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Ballando con la morte

di Marcello Veneziani - 01/12/2025

Ballando con la morte

Fonte: Marcello Veneziani

Il suicidio assistito di Alice ed Helen Kessler è stato salutato dai media italiani con un’ondata di ammirazione corale, come un atto razionale, civile, etico, esemplare. Ma la loro fine programmata e curata nei particolari, fino a disdire gli abbonamenti ai giornali, lascia un interrogativo gemellare, ambiguo. Che figuro in un’immagine, il ricordo infantile di un teatrino delle marionette: Pulcinella balla con la sua Colombina, felice di stringerla tra le sue braccia ma quando nella danza la sua amata si girava, Pulcinella si accorgeva di ballare con la Morte e se ne ritraeva inorridito. La stessa ambiguità sembra suscitare ora il ricordo delle Kessler: erano l’espressione di un’epoca spensierata, di un’Italia canterina e ballerina, tra dadaumpa e notti piccole, immersa nell’atmosfera gioiosa e giocosa di un sabato sera festoso e luccicante; e alla fine sono diventate le testimonial di una decisione macabra e cupa, definitiva: il suicidio assistito.
Le gemelle Kessler erano la rappresentazione più iconica, come oggi si dice – spesso a sproposito – di un’epoca, di un clima, di un modo di vivere allegro e sbarazzino. Nell’immaginario collettivo il duo Kessler era il più bel quadrupede umano apparso in video. Le loro quattro gambe sincronizzate facevano sognare gli spettatori e suggellavano a passo di danza la fiduciosa leggerezza con cui un Paese marciava insieme verso l’avvenire.
Ma col gesto premeditato di togliersi la vita alle soglie dei novant’anni, quel modello di ottimismo e fiducia si è capovolto in un funesto messaggio: decidere e programmare la propria morte per prevenire malattie, dolori e decorso naturale della vita e per risparmiarsi l’ombra malinconica della depressione senile. Così le due tedesche sono diventate sui media un modello di riferimento per la popolazione anziana che s’inoltra nella vecchiaia, suggerendo di anticipare le malattie letali e la morte, scegliendo la scorciatoia di una morte pilotata. Non siamo davanti ai casi limite di malati terminali e incurabili, tra sofferenze atroci o accanimento terapeutico; qui si tratta di un deliberato suicidio assistito, in piena lucidità, motivato da uno stato depressivo e dagli inevitabili acciacchi dell’età. Un gesto di sovrana autonomia nel disporre della propria vita e della propria morte.
L’unica particolarità che colpisce nel suicidio gemellare è la decisione di morire insieme, dichiarando che nessuna delle due avrebbe voluto sopravvivere all’altra; diventando così un ulteriore suggerimento per le anime gemelle, non necessariamente tali per ragioni biologiche ma anche solo affettive, per legame di coppia.
La vera questione è la convinzione che la nostra vita sia interamente ed esclusivamente nelle nostre mani; tocca a noi decidere quando, come e magari con chi andarcene per sempre. Dopo aver dichiarato morto Dio con la religione e il fato, morta la Natura col suo ordine, la realtà e le sue leggi, morta la famiglia con i genitori, i figli e i loro legami, morta la tradizione con la storia, la memoria e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la Natura, il destino e il decorso della vita. Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la libertà di sopprimerci, quando riteniamo che sia giunto il momento per farlo. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita; e nel nome del pensiero negativo prevalente lo esercitiamo fino alla morte. L’eutanasia o il suicidio assistito è oggi l’unico messaggio dominante che riguarda il passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le impronte, le eredità che lascia, e nemmeno il naturale decorso biologico ma la possibilità del singolo di tagliare la corda, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. La recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno: non prelude alla nascita ma alla morte. L’eutanasia/suicidio è l’ultimo decisionismo dell’occidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, a trovare una via di fuga individuale. Autonomi nella negazione, libertà come facoltà di morire. 
Fino a pochi anni fa l’unica sfida alla morte, riconosciuta e rispettata, era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la patria, come facevano gli eroi, morire per l’onore, per i propri cari o per una Causa che trascende la vita singola. Perché la vita personale era meno importante rispetto a principi, valori, legami che sopravvivevano al destino dei singoli individui. Inconcepibile oggi. Chi offriva la propria vita sapeva che la sua morte non coincideva col nulla, ma era solo la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la sua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta.

Nessuno vuol rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte nell’atto di andarcene in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte, Dio o la malattia, è il tema del nostro tempo e ci investe profondamente e radicalmente. La scelta non divide solo i credenti dagli atei, ma chi crede che la nostra vita sia interamente nostra e chi invece ritiene che non fummo noi a decidere di venire al mondo, e non saremo noi a decidere di lasciarlo e a stabilire quando.