Avanti sì, ma come?
di Antonio Catalano - 10/11/2025

Fonte: Antonio Catalano
La storia umana non procede secondo un piano prefissato, non avanza dal peggio al meglio lungo una linea evolutiva “progressista”. Progredire vuol dire andare avanti, un andare avanti reso possibile grazie innanzitutto al continuo miglioramento della tecnica, che ha permesso all’umanità di fare ciò che mai prima poteva neanche immaginare.
Eppure la tecnica, come dice Carlo Galli in una recente intervista, non evolve automaticamente, ma secondo decisioni prese, perché c’è sempre un qualcuno a stabilire se si debba oppure no andare in una certa direzione. Essa non si è sviluppata quindi nell’unico modo possibile.
Un paio di esempi, tanto per spiegare questo punto. Entrambi riguardano un mondo lontano, ma a cui noi europei dobbiamo tanto, la Cina.
1. Qui la polvere da sparo fu inventata intorno al IX secolo a.C. Purtuttavia, nel vasto e antico impero in cui era tenuta in alta considerazione istruzione e scambio di idee; in cui v’era un florido commercio; in cui si finanziavano attivamente ricerche in medicina, agricoltura, ingegneria; in cui era stata già inventata la carta e la stampa… questa invenzione non fu utilizzata come invece fecero gli europei dopo averla “scoperta” solo quattro secoli dopo.
2. Molto prima che Colombo scoprisse il nuovo continente, i cinesi già da secoli affrontavano lunghi viaggi oceanici (penisola arabica, costa pacifica americana, costa orientale africana, e non doppiarono il Capo di Buona Speranza per arrivare in Europa… perché per loro non era “attrattiva”). La flotta imperiale era dotata di numerose navi, di dimensioni notevoli. Per meglio dare l’idea della superiorità delle navi cinesi, lo studioso inglese J. M. Hobson ha accostato in un disegno una di queste (neanche delle più grandi), del mitico ammiraglio Cheng Ho, alla caravella di Colombo. Il risultato è davvero imbarazzante, la caravella, lunga 85 piedi (25 metri circa), poteva essere trasportata come scialuppa di salvataggio sul ponte della nave cinese ritrovata nel 1932, lunga 536 piedi (171 metri circa). Navi non solo enormi, ma dotate di una sofisticata strumentazione: vele capaci di utilizzare anche il vento contrario, sestante, timone collocato a retro poppa, propulsione a pala in caso di necessità, compartimenti stagni (introdotti in Europa solo nell’Ottocento). L’ultimo viaggio oceanico di Cheng Ho fu del 1433, dopo di che il nuovo imperatore, per rilanciare la produzione agricola interna, soprattutto sul lungo periodo, decise di sacrificare il commercio esterno, quindi si smantellò – fisicamente – l’imponente flotta.
Questo per dire? Che la decisione cinese fu dettata non dalla legge universale del “progresso”. Ha ragione quindi Carlo Galli quando dice che esso non evolve automaticamente. L’impero cinese decise che quel progresso non era accettabile per quella Cina, compì quindi una scelta, criticabile certo, comunque una scelta. Se l’imperatore, in accordo coi Mandarini, avesse deciso di non affondare la propria flotta la Cina avrebbe conosciuto un diverso futuro. Da ciò deriva la questione, fondamentale, che il progresso non è un valore in sé, bisogna considerarlo alla luce dell’impatto sociale che esso determina.
Dalla rivoluzione industriale in poi, il “progresso” ha costantemente determinato la riduzione di forza-lavoro umana, con le macchine sempre pronte a sostituirla provocando così reazioni dure e anche violente (vedi luddismo), purtroppo impotenti. Oggi il “progresso” pone con forza la sostituzione della forza-lavoro umana con quella robotica comandata dalla IA. Ma ciò non comporta “liberazione” dal lavoro. Se l’uomo (inteso come specie) col lavoro alienato perde parte di sé senza lavoro diventa povero col rischio di abbrutirsi, altro che attività “artistiche”. Se poi ci mettiamo l’uso della bassa manovalanza a buon prezzo fornita dagli immigrati fatti arrivare grazie a flussi ininterrotti perché-se-no-l’economia-non-gira (il presidente della Cei monsignor Matteo Zuppi qualche giorno fa ha detto che l’immigrazione è «necessaria. Se si parla con qualsiasi industriale in Emilia-Romagna dice che non c’è futuro senza»), il quadro diventa davvero fosco.
Condivido in pieno quanto scritto recentemente da Riccardo Paccosi in “Progresso e conservazione…”, che tutto ciò che è riconducibile a un’idea di giustizia sociale – sanità gratuita, istruzione gratuita, pensione garantita, sostegno alla maternità, sostegno al reddito e all'occupazione – oggi si pone in una prospettiva che è l'esatto opposto di quella progressista, ovvero si tratta d'una prospettiva che implica necessariamente protezione e, pertanto, conservazione.
E qui il progressista medio comincia ad arricciare il naso, perché conservazione fa rima con reazione… la sua sbiadita se non vuota memoria rimanda a quell’andare sempre avanti, a quel progresso che alla fine sfocia nel sol dell’avvenire senza assolutamente rendersi conto che quel concetto di progresso era sostanzialmente da intendersi come avanzamento sul piano delle conquiste sociale, come giustizia sociale.
Il “progresso” amato dai progressisti contemporanei è una folle corsa per un avanti prometeico, è la celebrazione fideistica della superiorità della tecnica subordinata a un’ideologia contrabbandata per scienza, laddove la scienza non è dogma ma formulazione di ipotesi sulle quali lavorare. La scienza della “comunità scientifica” è la camicia di forza della libera ricerca, è pratica governata da colossali interessi (mai prima esistiti in così tanta consistenza e capacità di condizionamento, vedi settori farmaceutico e armamenti).
A queste condizioni il “progresso” diventa azzeramento di qualsiasi riferimento al passato, dal quale piaccia o non piaccia tutti noi discendiamo, diventa pazza corsa verso il nulla, diventa quella follia transumanista che affligge il senso morale della contemporaneità, diventa quel furore ideologico per cui non si può più neanche affermare che le donne restano incinte… mentre dalle piccine menti prive di coscienza storica osannanti il Progresso come superamento dei vecchi pregiudizi non si intravede altro rimedio per contrastare il disturbante diffuso malessere se non quello di impartire lezioni di affettività a bambini e ragazzini.
L’utopia liberal-cosmopolita-progressista non piace ai popoli, semplicemente perché essa contiene il nulla, l’abisso nel quale sfracellare la propria identità, il senso di sé. Ma dire utopia è anche sbagliato, utopia letteralmente significa “luogo buono”, meglio dire distopia, letteralmente “non luogo”. Insomma, una distopia liberal-cosmopolita-progressista propagandata da disturbate élite al solo fine di annichilire i popoli.
Conservare. Innanzitutto l’immenso patrimonio alla base del presente, preservarlo dalla furia distruttrice della cancellazione, della damnatio memoriae, perché non v’è peggior razzismo che il rinnegamento dei propri avi. Conservare, non rinnegare i valori tradizionali, soprattutto non irriderli, ma non per guardare indietro e precipitare nella stagnazione, ma per mirare allo sviluppo.
Diceva bene Putin nel 2013 quando affermava che «molti paesi euro-atlantici si trovano oggi sulla via del rifiuto delle proprie radici, inclusi quei valori cristiani che costituiscono il fondamento della civiltà occidentale. Si rifiutano i principi morali e ogni identità tradizionale: nazionale, culturale, religiosa e persino sessuale».
Citiamo un altro russo – inutile far finta di ignorare che lì il pensiero ha radici profonde –, Nikolaj Berdjaev. Egli giustamente dice che il senso del conservatorismo non sta nel bloccare il movimento in alto o in avanti, ma nell’ostacolare il moto all’indietro e verso il basso, il buio caotico, il ritorno allo stato barbarico. Per questo, è sempre Berdjaev, mai come oggi c’è bisogno di una rivolta ideale, di un colpo di reni per tentare di interrompere il moto all’indietro e verso il basso e imprimere una spinta che riporti il senso comune nella coscienza impazzita dell’homo sapiens occidentalis.

