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Babilonia Occidente. Crisi della verità, fine della libertà

di Roberto Pecchioli - 09/11/2023

Babilonia Occidente. Crisi della verità, fine della libertà

Fonte: EreticaMente

La verità rende liberi, scrive Giovanni, l’evangelista filosofo, trasferendo nel cristianesimo l’amore per il vero del grande pensiero greco. Socrate affronta la morte per ribadire la parresia, il diritto dovere di esprimere la verità. Platone, attraverso il mito della caverna, stabilisce la relazione tra la verità e la luce, poiché l’ ombra è scambiata per realtà dai suoi abitanti. I presocratici, attraverso la ricerca dell’ archè, l’origine, ricercavano la verità, la risposta alle domande che tormentano l’uomo da quando si è riconosciuto sapiens, la creatura diversa da ogni altra.
L’epoca nostra, al contrario, è quella della crisi della verità, della negazione della realtà. L’Homo Deus, creatore di se stesso, ha un pessimo rapporto con ciò che lo circonda, che vede ed esperisce. La modernità è stata fondata sul culto della ragione, ma anche dalla convinzione che la realtà non sia che percezione, rappresentazione. E’ la lezione di Kant e, in parte, di Hegel. La ragione revoca la verità in nome dell’esattezza, sulle tracce della descrizione della fisica di Isaac Newton. Ciononostante, l’ orgoglioso homo faber finisce per vedere la realtà come specchio mediato dalla sua coscienza. E’ l’eclissi del solido realismo – sostenuto dalle fede trascendente – di Tommaso d’Aquino, che cacciava dalle lezioni chi non credeva che la mela posta sul tavolo fosse davvero una mela.
Un preambolo necessario per introdurre la crisi, il tramonto della verità nel tempo sospeso che ci è toccato in sorte. Lyotyard lo chiamò post modernità per la fine delle grandi narrazioni veritative. Un acuto pensatore contemporaneo, Byung Chul Han (di lingua tedesca, ma coreano, a comprova della decadenza europea) avverte che le narrazioni degradano a informazioni: infocrazia. E’ la società digitale – ossia basata sulla cifra – che non racconta ma conteggia, calcola, accumula ed elabora dati, il cui scopo è l’utilizzo tecnologico e previsionale per “ri-creare” la realtà.
Ci muoviamo in una paradossale post-post modernità. Postera di qualcosa che già non era in grado di definirsi se non rispetto a un precedente, la modernità, tautologia del presente, “modo odierno”. La frazione di mondo che mente a se stessa denominandosi Occidente senza riferimento alla geografia e alla storia vive a Babilonia. L’ Unione Europea ne ha perfino assunto il simbolo, il palazzo inconcluso proteso verso il cielo degli uffici dell’Unione. Il riferimento diretto è alla Torre di Babele del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. Unica testimonianza, dalla simbologia assai chiara, dell’ascendenza della nostra (ex) cultura comune.
Nella Genesi, Dio, sconcertato dall’arrogante volontà degli uomini, dalla loro assenza di limiti, decide di confondere le lingue, disperdendo l’umanità che innalzava la torre infinita. Da allora, Babilonia è sinonimo di confusione, disordine, assenza di punti in comune. E’ il contrario di comunità e di società. Ognuno parla un linguaggio diverso: il risultato è la fine della verità, l’abolizione della realtà. Questo è oggi l’Occidente: il progetto dell’Unico, dello smisurato, dell’illimitato che si infrange contro la natura e finisce per negarla.
Le sue vittime sono la realtà, la verità, la natura, ostacoli all’uomo Dio convinto di dominare le forze materiali. Per questo deve negare, negare sempre, l’esistenza della verità. Per G.B. Vico, sulle piste della sapienza antica, verum factum est: la verità è il fatto stesso. Nulla di più estraneo a Babilonia, che ricrea la realtà, nega le leggi della natura per sottometterle a una volontà di potenza che sfida la verità.
Raramente nella storia si è sviluppata una civiltà tanto tenacemente nemica della verità, ossia della realtà. La prima reazione è rivendicare l’esistenza della realtà e quindi della verità. Il mondo non è una rappresentazione, né una costruzione mentale della creatura uomo, tantomeno è la percezione che ne abbiamo soggettivamente. Esso è, sussiste, indipendentemente da noi. Ecco una prima verità, dolorosa per l’ orgoglio umano. Un verso del poeta inglese Swinburne suona così: dormi e sii felice mentre il mondo continua ad esistere.
Il principio-verità non nega il dubbio finalizzato alla scoperta, né la libertà, poiché libero, personale è l’approccio al vero di ciascun uomo. Non è estraneo neppure all’interpretazione individuale, che nel linguaggio dei filosofi si chiama ermeneutica. Verità è anche corretta interpretazione. Il titolo dell’opera fondamentale del maggiore esponente dell’ermeneutica, Hans Georg Gadamer, è Verità e metodo. Il pensatore tedesco rivaluta la categoria di pre-giudizio, ossia la verità empirica ricavata dall’esame di fatti, cose e persone che ogni generazione consegna alla successiva per orientamento, “cassetta degli attrezzi” con libertà di accoglierla o disfarsene. Con un limite invalicabile, la convergenza tra vero e fatto dianzi citata. Non invano per gli antichi “contra factum non valet argumentum”.
La post postmodernità, invece, abolisce i fatti e perfino le interpretazioni comuni, chiusa in un soggettivismo radicale che nega la realtà. Si tratta di una posizione culturale tipicamente contemporanea: decostruzione, ossia smontaggio progressivo di ogni certezza, convinzione, principio, sull’altare di una libertà di giudizio trasformata in arbitrio. Solo la scienza sembra abilitata a esprimere verità, benché il suo compito, il disvelamento delle leggi della natura (invariabili, solide, permanenti) si limiti ormai a fornire supporto al vero demiurgo contemporaneo, la tecnica. Ma techne, “come si fa”, non esprime verità, è solo un meccanismo. Più esigente è la scienza, che procede per ipotesi, non pretende di possedere la verità e accetta la confutazione.
Ciò che non si può confutare è l’evidenza di ciò che constatiamo. La post postmodernità invece lo fa, procedendo allegramente verso l’abisso. La Genesi affermava “maschio e femmina li creò” esprimendo una verità autoevidente; la post civiltà proclama il contrario, ossia che i sessi – detti “biologici” per evitare il confronto con i termini che richiamano la natura e le sue invarianze – sono costrutti culturali, invenzioni dell’uomo-Dio, mentre infiniti sarebbero i “generi”, confusi con gli “orientamenti sessuali”, un espediente linguistico per negare l’esistenza dell’ istinto di riproduzione della vita legato alla polarità sessuale maschio-femmina.
Evidenze la cui negazione in altri tempi avrebbe esposto a diagnosi di malattia mentale, quali la gravidanza prerogativa femminile, sono negate e sussunte nell’onnivora categoria di costruzione culturale. La verità – ripetiamolo con forza – è che l’uomo è un misto di natura e cultura la cui presa d’atto è adesione al principio di realtà. Negate verità chiarissime a ogni tempo e civiltà, la china è la fine del principio di realtà e la trasformazione della libertà in capriccio. Purtroppo tale deriva è amministrata dal potere, che arriva a punire con sanzioni penali chi si azzardi a contraddire la “neo-verità”. C’è chi ha perduto la cattedra per avere ribadito che solo la donna partorisce mentre è ormai temerario asserire che i sessi sono due.
Il mondo diventa rappresentazione, spettacolo organizzato in cui nessuno riconosce una proposizione veritiera da una falsa. Oppure aderisce senza riflettere alla “verità ufficiale” precostituita dal potere, padrone delle armi culturali, delle conoscenze tecniche e delle tecnologie per separaci dalla realtà, ossia dalla verità. E’ una forma di schizofrenia, di scissione, nella quale è vero ciò che viene spacciato per tale dall’apparato della comunicazione. Verità è la versione ufficiale. Il mezzo diventa il messaggio: la verità è la mia, devi crederci poiché i tuoi occhi, il tuo cervello, il tuo istinto e la tua ragione mentono. Verità è ciò che noi affermiamo vero.
Nulla che gli antichi non avessero compreso: nella Repubblica di Platone, Trasimaco, mediocre pensatore, afferma che il giusto è l’utile del più forte. Ovvero, la verità è subordinata al potere. Con un salto di venticinque secoli, diventa legittimo, ad esempio, il Digital Service Act dell’Unione Europea, che sottomette la diffusione di notizie e idee al potere, unico abilitato a conferire il certificato di veridicità. Ecco perché la crisi della verità è l’agonia della libertà. Se infatti la verità è una – non esistono la “mia”, la “tua” verità” – infiniti sono i modi per accedervi, tanti quanto l’uomo. Ma non possiamo confondere la verità con l’opinione.
Il fine del pensiero è raggiungere la verità e proclamarla. Oggi manca la “preoccupazione per la verità” (Byung Chul Han). L’assenza di quel riferimento fondamentale ci rinchiude in una caverna, digitale ma non meno spessa di quella platonica. Compito della conoscenza è riconoscere la verità, che davvero rende liberi. La domanda seguente è purtroppo decisiva, e la risposta inquietante: l’uomo vuole la libertà? Formulato in altro modo, il quesito è: abbiamo la forza – e la volontà – di sopportare la verità? I compagni dell’uomo uscito dalla caverna tentarono di ucciderlo quando tornò per svelare l’esistenza di un mondo diverso dalle ombre in cui erano immersi.
Chi esprime verità sgradite non è creduto o perseguitato. Fu la sorte di Cassandra e di Laocoonte, unico troiano a diffidare del cavallo di Ulisse. Timeo Danaos et dona ferentes, temo i Greci anche quando recano doni, gli fa dire Virgilio nell’Eneide. La verità turba l’ ‘epoca che rimuove il male, la complessità, la sofferenza e finanche la morte. Meglio menzogne piacevoli a scomode verità. La verità libera solo chi ha la forza morale di accettarne le conseguenze. La suprema arte del potere odierno è di farci amare la menzogna e praticare il conformismo in nome, sissignore, della libertà.
Scrisse Goethe che non vi è peggior schiavo di chi si crede libero. Esortava a ribadire la verità “ poiché il falso viene predicato senza posa. E non da pochi, ma da moltitudini. Nella stampa e nelle enciclopedie, nelle scuole e nelle università, il falso domina e si sente felice e a suo agio nella consapevolezza di avere la maggioranza.” Ciò è ancora più vero nelle società di massa, in cui gli individui diventano folle indistinte convinte di possedere la verità perché sono vietati il confronto, il giudizio, la libertà.
Dove tutto è liquido, fluido, cangiante, non c’è posto per la verità, che è solida, immutabile e non si può mettere ai voti. Per Hannah Arendt, la verità ha “la solidità dell’essere”, un difetto al tempo dell’avere e del frammento, il lampo che lascia immediatamente spazio alla sequenza successiva. L’ inesistenza della verità è innalzata a supremo atto di liberazione dell’individuo. Nichilismo distruttivo, assai diverso da quello di Nietzsche, il cui nichilismo attivo alla fine si risolse nell’elogio della verità come necessità. “Una volta venuto meno il valore assoluto della verità posto come convenzione, allora ha inizio l’impulso alla verità. Esso è una convinzione morale della necessità di una salda convenzione perché possa esistere una società umana. L’uomo, alla fine, deve fissare la verità e trovare una definizione valida e vincolante delle cose”.
Se anche il grande solitario anelava alla verità – pagando con la pazzia quell’anelito – significa che l’umanità della verità ha bisogno. Per camminare sicura, essere libera, orientarsi nella realtà. Perciò il potere è nemico della verità, che ne disvela gli inganni e ne denuda la violenza. Uscire da Babilonia è allora recuperare un percorso comune, un lacerto di verità che rende liberi. Non ci sono verità medie, esattamente come mezze libertà. Non ci possono essere sfumature, a differenza della menzogna. “La tua verità. No, la Verità, e vieni con me a cercarla. La tua, tienitela”. (Antonio Machado)