Calcolo o errore?
di Enrico Tomaselli - 23/12/2025

Fonte: Giubbe rosse
Com’è noto, l’operazione Al Aqsa Flood ha generato innumerevoli polemiche ed interrogativi, in particolare in ordine al fatto che i servizi di sicurezza israeliani sapessero in anticipo dell’attacco, e delle relative speculazioni in ordine alla mancanza di adeguata prevenzione, da taluni attribuita ad un difetto d’intelligence, da altri ad un piano consapevole, un calcolato laissez faire, finalizzato a precostituire una sorta di giustificazione per le devastanti azioni genocidarie successivamente messe in campo da Israele.
Poiché si tratta in effetti di una questione rilevante, soprattutto per analizzare gli aspetti operativi che costituiscono il cuore di questo libro, è necessario cercare di fare prioritariamente chiarezza su questo aspetto. Ovviamente tenendo presente che, al momento, tutto ciò che può essere detto e scritto è puramente deduttivo ed ipotetico, poiché non abbiamo alcuna certezza acclarata, né in un senso né in un altro.
Ciò su cui possiamo convenire è la presenza di una serie di segnali, e di circostanze quanto meno inconsuete, che avrebbero potuto produrre – da parte israeliana – la messa in atto di misure finalizzate a prevenire o contenere l’attacco palestinese. Non ha senso qui prenderle singolarmente in esame, per valutarne l’eventuale valenza come segnale d’allarme o meno; ciò che si proverà a fare è piuttosto un ragionamento complessivo su questo insieme di elementi, o meglio, sulla valutazione che ne è stata fatta, e soprattutto sul perché sia stata fatta.
Per chi fosse interessato ad un approfondimento più specifico, si può fare riferimento ad uno studio dell’IRSEM, Institut de recherche stratégique de l’École militaire, pubblicato da Clément Renault, ricercatore di intelligence, guerra e strategia presso l’Istituto, sotto il titolo “Surveiller sans voir” [1], a cui questo articolo è in parte debitore.
Nello studio di Renault si sottolineano in particolare alcuni aspetti del sistema di sorveglianza e controllo, gestito sia dallo Shin Bet – il servizio di sicurezza interno – che dall’Aman – il servizio di sicurezza militare. E, più ampiamente, sul sistema militare-politico che si è confrontato con quei segnali summenzionati, e che li ha valutati.
Va detto subito, come del resto si intuisce dal titolo dello studio, che l’opinione di Renault è che si sia trattato di un difetto d’intelligence, quindi non di una mossa calcolata. Laddove per difetto non si intende la mancanza di elementi, ma un deficit di capacità interpretativa degli stessi.
Un primo significativo argomento, a sostegno di questa tesi, è la considerazione – se vogliamo così ovvia da essere persino banale, ma che forse proprio per ciò non viene quasi mai tenuta in conto – che gran parte di quello che appare evidente e perfettamente logico (e che spinge a ritenere pertanto impossibile che nessuno se ne sia reso conto prima del 7 ottobre), è in effetti tale soprattutto perché poi gli avvenimenti si sono realmente verificati, e quindi, guardando i famosi segnali ex post, essi appaiono perfettamente coerenti con ciò che sappiamo. Visti in prospettiva, insomma, ed alla luce di quanto accaduto, gli elementi appaiono come tasselli di un puzzle, in cui ciascuno si connette chiaramente agli altri in un unico disegno. Ma, ovviamente, il punto è che quegli elementi sono stati osservati e valutati prima che il puzzle si completasse, e quindi quando ancora il disegno finale non era disponibile.
Un argomento concettualmente simile, che però non si trova nello studio dell’IRSEM, è che – del tutto naturalmente – la valutazione ex post è anche una valutazione selettiva. Ovvero tiene conto di tutti gli elementi che, visti appunto all’indomani dei fatti, appaiono indiscutibilmente come chiare avvisaglie degli stessi; ma al tempo stesso non tiene conto di quelli non coerenti, e soprattutto dell’effetto rumore bianco.
Come sappiamo, la Striscia di Gaza era sottoposta ad una sorveglianza estremamente massiva e penetrante, che si avvaleva di innumerevoli strumenti, prevalentemente tecnologici [2], il cui risultato pratico però era una mole enorme e continua di dati, che affluivano alle agenzie preposte (come già detto, lo Shin Bet, l’Aman – in particolare l’Unità 8200 [3], ed anche la divisione Gaza dell’IDF). Ne consegue che all’interno di questo flusso vi fossero sia segnali insignificanti, sia segnali rilevanti (che però non avevano poi seguito operativo). Ad esempio, la sorveglianza visiva aveva registrato, lungo almeno tutto il 2023, una serie di esercitazioni militari da parte delle Brigate Al Qassam [4] e delle Brigate Al Quds [5]; e presumibilmente queste esercitazioni erano avvenute anche precedentemente. Ne consegue che, in sé, non costituissero un vero e proprio segnale d’allarme, e che comunque potevano anche non essere interpretate come tali.

In ogni caso, questo overflow informativo indubbiamente aveva generato una naturale (per quanto ingiustificata) tendenza alla sottovalutazione. È un po’ il meccanismo classico del “al lupo! al lupo!”, che poi induce allo scetticismo o quanto meno alla prudenza nel trarre conclusioni.
Un altro argomento messo in campo dallo studio dell’IRSEM, è la mancanza di un organismo di coordinamento centralizzato, tra le varie agenzia di sicurezza. Benché ovviamente queste collaborino tra di loro, ciascuna ha un suo flusso informativo, un suo standard di valutazione, una sua catena di comando, e tutto ciò fa sì che le informazioni condivise – e che quindi possono contribuire a comporre il puzzle – siano comunque soggette ad una valutazione preventiva interna. In parole povere, gli elementi che raggiungono un livello superiore, in cui presumibilmente c’è la possibilità di una lettura complessiva, non sono necessariamente tutti quelli raccolti, e/o quelli effettivamente utili a comporre il quadro. In ogni caso, insieme a quelli utili e coerenti, è probabile che ne arrivino anche altri, incoerenti o semplicemente diversi, creando comunque un ambito interpretativo meno evidente. Per restare alla metafora del puzzle, è come se quelli sparsi sul tavolo fossero pezzi di più puzzle diversi. Non si tratta solo di incastrarli, ma prima ancora di distinguerli.
Ragionando in termini più generali, lo studio di Renault indica un ulteriore elemento che può determinare la fallacia del lavoro di intelligence, ovvero il fatto che la diversità dei metodi di raccolta implica che alcune valutazioni delle minacce si basino su accessi di affidabilità variabile. Nello studio, si fa riferimento sia al lavoro di Michael Herman [6], sia a quello di Erik Dahl [7]; entrambi gli autori, considerano rilevante – ai fini di una corretta valutazione dei dati – la quantità ed eterogeneità delle informazioni. Dahl, in particolare, sottolinea come “le informazioni disponibili prima della maggior parte degli attacchi a sorpresa sono generali, non specifiche”, e che queste informazioni strategiche “consentono ai decisori di vedere il fumo della crescente minaccia, ma mascherano le fiamme che da sole indicano dove e quando agire” [8].
Un ulteriore argomento presente nello studio di Renault, è il pregiudizio. Che, come vedremo anche più oltre, rappresenta un fattore mistificatore molto forte. L’autore, infatti, sottolinea come, nell’ambito delle agenzie di sicurezza israeliane, “c’era l’idea che Hamas non avesse le capacità militari e organizzative necessarie per portare a termine un’operazione offensiva su larga scala”. Per lo Shin Bet ed Aman, Hamas era “una minaccia secondaria, instabile ma contenuta, rispetto alla quale la logica dello scontro rimaneva limitata a cicli periodici di violenza e che non nutriva grandi ambizioni militari di rottura” [9].
Si tenga presente, inoltre, che all’epoca l’attenzione politica e militare israeliana era principalmente concentrata sulla Cisgiordania, ritenuta più esplosiva, mentre per quanto riguarda Gaza la valutazione corrente era che Hamas preferisse concentrarsi sul consolidamento del proprio potere politico nella Striscia, preferendo evitare operazioni militari troppo impegnative e rischiose. E che ciò fosse diretta conseguenza del potere deterrente israeliano – più volte sperimentato a Gaza [10] – così come di un miglioramento complessivo delle condizioni di vita nella Striscia, come conseguenza anche di colloqui indiretti con Hamas, mediati dall’Egitto o dal Qatar. A Tel Aviv si riteneva che il movimento non avesse quindi alcun interesse ad innescare un conflitto che potesse mettere tutto a repentaglio.
In questo caso, possiamo rilevare come il pregiudizio possa condizionare le valutazioni, anche se a farle è un’agenzia di intelligence. Non c’è infatti soltanto la sottovalutazione della capacità militare della Resistenza palestinese a Gaza, ma anche una sottovalutazione politica (che ne nasconde appena una umana): l’idea che in fondo tutto ciò che vogliano sia fondamentalmente un po’ di quiete e un po’ di potere, sia pure nel carcere a cielo aperto costruito da Israele, senza comprendere invece l’importanza che la lotta di liberazione aveva ed ha per i palestinesi tutti. In particolare, inoltre, gli israeliani non si sono resi conto che la Resistenza palestinese aveva ben chiaro come gli Accordi di Abramo, il cui processo era pienamente in atto, avrebbe finito per seppellire la questione palestinese per decenni, e che quindi ciò poneva la necessità di agire tempestivamente per far saltare tale processo.
In sostanza, quindi, si è prodotta una combinazione di due fattori pregiudiziali, ovvero la sottovalutazione del nemico, e la sopravvalutazione di sé stessi (del proprio sistema). Come dice lo stesso Renault, “la fiducia dei servizi segreti israeliani nella potenza del loro apparato tecnologico (…) si riferisce più profondamente all’esistenza di una cultura organizzativa caratterizzata da un senso di superiorità” [11]. Ed a riprova, cita il il generale Aharon Haliva, capo di Aman al momento degli attacchi del 7 ottobre, il quale nell’estate del 2025 disse francamente che uno dei problemi fondamentali del sistema di intelligence risiede nella convinzione condivisa di onnipotenza.

C’è infine da aggiungere ancora un argomento, a supporto della tesi – anche questo non presente nello studio dell’IRSEM. E si farà attraverso un procedimento controdeduttivo.
Partiamo quindi dall’ipotesi che, a livello politico e militare, vi fosse la consapevolezza che l’attacco palestinese era imminente [12], e che si fosse deciso di lasciarlo accadere, al fine di utilizzarlo come scusante per scatenare la pulizia etnica nella Striscia di Gaza.
Va innanzitutto sottolineato come questa esigenza appare piuttosto strana, poiché Israele non si è mai fatto scrupolo di agire quando e come volesse, senza aver bisogno di giustificarsi. E, per quanto le ambizioni territoriali sioniste siano assai ampie, soprattutto per quelle componenti della società israeliana più sensibili al messaggio messianico, e quindi all’idea della Grande Israele, si può senz’altro affermare che la spinta espansionista si concentra prevalentemente verso la Cisgiordania, e per più di una ragione.
Innanzi tutto, perché è lì che si concentrano gli insediamenti coloniali, che fanno poi capo politicamente ai ministri Smotrich e Ben-Gvir, e che spingono per la cacciata dei residui abitanti palestinesi. La regione della riva occidentale del Giordano è molto fertile, e quindi ambita, e consentirebbe anche di avvicinare sempre più Israele al fiume – il controllo delle acque è, in quella regione, assolutamente strategico.
La struttura geografica ed amministrativa della Cisgiordania, inoltre, presenta un ulteriore vantaggio strategico. L’intera area, infatti, è suddivisa in tre settori (A, B e C), con una differente autorità competente. L’area A, al confine israeliano, ha una amministrazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. L’area B, ad est, è sotto controllo misto, IDF/ANP, in cui ciascuna autorità ha competenze diverse. Ed infine l’area C, al confine giordano, è amministrata dall’IDF.
Questa stratificazione permette di pianificare ed attuare la progressiva espulsione dei palestinesi, dall’area A verso l’area B, senza per questo necessitare di una qualche forma di accordo con paesi terzi, destinati ad accoglierli.
E qui si torna alla questione Gaza. Se l’obiettivo fosse stato l’occupazione della Striscia (cosa che Israele aveva già fatto, per poi rinunciare e ritirarsi nel 2005), stante i seri problemi demografici interni, è da escludere che ambisse ad espandere la popolazione arabo-israeliana di altri due milioni e passa di abitanti, oltretutto fortemente politicizzati ed ostili. Bisognerebbe quindi dedurne che la pulizia etnica fosse un elemento strutturale del piano. Ma in tal caso viene da chiedersi come sia possibile che non sia stato fatto alcun passo serio per affrontare la questione.
Anche ammesso che il calcolo fosse un mix di genocidio ed espulsione, per rendere l’annessione del territorio possibile e sostenibile demograficamente bisognerebbe ridurne la popolazione a meno della metà, come minimo. Parliamo cioè di oltre un milione di persone. Se si tiene conto del fatto che, durante due anni di guerra senza limiti, i palestinesi uccisi sono stati probabilmente circa 120/130.000 – quindi un decimo di quelli che sarebbe necessario cacciare – risulta evidente che, anche a prescindere dalla sostenibilità politica internazionale, le uccisioni di massa non potevano risolvere il problema, ed era necessario procedere a significative espulsioni. L’approssimazione con cui questo tema è stato successivamente affrontato, e poi non a caso accantonato, dimostra che non c’era alcuna pianificazione in tal senso. L’unico paese verso cui sarebbe stato possibile organizzare un esodo di tale portata era l’Egitto, paese con cui Israele ha buoni se non ottimi rapporti [13], ma non solo era evidente che non lo avrebbe mai accettato – tant’è che per evitarlo ha schierato nel Sinai una divisione corazzata – ma non c’è nemmeno stato alcun tentativo di renderlo possibile, prima del 7 ottobre. Ne consegue che un elemento imprescindibile del piano di annessione della Striscia di Gaza non sarebbe stato assolutamente preso in considerazione.
Se guardiamo alla precedenti operazioni israeliane contro Gaza, non sfugge l’assoluta sproporzione tra le azioni della Resistenza e la risposta dell’IDF. Che del resto è proprio un principio strategico dottrinario, per Israele, che lo considera uno strumento di deterrenza. Se quindi ciò che si cercava era soltanto un pretesto, magari più consistente del passato, viene da chiedersi se a conti fatti non sia stato concesso fin troppo. Già il solo fatto che migliaia di combattenti valicassero il muro, facendo irruzione in territorio israeliano, sarebbe stato con ogni probabilità più che sufficiente per giustificare qualsiasi reazione militare. Ma, al limite, si sarebbe potuto comunque contenere l’attacco – nello spazio e nel tempo – molto più di quanto non sia accaduto.
Al contrario, se si osserva sia la reazione operativa immediata, sia – più ampiamente – quella politica e militare successiva, ogni singola azione, ogni singola parola, è apparsa essere frutto di uno shock, in cui confluivano sorpresa, rabbia (anche per non aver saputo prevedere), desiderio di vendetta, volontà di riaffermare immediatamente – ancora una volta, attraverso una reazione spropositata – la propria capacità di deterrenza.
Persino l’avvio della campagna di bombardamenti, che ha preceduto di molto il successivo attacco di terra, richiese alcuni giorni per essere organizzata e messa in atto. Tutto, insomma, sembra raccontare di un paese preso in contropiede, che ha reagito ferocemente, proprio perché non si aspettava ciò che invece è poi accaduto.
In conclusione, altre due considerazioni devono essere fatte, sulla questione.
La prima, ha ancora una volta a che fare con i pregiudizi. Uno degli strumenti con cui Israele ha sempre esercitato il proprio controllo sulla regione, è stato proprio la deterrenza, che a sua volta è fatta di esperienza e di timore. Il nemico, cioè, deve sapere che Israele colpisce molto duramente, e deve averne paura. In questo meccanismo psicologico, un elemento fondamentale è anche la proiezione di una immagine di strapotere: Israele non è soltanto più forte e più cattivo, è invincibile. Questa aura di invincibilità è stata costruita nei decenni, sia attraverso un uso spietato e soverchiante della forza militare, sia attraverso una narrazione che ha dipinto i servizi segreti israeliani come onnipotenti e onniscienti. Questo è diventato, soprattutto in occidente, senso comune. Di conseguenza, siamo naturalmente portati a pensare che la possibilità di uno sbaglio, per di più di tale portata, sia altamente improbabile, se non letteralmente impossibile. E quindi, la spiegazione deve essere un’altra – che, guarda caso, collima con quel senso comune. Quello che sembra essere un clamoroso errore, è invece un sottilissimo quanto perverso disegno di quella onnipotente entità che sono i servizi israeliani. Non è stata una defaillance, ma un astutissimo piano per rivoltare il progetto palestinese contro di loro. Una chiave di lettura, questa, che non è nemmeno necessario suggerire, poiché appunto sorge spontanea dal pregiudizio. Ma che al tempo stesso torna utilissima, sia perché occulta il fallimento e anzi rafforza l’idea di invincibile capacità, sia perché va ad alimentare l’effetto deterrente: credevate di aver fatto una mossa straordinariamente audace, ma in realtà siamo stati noi a manovrarvi. Sottotesto: qualunque cosa facciate, siamo sempre noi a decidere tutto.

Ultima considerazione, sempre assumendo come reale l’ipotesi che i vertici israeliani sapessero, ed avessero lasciato accadere per calcolo. Cosa ne è venuto, ad Israele?
Aver raso al suolo Gaza, ed aver ucciso più di centomila palestinesi, è valsa la pena di tutto ciò che ne è conseguito, e che ha accompagnato i due anni di guerra?
Per quanto, come si è appena visto, ci sia un filone di pensiero che tende sempre più ad accreditare la tesi della predeterminazione, è indubbio che l’attacco palestinese del 7 ottobre ha fatto saltare l’ipotesi degli Accordi di Abramo – almeno sul breve termine – e soprattutto che ha demolito la fiducia granitica della popolazione ebraica di Israele nell’IDF, come imbattibile strumento di difesa.
Senza contare il danno enorme di reputazione, ed il conseguente isolamento internazionale, a cui è andato incontro lo stato ebraico, in una misura senza precedenti. E, ovviamente, vanno aggiunti i considerevoli danni economici e sociali legati al conflitto, che poi ha trascinato Israele non solo nella guerra più lunga della sua storia, ma anche quella che non è riuscito a vincere – e che lo ha portato a spendere forze e risorse su altri innumerevoli fronti (Libano, Siria, Iraq, Yemen, Iran), nel disperato tentativo di uscire dal cul de sac in cui si era cacciato. Una spirale che, tra le altre cose, lo ha portato ad uno scontro con l’Iran che, per quanto occultato dalla censura e dalla propaganda, nonché dall’intervento-salvataggio degli Stati Uniti, ha messo in luce sia la totale dipendenza anche difensiva dall’aiuto americano, sia la potenza distruttrice dell’acerrimo nemico. In una parola, ha messo a nudo tutte le debolezze strutturali di Israele, in quanto progetto coloniale sionista.
Si può quindi affermare che, come sostiene lo storico israeliano Ilan Pappé, il processo innescato dall’operazione Al Aqsa Flood ha messo in moto, o semplicemente accelerato, la dissoluzione di quel progetto, e quindi la fine di Israele.
Alla luce di ciò, se anche si fosse trattato di una decisione politica israeliana, lasciare che l’attacco avvenisse per giustificare la reazione, a conti fatti sarebbe stata una scelta disastrosa, che ha prodotto infinitamente più danni di quei pochi vantaggi che può aver apportato. E, ovviamente, comunque non toglie nulla al valore politico e militare dell’attacco stesso.
1 – Cfr. Clément Renault, Surveiller sans voir : Les services de renseignement israéliens et l’échec du 7 octobre, Étude 127, IRSEM, octobre 2025
2 – Dopo che le forze israeliane si sono ritirate dalla Striscia, nel 2005, smantellando gli insediamenti coloniali ed i presidi militari, i servizi di sicurezza hanno via via perduto quella presenza di prossimità che aveva consentito loro di creare una rete di informatori di vario livello, e che è andata progressivamente perduta. La fiducia nei sistemi di sorveglianza elettronica e digitale ha inoltre contribuito a considerare marginale questo tipo di sensori.
3 – L’Unità 8200 è la più grande unità militare all’interno del Direttorato dell’Intelligence Militare (Aman), che è il principale braccio di intelligence delle Forze di Difesa Israeliane (IDF). È l’unità centrale incaricata dello spionaggio di segnali elettromagnetici (SIGINT), che comprende la raccolta di informazioni, la decrittazione di codici cifrati, il controspionaggio e la guerra cibernetica.
4 – Braccio armato del movimento Hamas.
5 – Braccio armato del movimento Palestinian Islamic Jihad.
6 – Michael Herman, The Power of Intelligence in Peace and War, Cambridge University Press, 1996
7 – Erik J. Dahl, Intelligence and Surprise Attacks: Failures and Successes from Pearl Harbor to 9/11 and Beyond, Georgetown University Press, 2013
8 – Erik J. Dahl, ibidem
9 – Clément Renault, ibidem
10 – Tra il 2008 ed il 2022, l’IDF ha investito la Striscia con ben cinque operazioni militari. Operation Cast Lead (2008-09), Operation Pillar of Defense (2012), Operation Protective Edge (2014), Operation Guardian of the Walls (2021) e Operation Breaking Dawn (2022).
11 – Clément Renault, ibidem
12 – A luglio 2023, un ufficiale dell’Unità 8200 aveva notato una similitudine tra l’addestramento dei combattenti palestinesi osservato a Gaza e un piano di attacco noto come “Muro di Gerico”, un documento ufficiale di Hamas già in possesso dei servizi israeliani.
13 – Anche i servizi segreti egiziani inviarono segnali d’allerta ad Israele, relativamente al sentore di azioni imminenti.

