medesima temperie politica ‘laicista e secolare’ odierna; tutto ciò a causa del fatto che essa ‘si proporrebbe’, per l’appunto, di perseguire la teoria della completa ‘autonomia e indipendenza’ del Potere temporale rispetto all’Autorità spirituale.
Prima di scendere nei dettagli, ci sembra necessario evidenziare come, al di là della già più volte sottolineata differenza tra ‘laicità e laicismo’, si sia al cospetto di un nuovo ed ulteriore uso equivoco della terminologia in atto – e, pertanto, anche dei concetti che immediatamente ne derivano – con la conseguenza di causare ancora una volta fraintendimenti, quando non proprio mistificazioni con eccesive radicalizzazioni ideologiche: il che ci appare del tutto ingiusto e ingiustificabile, soprattutto quando operato nei riguardi della cattolicissima dottrina politica dantesca.
Si tratta, questa volta, delle diverse sfumature di senso che distinguono termini quali ‘autonomo e indipendente’, solo cogliendo le quali si può presumere di apprendere con precisione il vero carattere del pensiero che Dante applica sul tema delle dinamiche di relazione tra ‘Autorità spirituale e Potere temporale’.
Autonomia e indipendenza
Quando nei suoi due summenzionati studi Gilson va a descrivere ciò che l’idea dantesca propugnerebbe nel trattato della Monarchia, a riguardo della posizione ontologica che l’Impero effettivamente manterrebbe nei rispetti del Papato, egli adopera costantemente il termine ‘indipendenza’. E quando pure occasionalmente accade che egli adoperi anche il termine ‘autonomia’, lo fa con piena ‘sinonimia’ tra i due, così che viene in verità a crearsi una certa confusione di concetti.
Diciamo subito che il termine più appropriato, per una corretta interpretazione della concezione dantesca, è e rimane senza dubbio ‘autonomia’. Infatti, dal punto di vista etimologico (dal gr. αὐτονομία) esso traduce letteralmente ‘avere propri usi, proprie consuetudini, propri principi direttivi, proprie leggi governative’. Questa capacità è insomma da ritenersi applicabile non tanto dal punto di vista ‘sostanziale’ dell’Istituto imperiale, quanto da quello dello svolgimento delle sue ‘operazioni’ (per adoperare una terminologia aristotelico-tomistica).
Ciò che Dante auspica, per l’Impero, è insomma una sua completa ‘libertà d’azione’ scevra di ingerenze esterne che possano mirare a influenzarlo nella ‘conduzione’ della propria funzione: cioè a dire ingerenze che diventano appunto tali solo in quanto intervengono nell’ambito precipuo di quelle ‘operazioni temporali’ che ‘ontologicamente’ competono all’Ufficio imperiale. Del resto, sintomo di questa sfumatura di senso è il fatto che anche nel linguaggio corrente (ad esempio, con particolare riferimento ad una ‘macchina’) l’‘autonomia’ indica propriamente la capacità al ‘movimento’, considerata relativamente al trascorrere di quel certo lasso di ‘tempo’ che risulta necessario prima di dover rinnovare nuovamente tale capacità.
Come è evidente, proprio perché legato ‘al movimento e al tempo’, siffatto carattere di ‘autonomia’ compete all’ufficio imperiale in quanto rimane strettamente pertinente all’ambito ‘temporale e pratico’ delle sue operazioni; tuttavia, e questo è importante, ciò non esaurisce ancora il discorso su quella che è invece la sua propria ‘sostanza’ ontologica.
Entra qui dunque in campo la valutazione del senso con cui bisogna intendere l’‘indipendenza’, tenendo peraltro conto del fatto che Dante non ha mai preteso di riconoscerla come assolutamente propria dell’Impero: in particolar modo nei confronti di Dio e magari sulla scorta di un proprio particolare status ideologico. E qui la questione è chiaramente più complessa.
‘Indipendente’ (lat. non de-pendeo) significa letteralmente ‘ciò che non trae origine, non procede, non è connesso per una relazione di causa-effetto’. Ora, se abbiamo appena ribadito che Dante non afferma mai di voler inquadrare l’Impero in una posizione di assoluta indipendenza (da Dio) quanto piuttosto di relativa ‘autonomia’ (dal Papato), ciò intanto annulla tutta la narrazione che sosterrebbe quanto la sua dottrina afferisca a delle pretese tipicamente ‘laiciste e secolari’: sono semmai queste, infatti, che affermano la necessità sociale e politica di prescindere in maniera totale ed assoluta da ogni riferimento sacro-spirituale, rinnegando qualsiasi ‘relazione di causa-effetto’ con la sfera metafisica e religiosa.
Data la palese incongruenza facilmente ravvisabile, ci insorge allora il fondato dubbio che, in verità, se certo ‘tradizionalismo’ pretende di scorgere nella dottrina dantesca un peculiare carattere che è invece proprio della ‘secolarità laicista’, ciò si basa sulla sua inconfessata e ‘aprioristica’ prevenzione che desidera non riconoscere al ‘laico’ Impero il reale possesso di una propria ‘essenza sacrale’.
Eppure, la sacralità della Regalitas dovrebbe essere una nozione già acquisita: ogni ‘autorità’ proviene infatti da Dio. Tale ‘essenza sacrale’ del Potere regale non è certamente inventata da Dante sulla scorta di un suo soggettivo, capriccioso e partigiano ideologismo, ma la si desume da ben precisi e chiari passi della Sacra Scrittura. E se egli non li ha menzionati nella Monarchia, pur essendo certamente a lui noti, è perché ha preferito basare il proprio trattato soprattutto su dei ragionamenti dottrinali di carattere ‘filosofico’.
Comunque sia, tra i vari passi scritturali in questione si potrebbero citare ad esempio i seguenti:
“Per mezzo mio regnano i Re e i magistrati emettono giusti decreti; per mezzo mio i capi comandano e i grandi governano con giustizia” (Pr 8,15-16);
“Ascoltate, o Re, e cercate di comprendere; imparate, governanti di tutta la terra. Porgete l’orecchio, voi che dominate le moltitudini e siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli. La vostra sovranità proviene dal Signore; la vostra potenza dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi” (Sap 6,1-3);
“Quindi gli domandai: «Che significano quei due olivi a destra e a sinistra del candelabro? E quelle due ciocche d’olivo che stillano oro dentro i due canaletti d’oro?». Mi rispose: «Non comprendi dunque il significato di queste cose?». E io: «No, Signor mio». «Questi, soggiunse, sono i due Consacrati che assistono il Dominatore di tutta la terra»” (Zc 4,11-14);
“Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Rispose Gesù: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande” (Gv 10,10-11);
“Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” (Rm 13,1-2).
A questo proposito, dobbiamo inserire una constatazione.
In un passaggio del suo Le metamorfosi della Città di Dio è proprio il Gilson che sottolinea come Dante mostri, lodevolmente, di aver ben presente quella dottrina aristotelica – da altri invece spesso misconosciuta – secondo la quale: “[…] ogni essenza esiste in vista della sua operazione”[7]. Ma ciò significa per noi dedurre, dunque, che allorché l’‘essenza sostanziale’ imperiale viene a riconoscersi, in maniera indubitabile, come ‘autonomamente’ ricevuta da Dio, è proprio questo che in pratica certifica e conferma quanto precedentemente detto: ossia che pure l’‘operazione’ compiuta dall’Impero nell’ambito ‘temporale’ mantiene di necessità un medesimo carattere di ‘autonomia’.
Purtroppo, nel corso del medesimo saggio, il Gilson pare dimenticarsene; tant’è che giunto al termine del capitolo specificatamente dedicato al tema dell’Impero Universale dantesco, e nonostante abbia più volte anche lui tenuto conto del fatto che, secondo Dante, sia il Papa che l’Imperatore “dipendono direttamente da Dio solo”[8], ebbene in contraddizione con sé stesso ribadisce la propria convinzione della liceità di una ‘diretta’ autorità esercitata dallo spirituale sul temporale[9], ad onta dell’‘autonomia’ goduta da quest’ultimo. Ma su questo ritorneremo ancora.
Partecipazione trascendentale e predicamentale
Una volta ribadita l’essenza ‘sacrale’ della Regalitas e la sua ‘diretta e autonoma’ derivazione divina, occorre a questo punto chiederci nuovamente se e in che modo l’Impero sia ‘dipendente’, ovvero se mantenga una certa qual relazione di causa-effetto con qualcosa o qualcuno; e se lo sia solo da Dio o ‘in qualche modo’ anche dal Papato, tenendo conto del mandato ‘spirituale’ che Dio stesso ha assegnato a Pietro e quindi al Pontefice: pur senza con questo contraddire la suddetta imperiale ‘autonomia’ temporale.
In verità, a voler essere precisi, vedremo come qui non si tratti affatto di una relazione di ‘dipendenza’, quanto piuttosto, e con più corretta terminologia, di ‘partecipazione’.
A nostro supporto, dobbiamo allora introdurre la figura di un altro importante pensatore neotomista: p. Cornelio Fabro (1911-1995), presbitero, teologo, filosofo e storico della filosofia.
Egli è stato certamente il più valido e autorevole esponente del neotomismo italiano, riuscendo nella notevole impresa di dimostrare come la metafisica di S. Tommaso costituisca la sintesi, nonché il superamento, di platonismo ed aristotelismo. Fabro infatti rigorizza «[…] la metafisica tomistica dell’esse intensivo coniugando insieme il principio platonico di partecipazione con il principio aristotelico di causalità efficiente»[10].
Ciò che a noi interessa sottolineare in particolar modo è la distinzione che Fabro individua, in S. Tommaso, tra partecipazione predicamentale e partecipazione trascendentale; e ciò in merito alla più ampia questione riguardante il tipo di ‘relazione’ che intercorre tra immanenza e trascendenza.
«La partecipazione predicamentale è quella in cui ambo i termini della relazione, partecipante e partecipato, restano nel campo dell’ente (della sostanza finita) e può aver luogo sia sul piano logico (la partecipazione della specie al genere) sia sul piano reale (la partecipazione della materia alla forma). Invece la partecipazione trascendentale è quella che ha luogo tra l’ente e l’actus essendi. Partecipare, in senso metafisico, significa avere in modo ‘limitato’, ‘particolare’, ‘imperfetto’ un atto e una formalità che altrove si trovano in modo totale, illimitato, perfetto. Questo è precisamente il caso della forma: essa partecipa dell’atto d’essere (actus essendi) o, detto in altro modo, l’atto d’essere comunica alla forma l’attualità che la rende principium essendi et agendi dell’ente concreto. Così l’ens finito si pone nel divenire, in quanto fruisce di questa doppia partecipazione: partecipazione all’ipsum esse in forza del quale est simpliciter, e partecipazione agli accidenti in cui si realizzano le diverse modalità della sua esistenza concreta. La seconda partecipazione dipende ontologicamente dalla prima, quella dell’Ipsum esse che è assolutamente fondante.
Successivamente […] Fabro elabora un’organica assimilazione della dottrina della partecipazione, di matrice platonica, alla dottrina aristotelica della causalità, e quindi dell’atto e della potenza. In quanto ens per partecipazione, la creatura non è di per sé ma in virtù di un altro. Perciò, anche relativamente alla sua produzione la creatura è ente per partecipazione su due piani: in virtù della causalità trascendentale per cui passa dalla potenza all’atto mediante l’attualità dell’esse e in virtù della causalità predicamentale per cui acquista un particolare grado di realtà e perfezione grazie alla forma e ‘diventa perciò suscettibile dell’actus essendi’. […] La causalità dell’essere si dispiega nell’ambito predicamentale in base alla distinzione tra materia e forma (nei corpi) e tra sostanza e accidenti (negli enti finiti): cosicché la forma comunica l’essere alla materia e la sostanza comunica l’essere agli accidenti. La causalità dell’essere si dispiega nell’ambito trascendentale in base alla distinzione tra essentia ed esse nell’ente finito: tale distinzione non è riconducibile solo alla distinzione più generale, di potenza e atto, ma si estende anche a quella tra partecipante e partecipato. Il fondamento ultimo di questa distinzione, e dunque della stessa causalità dell’essere, è la Causa Prima. […] In questo ordine di considerazioni Fabro non esita a proclamare il tomismo autentico come una delle più alte sintesi di immanenza e trascendenza. Si tratta in verità di una posizione teoretica in cui l’immanenza è fondata sulla trascendenza in quanto l’esse, che è la perfezione che attua ogni altra nel modo più intensivo e intrinseco, si può predicare non solo degli enti finiti, ma anche di Dio che è l’Essere creatore a loro intimo; viceversa la trascendenza si può predicare oltre che di Dio, in quanto Atto puro di per sé ‘separato’, anche dell’esse partecipato e degli enti finiti che a lui rimandano come a loro compimento e quindi perfezione»[11].
A conclusione, va infine puntualizzato, con Fabro, come vi sia «un doppio movimento dell’analogia; uno formale per imitazione della forma divina, e un altro reale per derivazione della causalità divina. Mentre la partecipazione predicamentale univoca, come tale, non si fonda sulla dipendenza causale diretta, la partecipazione trascendentale comporta il salto infinito della dipendenza totale nella causalità e quindi anche nella predicazione dell’esse»[12].
La citazione, pur lunga, risultava necessaria e molto significativa per comprendere secondo quali termini debba dunque assumersi il carattere di quella che è la ‘relazione’ tra Impero e Papato, nella piena coerenza con la dottrina non solo dantesca, ma anche tomista.
La Regalitas è il Potere che Dio concede ‘direttamente’ al Monarca Imperatore, il quale si pone pertanto in una posizione analogica di partecipazione trascendentale con Cristo Re. Ed è proprio questo che spiega perché Dante, in linea con tutta una più antica tradizione, considerasse l’Imperatore come un secondo Vicario di Cristo, accanto al Papa. Due sono infatti le funzioni del Signore: Re e Sacerdote; due devono quindi essere i suoi Vicari (duo luminaria). E questo anche solo per una questione di prudenza: affinché nessuno finisca col cedere ad un qualche ‘abuso di potere’, per via, come dice Dante, della propria cupiditas[13].
In certo qual modo lo spirito di tale principio, traendolo dal contesto generale proprio del Diritto, è persino ribadito dal Catechismo quando afferma: «È preferibile che ogni potere sia bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che lo mantengano nel giusto limite»[14].
Dal proprio canto, la potestas imperiale deve necessariamente esser ‘riconosciuta e benedetta’ dall’Autorità spirituale attraverso il rito dell’‘unzione’, la cui amministrazione resta di esclusiva competenza appunto sacerdotale; per la qual cosa, l’Imperatore si pone in una relazione di partecipazione predicamentale con il Papa. E Dante più volte si esprime in questo senso: solo il Papato può illuminare l’Impero con la “luce della grazia”, in virtù del suo intervento ‘sacramentale e benedicente’, che mira a corroborare la ‘virtù operativa’ imperiale, in vista dello svolgimento delle sue ‘temporali’ funzioni[15].
Secondo questa prospettiva, pertanto, nell’indicare il carattere del rapporto di ‘relazione’ che lega l’Impero al Papato, decade definitivamente la liceità dell’uso del concetto di ‘indipendenza’, perché fuorviante.
In via incidentale, si può quindi anche aggiungere che il Papato, a propria volta, si pone in posizione di partecipazione trascendentale con Dio e di partecipazione predicamentale con Pietro, di cui ogni Papa è successore. La qual cosa, peraltro, ben giustifica la posizione dottrinaria dantesca in merito al fatto che l’Imperatore, alla luce della propria partecipazione predicamentale, è debitore al Papa non come a Cristo, ma appunto come a Pietro[16]. Dal canto suo, Dante esplicita il senso di tale sua posizione alla luce del fatto che Gesù Cristo, pur possedendo la sovranità temporale, in verità non ne ha fatto mai uso in terra, tant’è che essa è risalita in Cielo con Lui, né l’ha lasciata in eredità a Pietro e quindi al Papato.
Gerarchia di dignità e gerarchia di giurisdizione
Tutte le precedenti riflessioni, nel mentre ‘salvano’ il concetto di ‘autonomia’ dell’Impero rispetto al Papato – nel senso da noi precisato – pure ribadiscono indirettamente la reciprocità ontologica che li relaziona sulla base della distinzione tra ‘gerarchia di dignità’ e ‘gerarchia di giurisdizione’.
Secondo tale distinzione, già colta dal Gilson ma in seguito meglio approfondita e delineata dal filosofo Augusto Del Noce (1910-1989)[17], il Papato precede per ‘dignità’ in quanto la sfera ‘spirituale’ è ontologicamente superiore al ‘temporale’ dal punto di vista trascendentale. D’altro canto, l’Impero è delegato a rappresentare il potere reggente nell’amministrazione temporale, nella cui giurisdizione occupa il vertice gerarchicamente superiore: ma questo alla luce di quella ‘grazia’ trasmessagli dal Papato, sulla scorta della partecipazione predicamentale che li lega.
Con ciò si viene pure a spiegare perché Dante, nella parte finale della Monarchia, sembri porre clamorosamente in contraddizione tutto quanto precede nella propria disamina dottrinale, allorché si rivolge al Pontefice, con un tono che da alcuni è stato imprecisamente letto come di ‘subordinazione’, ammettendo la propria ‘filiale devozione’ verso di lui[18].
Sulla base di quanto da noi puntualizzato, la ‘paternità’ che Dante riconosce al Papato non è in realtà da intendersi alla luce di una propria ‘derivazione, provenienza’, bensì per la funzione di ‘guida sacramentale e ammaestramento spirituale’ che l’Autorità sacerdotale, da buon padre, è chiamata a svolgere nei confronti dell’Impero. D’altro canto quest’ultimo, da buon figlio, è tenuto a recepirne la pedagogia, seguendone le indicazioni e peraltro ricambiandone i benefici con lo svolgere, a propria volta, quella funzione di ‘tutela e aiuto’ che la funzione Regale deve attuare entro la Chiesa tutta[19].
Volendo riferirsi all’allegorica e tradizionale immagine della Chiesa quale ‘Barca’, il Papa svolgerebbe quindi, in seno ad essa, la funzione del ‘pilota’: in quanto responsabile di ‘guidare, stabilendo la rotta e additando la via’. L’Imperatore invece, dal canto suo, svolgerebbe la funzione del ‘timoniere’: in quanto responsabile di ‘governare, seguendo e mantenendo correttamente la rotta stessa’. Al vertice della gerarchia rimane sempre Dio, che della ‘Barca ecclesiale’ rappresenta l’unico vero ‘comandante’[20].
Mantenendo tutte le coerenti conseguenze, ecco dunque altresì ribadito come, sempre alla luce della dottrina dantesca, l’Impero rappresenti accanto al Papato una delle due colonne fondanti della Ecclesia Christi, pur sempre nel rispetto delle dovute differenze legate alla loro peculiare posizione entro la gerarchia di dignità e quella di giurisdizione[21].
Gilson e Dante
L’interrogativo che si pone chiunque abbia letto senza preconcetti i due summenzionati saggi gilsoniani dedicati a Dante (Dante e la filosofia e Le metamorfosi della Città di Dio), è come mai lo studioso passi da una precedente posizione enunciativa che manteneva, nei confronti della concezione dottrinario-politica della Monarchia, un carattere giustamente ‘oggettivo’ seppur in certo qual modo anche ‘ammirato’, ad una successiva che diviene invece di aperto disaccordo e di effettiva critica ad essa.
Ricordiamo che tra i due lavori, pubblicati rispettivamente nel 1939 e nel 1952, si inseriscono emblematicamente gli anni del secondo conflitto mondiale, e questo deve aver senz’altro contribuito a determinare tale mutazione di sensibilità; del resto, è lo stesso Gilson a far trasparire ciò dalle pagine del secondo dei due saggi.
Come andremo adesso a mostrare, pare che ciò venga a determinarsi prima ancora che per dei motivi principalmente addebitabili ai contenuti della dottrina dantesca, piuttosto per il timore del Gilson di una loro eventualmente ‘contraffatta’ applicazione entro il contesto storico-politico europeo creatosi nel dopoguerra: dacché, secondo lui, essi avrebbero favorito il verificarsi di effetti invero controproducenti.
La questione ben si delinea già nelle prime righe dell’Introduzione all’ultima edizione italiana, curata dal Prof. Massimo Borghesi. Questi sottolinea infatti l’iniziale profondo disinteresse mostrato attorno all’opera, al momento della sua pubblicazione, sia dal mondo accademico che politico e addirittura anche cattolico; e ciò sulla scorta del cosiddetto affaire Gilson scoppiato alla fine del 1950 e il quale aveva causato una clamorosa eclisse alla fama dello studioso[22].
Gilson era stato accusato di ‘neutralismo’ all’interno del dibattito che si era instaurato attorno allo scontro politico tra Est ed Ovest, tra Russia e America, nonché tacciato di un ‘disfattismo’ che avrebbe peraltro indirettamente favorito l’accrescersi del comunismo internazionale. L’accusa prendeva spunto dalla forte contrarietà da lui mostrata al fatto che l’Europa, in quel momento storico-politico, potesse decidere di posizionarsi entro la sfera di influenza degli Stati Uniti (ma in verità anche dell’URSS), rinunciando pertanto a mantenere una propria autonomia politica.
In effetti, Le Metamorfosi della Città di Dio – opera che intendeva ripercorrere lo sviluppo dell’idea di una ‘società universale cristiana’: da Agostino a Comte passando per Dante – non nascondeva il preciso intento di porsi nell’attuale dibattito post-bellico con uno sguardo propositivo, indirizzato alla ricostruzione dell’Europa.
Molti erano tuttavia i punti controversi: da quelli riguardanti gli effettivi contorni di una cultura cristiana propriamente definibile come ‘europea’, al pericolo che si delineava nella costituzione di un “impero americano”, la quale «[…] federazione mondiale creata e diretta dagli Stati Uniti, poteva, al di là delle migliori intenzioni, “degenerare in un dispositivo tirannico da parte della nazione inizialmente protettrice”. Nel caso della “Federazione mondiale Russa”, non si trattava di un’ipotesi, ma di una “certezza assoluta”[23]».
Ciò che traspare è dunque il timore di Gilson che il dantesco ideale ‘imperiale’ fosse il più suscettibile di poter venir ripreso, manipolato, corrotto e ricondotto ad un’ideologia ‘imperialistica’ (seguendo coerentemente quei processi mistificatori già denunciati da C. Schmitt): il che incidentalmente spiega anche perché, nel saggio, egli veniva a propugnare una società universale che fosse piuttosto impostata secondo la visione filosofico-teologica della res publica cristiana di Ruggero Bacone.
Comunque sia, che Gilson stesse pensando – in una maniera che oggi possiamo ben dire ‘profetica’ – proprio al pericolo di una confusione tra ‘Impero’ e ‘imperialismo’, lo si evince chiaramente da un passaggio del suo testo in cui individuava nei ‘discepoli di Dante’ a lui contemporanei soltanto dei ‘nazionalisti fanatici’. Essi «[…] non vogliono nessun Impero universale, a meno che, s’intende, il loro paese non ne assuma il governo»[24].
Del resto, non vogliamo nemmeno sottacere il fatto che tale pur legittimo timore si accompagnasse comunque ad un evidente errore di prospettiva, in quanto egli proseguiva affermando: «L’universalismo politico di Dante esclude ogni imperialismo nazionalista, ma neppure riposa nell’universalismo della fede; il suo vero fondamento è una fiducia illimitata nel potere che hanno la ragione e la verità naturale di universalizzarsi da sole »[25].
La visione universalistica, ‘multietnica e multiculturale’ dell’Impero dantesco, che riconosceva il proprio modello nell’antico Impero Romano e che Gilson criticava come non sufficientemente eretta sull’unicità della fede cattolica, in realtà non fa altro che obbedire ad un ‘pragmatismo’ che in altre occasioni proprio lo stesso studioso invece lamentava di non scorgere in Dante. A parte il fatto che la Monarchia rimane un trattato teorico che non si prefigge di scendere nei singoli dettagli applicativi, comunque sia, va da sé che l’Impero che Dante preconizza, proprio per l’ampio respiro geopolitico che lo deve informare in quanto Monarchia Universale europea, non può realisticamente presumere di fondarsi su di una totale e assoluta ‘uniformità’ culturale e religiosa. Basterebbe anche solo ricordare che, all’epoca, la Spagna era in parte ancora musulmana e che in tutta l’Europa la presenza delle comunità ebraiche era consistente.
In ogni caso la fisionomia dell’Impero di Dante, sul modello dell’Impero romano e come ogni altro vero Impero, consiste proprio nel costituirsi quale ‘unitario contenitore delle diversità’[26] [27].
Ci si consenta di aggiungere che Gilson, imputando alla dottrina della Monarchia l’errore di nutrire una “illimitata fiducia nella ragione filosofica e nella verità naturale”, sembrava non cogliere quello che Dante pone invece ‘aprioristicamente’ in conto da sincero ‘cattolico’ quale egli è. E cioè, che una ‘grazia sacramentale’ convintamente amministrata e posta a disposizione dell’Impero da un Papato atteggiato ad una benevola ‘sinergia’, piuttosto che ad esso contrapposto con aggressive pretese di ingerenza in temporalibus, non può che ‘infallibilmente’ garantire il ‘supporto spirituale’ della “ineffabile Provvidenza”[28] – da Dante più volte evocata nel corso della propria produzione letteraria – necessario a sorreggere le funzioni temporali imperiali e a garantirne la positiva efficacia.
Val la pena di precisare, nel proposito, che con questo non si vuole certo dire che con l’‘unzione’ ci si debba aspettare di innescare un qualche ‘automatismo’ di carattere oltretutto ‘magico’: Cesare, seppur scelto da Dio, deve continuamente mostrarsi umanamente degno della funzione alla cui responsabilità è stato chiamato: pena la perdita della grazia santificante ed il decadimento di ogni suo potere e diritto[29].
I due ‘fini ultimi’
Una delle questioni più importanti su cui nel secondo saggio Gilson mostra un certo mutamento di ‘sensibilità’, rispetto al il primo, è quello dei cosiddetti ‘due fini ultimi’.
Alla luce di quella erroneamente supposta ‘indipendenza’ dall’Autorità spirituale papale che, sempre secondo Gilson (poi ripreso anche da Fontana), Dante pretenderebbe di assegnare al Potere temporale imperiale, si verrebbe insomma a configurare in maniera altrettanto irricevibile la sussistenza di ‘due fini umani’. Distinti fra loro, essi sarebbero rispettivamente relativi al raggiungimento di una beatitudine temporale (sotto la responsabilità dell’Impero) e di una spirituale (sotto la responsabilità del Papato), a loro volta espresse con l’immagine del ‘Paradiso terrestre’ e del ‘Paradiso celeste’[30].
Per lo studioso francese e alla luce della Rivelazione cristiana, la questione sembra dunque ridursi al dubbio se sia opportuno e non eterodosso accogliere l’idea dantesca dei duo ultima (due fini ultimi) oppure se non sia più esatto ed ortodosso parlare di duplex finis (un duplice fine ultimo), come aveva fatto S. Tommaso.
Notiamo nuovamente come nel saggio Dante e la filosofia Gilson avesse affrontato tale questione con un certo ‘accoglimento’, pur nell’impersonalità scientifica dello ‘storico’. Così infatti egli scriveva: «[…] il paragone fra la felicità terrena e il paradiso terrestre da una parte, la felicità celeste e il paradiso celeste dall’altra, suggerisce una possibile interpretazione. Se la felicità terrena sta alla felicità celeste come il paradiso terrestre sta a quello celeste, si può dire che essa le è ordinata come lo è una prefigurazione rispetto a ciò che prefigura»[31].
Viceversa, ne Le Metamorfosi della Città di Dio egli convintamente affermava: «Il secondo errore che egli commise è ancora più grave e deriva dal suo modo di intendere la subordinazione del temporale allo spirituale. San Tommaso aveva detto e ripetuto che il fine dell’uomo è duplice (finis duplex); Dante dice e ripete che l’uomo ha due fini (fines duo). Non è la stessa cosa»[32].
Peraltro, proprio a commento di quest’ultima presa di posizione di Gilson, Fontana a sua volta così chiosa: «Affermando che ci sono due fini, diventa impossibile gerarchizzarli. Se invece si dice che l’uomo ha un fine duplice, allora si possono gerarchizzare e il fine temporale, pur mantenendosi come fine, può diventare non un fine ultimo, ma essere ordinato ad un fine ulteriore e superiore che non si aggiunge dopo il raggiungimento del primo, ma costituisce anche il primo, secondo il principio di San Tommaso secondo cui il fine ultimo giustifica tutta la sequenza dei fini intermedi che, senza il fine ultimo, perderebbero la loro qualifica di fini»[33].
A prima vista, tale conclusione sembra apparire senz’altro condivisibile: almeno a riguardo dell’ammissione del fatto che il fine temporale può e deve leggersi in quanto ‘ordinato’ a quello celeste e che quest’ultimo ‘non si aggiunge’ al primo, bensì ‘lo costituisce’.
Tuttavia, a parte il non tener assolutamente in alcun conto la distinzione tra ‘gerarchia di dignità e di giurisdizione’, ciò che rimane ambiguo è il carattere di questo reciproco ‘ordinarsi gerarchico’ evocato da Fontana, in quanto trascura di considerare tutta l’implicita valenza, per così dire, ‘necessariamente propedeutica’ del fine temporale a quello celeste. Considerando la beatitudine terrena come un ‘fine intermedio’, in realtà tanto Fontana quanto Gilson la stanno celatamente riducendo piuttosto ad un puro e semplice ‘mezzo’ che non ad un vero ‘fine’, misconoscendone e mortificandone in certo qual modo i reali valore e importanza.
Proprio perché il perseguimento delle due beatitudini non deve venir considerato in senso ‘quantitativamente aggiuntivo’, ovvero come se il Paradiso celeste fosse ‘cronologicamente’ consecutivo a quello terrestre, ebbene la loro relazione dinamica va intesa in un senso ontologico che è ‘qualitativamente coincidente’ e comunque decisamente atemporale: una necessità ontologica alla luce della quale solo nel completo raggiungimento del primo ‘traguardo-finito’ viene a porsi in ‘essere’ il contestuale spalancamento delle porte sul secondo ‘traguardo-infinito’. Del resto è ovvio che durante la vita dell’individuo umano l’azione temporale e spirituale si esercitino contemporaneamente su di lui: e non ‘per fasi successive’.
Chiarificatrici della summenzionata ‘contestualità’ sarebbero peraltro proprio le parole del Cristo crocifisso, allorché così risponde al buon ladrone: «[…] “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”» (Lc 23, 42-43).
Ciò non comporta, per il temporale, né un prevaricamento sullo spirituale, né tantomeno un suo prescindere da esso. Tutto appare svolgersi secondo quel rapporto di sintesi che sussiste tra ‘corpo e anima’ (sinolo); per cui la giusta gestione etico-morale del primo equivale ontologicamente alla meritata salvezza della seconda, oltre che pure di sé stesso[34].
Il corpo, infatti, mantiene una propria qual ‘santità’ (in quanto tempio dello Spirito Santo); né è senza una qual incidenza la circostanza del fatto che quella cristiana sia l’unica, tra le fedi, a credere nella resurrezione anche del corpo: il quale, rivestito di ‘gloria’, nell’eterno si riunisce all’anima[35].
Se in senso traslato l’Impero corrisponde al corpo e il Papato all’anima, ne deduciamo quanto entrambi gli ambiti contribuiscano dunque, ‘sinergicamente’, al medesimo cammino di salvezza entro l’Ecclesia Christi: pur ognuno nel proprio ambito. Di modo che, in conclusione, tra i duo ultima di Dante e il duplex finis di S. Tommaso non scorgiamo alcuna differenza concettuale, quanto semmai, semplicemente, una diversa definizione verbale[36].
La filosofia e la teologia, la natura e la grazia
Nel già citato Laicità della politica: Dante criticato da Gilson, il prof. Fontana oltre al tema dei ‘due fini ultimi’ riprende anche quello relativo al valore che Dante assegna alla filosofia nel proprio contesto politico-dottrinale. La critica verte sulla considerazione del fatto che, sempre sulla scorta dell’‘indipendenza’ che verrebbe reclamata dall’Impero sul Papato, nella Monarchia si verrebbe a riconoscere l’affermata convinzione che la filosofia (nello specifico: quella di Aristotele) debba parimenti bastare a sé stessa nel realizzare l’accordo degli uomini attorno alla verità, rimanendo ‘scissa’ dalla teologia.
Scrive Fontana, sempre chiosando alcune riflessioni che Gilson aveva espresso nel suo Le Metamorfosi della Città di Dio: «Esaminando questi due postulati, Gilson tocca il cuore profondo del problema della laicità (di Dante, N.d.A.). “Il primo – scrive Gilson – era che la ragione naturale era capace, anche se sola e lasciata a se stessa, di realizzare l’accordo degli uomini sulla verità di una stessa filosofia” (p. 181). Su questo, dice Gilson, “il meno che si possa dire è che troviamo difficile aderirvi” (Idem). Il motivo da lui addotto a sostegno di queste sua reticenza ad aderirvi è connesso con tutta la sua opera di storico della filosofia oltre che di filosofo. Il “trionfo di Aristotele nel medioevo” è stato “puramente filosofico e razionale, senza che la fede e la teologia vi influissero minimamente?” (p. 182). Possiamo riscontrare, nella storia della filosofia, una filosofia che sia stata fino in fondo se stessa di fatto e che lo possa essere di diritto senza la rivelazione e la fede cristiane? Su questo punto, sembra dire Gilson, manca la prova storica, mentre c’è la prova storica che in virtù della rivelazione e della fede cristiane è stata possibile la filosofia vera di San Tommaso d’Acquino o, più in generale, della “filosofia cristiana”. Se la filosofia greca fosse entrata nel medioevo rimanendo se stessa, sarebbe rimasta una filosofia naturale sì ma mista ad errori. Il fatto che sia stata assunta dal cristianesimo l’ha purificata, restituita a se stessa in quanto filosofia e, quindi, veramente costituita. La rivelazione e la fede non si aggiungono ad una filosofia naturale già matura e completa, ma la accolgono nei suoi limiti purificandola e rendendola solo allora vera filosofia. Solo la religio vera è capace di darci la vera philosophia»[37].
Senza tener conto della profonda considerazione mantenuta da Dante per S. Tommaso (la Commedia insegna) pur nelle rare distinzioni comunque mantenute rispetto al suo pensiero, rispondiamo innanzitutto che la formulazione che vede la sussistenza di un parallelismo tra la subordinazione in temporalibus dell’Impero al Papato (tesi sostenuta sia da Gilson che da Fontana) e la diretta incidenza della teologia – e quindi della fede – sulla filosofia, non può proporsi allorché basata sulle solite confusioni, da noi già precedentemente indicate e risolte, attorno a ‘laicità e laicismo’ nonché ad ‘autonomia e indipendenza’. In altri termini, ciò che Dante afferma della filosofia non è tanto la sua ‘autosufficienza’ o ‘insubordinazione che dir si voglia, nei confronti della teologia, quanto la sua ‘autonomia’ (nel senso da noi già più volte detto); e ciò nella certezza che la ‘Provvidenza’ non permetterà mai che la verità della prima venga a confliggere con quella della seconda.
Quel che qui appare, in verità, è una sorta di nascostamente tendenziosa manipolazione delle riflessioni del Gilson, operata da Fontana, con cui quest’ultimo mira ad attribuirgli qualcosa di non corrispondente in maniera piena al suo reale pensiero: e cioè che Dante, in fin dei conti, avrebbe aderito alla dottrina filosofica della ‘doppia verità’.
Se questo, da parte di Fontana, vorrebbe suggerire un’‘eretica’ appartenenza di Dante al pensiero averroistico, ricordiamo allora come, su questo problema, Gilson stesso sia stato invece molto più cauto: «Non solo Dante non ha mai professato la subordinazione della teologia alla filosofia, ma si può dire che questa tesi è la negazione di tutta la sua dottrina, o, se si vuole, che tutta la sua dottrina è la negazione radicale di questa tesi. Se non è averroista alla maniera di Averroè, l’autore del Convivio lo è alla maniera dei discepoli latini di Averroè, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia per esempio? Per sostenerlo, bisognerebbe poter citare uno o diversi casi in cui Dante abbia mantenuto, l’una di fronte all’altra, due tesi contraddittorie, la prima posta come necessaria per la ragione, la seconda come vera per la fede. Per quanto ne sappia, il Convivio non presenta neppure un solo caso del genere»[38].
D’altronde, sempre Gilson così si esprime nel merito anche della Monarchia: «La cosa più semplice sarebbe dunque quella di considerare l’atteggiamento di Dante non come un caso particolare dell’averroismo latino, ma come un tentativo di fondare il proprio separatismo politico sulla morale di Aristotele. Si chiarirebbe così il motivo per cui Dante, invece di separare la teologia dalla filosofia per opporle, le separa per accordarle e unirle. L’universo di Dante resta in tal modo tipicamente cristiano, ma lo è a modo suo, e non si lascia ricondurre a nessun altro tipo già noto di universo cristiano medievale. La grazia non vi assorbe la natura, come in Ruggero Bacone ad esempio; non vi penetra la natura dal di dentro, come in S. Tommaso d’Aquino; non viene eliminata a vantaggio della natura, come in Averroè; non si oppone alla natura, come negli averroisti latini del tipo di Sigieri di Brabante; si può dire, piuttosto, che la grazia vi si sovrappone alla natura in dignità e vi si giustappone in autorità, certa di un accordo perfetto che nulla può turbare fintantoché grazia e natura rispetteranno i confini posti da Dio stesso ai loro domini»[39].
Si può essere in disaccordo su questo modo di intendere il rapporto tra ‘grazia e natura’ (che presenta ovviamente una stretta relazione con quello tra ‘spirituale e temporale’ e quindi tra ‘Papato e Impero’), ma tale è il pensiero di Dante; e sulla sua ortodossia cattolica, nonostante alcune sue posizioni personali che lo distinguono da S. Tommaso, non dovrebbero ancora esserci dubbi: soprattutto dopo l’enciclica In Praeclara Summorum di Benedetto XV.
Non ci diffonderemo sull’argomento, in quanto a noi basta semplicemente ricordare la reale evidente statura filosofico-religiosa di Dante, alla luce di quello che si evince dalla sua Commedia. È la sovrannaturale ‘grazia’, triplicemente declinata nelle figure della Vergine Maria, di S. Lucia e di Beatrice, che ivi provvede ad inviare un aiuto, nella figura di Virgilio, alla ‘natura’ di Dante; per la qual cosa possiamo concludere che non sia certo Dante a concepire una natura scissa dalla grazia.
E se la grazia supera e fonda la natura, tuttavia la presuppone pure; senza la natura la grazia non avrebbe oggetto su cui esplicare la propria funzione: da qui l’importanza della prima, in quanto svolge un ben preciso ruolo nelle dinamiche di rapporti con la seconda. Vogliamo dire che se l’azione è svolta ‘attivamente’ dalla grazia, laddove la natura assume invece una posizione di ‘recettività’, tuttavia questa potrà ricevere la grazia solo nel momento in cui lei e solo lei ‘decide’, con il libero arbitrio, di rendersene disponibile. Ed è in questo che risiede il lato ‘nobile’ della natura.
Comunque sia, al di là di ogni critica a Dante, va tenuto nella debita considerazione anche e soprattutto il fatto che il suo cammino dottrinale si svolge secondo un progressivo approfondimento, un ulteriore perfezionamento: esso nasce nel Convivio, traversa la Monarchia e si corona infine nella Commedia. E non ci sembra che, giunto all’apice dell’itinerario, Dante abbia mai pensato di mutare o capovolgere la propria idea imperiale.
La cupiditas e il clericalismo
Non solleveremo nessuna eccezione a quel che Gilson afferma ne Le Metamorfosi della Città di Dio, quando scrive: «ben lungi dal sopprimere l’autonomia di un qualsiasi ordine inferiore, la sua subordinazione gerarchica (del temporale allo spirituale, N.d.A.) consegue l’effetto di fondarlo, di portarlo a perfezione, in breve, di garantirne l’integrità e di mantenerlo. La natura informata dalla grazia è più perfettamente natura. La ragione naturale illuminata dalla fede diventa più integralmente ragionevole. Accettando la giurisdizione spirituale e religiosa della Chiesa, l’ordine sociale e politico si fa più felice e più saggio sul piano temporale»[40].
Quello che invece ci lascia assai perplessi è il prosieguo della medesima riflessione, in quanto vi si legge: «Per quanto diretta essa sia, e sebbene si estenda al campo politico, l’autorità dei papi sul temporale non è né temporale né politica nel senso temporale del termine. Essa non usa degli stessi mezzi, né tende allo stesso fine»[41].
Qui Gilson – evidentemente per i motivi già da noi precedentemente esposti – muta in perplessità il suo giudizio riguardante la distinzione dantesca tra ‘gerarchia di dignità e gerarchia di giurisdizione’, verso la quale non aveva invece mostrato alcuna aperta remora nel precedente saggio Dante e la filosofia.
Infatti, se nella prima parte della riflessione egli pare giustamente limitare ad una ‘giurisdizione spirituale e religiosa’ la supremazia gerarchica del Papato alla luce della sua superiore ‘dignità’ ontologica (e come potrebbe non esserlo, visto che l’Impero di cui Dante parla è un Impero romano e cattolico), nella seconda estende tale supremazia – che peraltro, notiamo bene, egli definisce ‘diretta’ – anche all’ambito temporale, rinnegando quella che dovrebbe costituire la corretta osservanza della gerarchia di ‘giurisdizione’.
Il problema di Gilson, insomma, prende le mosse dal ritenere che i ‘duo ultima’ (propri del temporale e dello spirituale) non tendano ad un medesimo ‘fine’; e ciò avviene in quanto la sua lettura non tiene conto di quanto abbiamo precedentemente inquadrato come la dottrina della partecipazione trascendentale e predicamentale, collegata peraltro anche a quella dell’analogia.
Alla luce del fatto che la ‘partecipazione’ pur essendo ‘doppia’, o meglio ‘posta su due piani’, in quanto tale rimane ‘contestualmente una’, si comprende come il ‘fine’ beatifico raggiungibile alla luce di una ‘partecipazione’ sia parimenti unico: pur se distinto secondo le suddette due prospettive ontologiche. Così come del resto è ‘uno’ il ‘Paradiso’, seppur ontologicamente differenziato in ‘terrestre e celeste’.
La difficoltà rimane, ancora e sempre, quella di riuscire ad operare un ‘salto di qualità’ oltre la quantità, riuscendo a intuire atemporalmente i suddetti ‘due fini’ come ‘essenzialmente contestuali’ – alla luce di una reciproca ‘analogia’ – pur nella loro ‘distinzione’ temporale.
Ancora una volta ci sembrano chiarificatrici, in maniera determinante, le riflessioni di p. Cornelio Fabro, laddove scrive che il ‘principio della contiguità metafisica’, importantissimo nella visione tomista del creato, «[…] viene ad innestarsi, poiché ne è una conseguenza, al principio di finalità. Il mondo è interiormente finalizzato: ecco il punto di partenza. Ora chi dice finalità, dice ordine, dice gerarchia, e la gerarchia suppone la realizzazione di qualcosa che è comune nei vari gradi e che insieme è diversamente presente, perché altrimenti non sarebbero gradi. Il principio esige quindi somiglianza e dissomiglianza, o somiglianza-dissomigliante, dissomiglianza-somigliante che non è altro che il principio stesso dell’analogia metafisica»[42].
In altre parole, tutto è finalizzato al medesimo fine che è Dio; e ciò in una continuità ontologica degli esseri che procede secondo anelli di una catena fondata sulla sempre maggior similitudine formale.
Sostenere poi che “l’autorità dei papi sul temporale non è né temporale né politica nel senso temporale del termine” vuol dire vedere la questione da un’ottica semplicistica, perché univoca. Non si può infatti negare l’evidenza del fatto che il Papa (ma questo vale anche per l’Imperatore) al di là della propria ‘funzione’ è, sempre e comunque, anche un uomo calato nel ‘temporale’. L’individuo investito di un’‘autorità’ non esercita la propria funzione prescindendo totalmente dalla propria ‘volontà’; e non è quindi di secondaria importanza tenere in conto ciò che potrebbe determinare la sua caduta in quel che Dante indica come la cupiditas: il che è vulnus conseguente alla condizione ontologica derivata ad ogni uomo dal ‘peccato originale’. L’Infallibilità papale è del resto garantita solo quando egli parli ex cathedra e non come individuo.
Ci sembrano esatte, in proposito, le parole di Augusto Del Noce quando agli inizi degli anni settanta, pensando alla Democrazia cristiana di allora e alla commistione di laicismo e clericalismo nella politica dei cattolici, scriveva: «Se clericalismo vuol dire politicizzazione del clero coincidente con la debolezza della religione e la perdita di autorità morale del clero stesso, mai forse il fenomeno si è presentato in forma così accentuata e religiosamente così pericoloso; perché tale politicizzazione coincide nelle sue conseguenze ultime con quella che oggi vien detta la concezione “orizzontale”, volta alle realtà terrene, della vita religiosa […]. Ne risulta che, dal punto di vista religioso, c’è oggi bisogno come non mai di un anticlericalismo di tipo dantesco; che del resto fu pensato in tempi in cui si approssimava una crisi religiosa che non è senza analogia con la presente»[43].
Questa valutazione prendeva spunto dalla riflessione di Giacomo Noventa, per il quale «il clericalismo è il vizio e il pericolo di tutte le religioni e non consiste nell’affermare le necessità del clero, del culto, della confessione, della parola, che tutte le religioni giustamente riconoscono, ma nel proclamarne la sufficienza, […] consiste cioè nell’attribuire al clero l’incarico di essere religioso (e politico, N.d.A.) anche per noi, di difendere la religione anche per noi, e nell’attribuirgli tutti i doveri e tutti i diritti che ne derivano»[44].
In altre parole, proprio alla luce di tutto ciò, secondo Del Noce “non è che Dante intenda combattere la cupiditas del clero per salvare l’autonomia dello Stato”, quanto piuttosto è “l’esigenza di permeare compiutamente di religione la vita pubblica che lo porta alla distinzione degli ordini»[45].
La consapevole attenzione che Dante mantiene sulla distinzione da operare tra l’‘individualità’ umana di coloro che esercitano l’Ufficio papale o imperiale e la ‘sovra-individualità ‘ della propria funzione, è peraltro sottolineata da Gilson stesso, nel merito di un’ulteriore obiezione dantesca, presente nella Monarchia, contro i difensori del primato papale in temporalibus: «La maggioranza ragiona così: Dio è il sovrano del temporale come dello spirituale; ora, il Sommo Pontefice è il vicario di Dio, dunque il Sommo Pontefice è signore del temporale come dello spirituale; il che sarebbe vero se il vicario di Dio fosse Dio egli stesso. Nessun vicario, sia divino che umano, è uguale a colui di cui è vicario. La prova è che egli può ricevere l’autorità, ma non conferirla a sua volta. Aggiungiamo che egli non può mai tutto ciò che è possibile al suo capo, come è chiaramente manifesto nel caso del papa, la cui autorità, che viene da Dio, non comporta né il potere di fare miracoli né quello di creare. Nessun capo può farsi sostituire da un vicario che sia pari a lui e l’idea stessa è assurda; infatti un vicario non può far nulla se non in virtù del potere del suo capo (cfr. Monarchia III 7)»[46].
Da ciò si evince non solo l’irregolarità di un primato papale in temporalibus, ma anche la necessità di mantenere la ferma consapevolezza del fatto che l’individuo umano, chiunque esso sia, non è automaticamente immune dalle conseguenze del ‘peccato originale’ che poi, come già ricordavamo, è ciò che lo rende suscettibile di cadere nella cupiditas.
Dunque, il possesso dell’‘autorità politica o religiosa’ rimane di carattere ‘sovra-individuale’, in quanto ricevuta solamente ‘in gestione rappresentativa’ da Dio, e pertanto decade laddove l’uomo ne tradisca la retta e corretta amministrazione. Discorso questo che innesca però ulteriori problematiche, soprattutto in merito all’‘infallibilità pontificia’, nelle questioni di fede, e all’‘infallibilità imperiale’, nelle questioni dell’amministrazione della giustizia. Ma su ciò non ci soffermeremo in questa sede.
Autorità diretta e indiretta del Papato
Per ritornare specificatamente alla problematica di un’opportunità o meno dell’autorità del Papato esercitata sul ‘temporale’, dobbiamo dire che Gilson non affronta mai in dettaglio quella che è la differenza tra la dottrina della potestas directa oppure indirecta in temporalibus del Papato, su cui peraltro oggi si ritorna ancora a dibattere negli ambienti cattolici più tradizionalisti.
Nella citazione che abbiamo poc’anzi riportato (cfr. supra nota 41), abbiamo visto come egli la definisca ‘diretta’; tuttavia esistono altri luoghi in cui egli allude fugacemente anche alla sussistenza di una concezione dell’autorità papale in quanto ‘indiretta’: specie quando la riconduce a quella che è propria di S. Tommaso[47].
Comunque sia, la questione è della massima importanza allorché relazi

