Cancel culture, l’anglo-guerra al passato. Ma in Europa il problema è opposto
di Alessio Mannino - 16/09/2025
Fonte: Inside Over
Statue del colonizzatore inglese Cecil Rhodes, del presidente americano Abraham Lincoln o del generale confederato Robert E. Lee da tirare giù con le catene (l’ultima, secondo un professore – sic – dell’ateneo della Virginia, “è come avere nel quartiere un cane rabbioso che morde tutti e che bisogna sopprimere”). In Canada, roghi di libri di storia come atti di riconciliazione simbolica con le tribù native. Studenti della Columbia University in rivolta contro le Metamorfosi, il capolavoro di Ovidio, in quanto portatore di “materiale offensivo” per i loro compagni di colore o economicamente svantaggiati. La falena zingara, insetto che rosicchia le foglie degli alberi, ribattezzata “spugnosa” poiché l’aggettivo finora in uso, secondo l’associazione degli entomologi Usa, suonava discriminatorio. Sono gli esempi più assurdi tratti da quel vasto inventario che il sociologo dell’università britannica di Kent, Frank Furedi, ha raccolto nel libro “La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica”, uscito in Italia di recente per Fazi Editore.
Un’opera preziosa per i pregi, ma anche per i difetti. Da una parte, infatti, approfondisce e concettualizza una psicopatologia culturale caratteristica del nostro tempo, che corrisponde alla convinzione di aver raggiunto niente meno che la Verità ultima sull’uomo, col che si liquida come idealmente inferiore tutto ciò che è venuto prima. Dall’altra, è lungi dal constatare che alla base di questo regresso autodistruttivo e nichilista c’è lo stesso sistema di valori che Furedi difende, vale a dire quello illuministico-occidentale di matrice giudaico-cristiana, secolarizzatosi nel modello di vita e di sviluppo liberal-capitalistico. Ma è un punto debole, questo, corretto dalla penetrante prefazione del filosofo Andrea Zhok, il quale molto opportunamente riconduce la negazione della Storia alla logica portante dell’intera modernità occidentale: lo sradicare e annullare, almeno in via tendenziale, ogni limite all’umana volontà di potenza.
Come un bravo oncologo, Furedi diagnostica con dovizia d’informazioni il tumore della cosiddetta “cancel culture”, descrivendone il decorso e le forme. Si tratta di un fenomeno sorto e attecchito in ambienti universitari di lingua anglofona, in cui si sono scatenate “guerre culturali” sul linguaggio, sui testi di insegnamento, e perciò anche sull’eredità del passato, come conseguenza della centralità assunta dalle identità razziali, di genere e sociali rispetto alla più tradizionale e marxisteggiante lotta alla diseguaglianza economica. Questa torsione che ha portato al proliferare di minoranze da proteggere (si pensi all’enumerazione in crescita della formula lgbt, che ha aggiunto il q e poi il +, a indicare l’addizione all’infinito) ha condotto alla ricerca di fattori e di agenti discriminanti in lungo e in largo. Volgendosi anche, a quel punto non senza logica, al passato. Perché se oggi, secondo i cancellazionisti, si è raggiunta la coscienza dei torti e dei soprusi – a danno dei neri piuttosto che delle donne, per arrivare fino ai trans – è evidente che l’oppressione discende da un lungo ieri da rivedere e condannare in blocco. Perché in blocco? Per un motivo sconfortante nella sua banalità: la crisi e l’abbandono di uno storicismo non diremo hegeliano, ma in dosaggio minimo sindacale per non rimuovere l’ovvio, e cioè che ogni fatto sociale o costruzione ideologica si situa in un contesto storico che va anzitutto compreso nelle sue cause e circoscritto nella sua collocazione, non appiattito sul presente e giudicato sulla base della nostra attuale visione, a sua volta influenzata da motivazioni storicamente date. Non per nulla Benedetto Croce, discepolo di Hegel, diceva che la storia è sempre storia contemporanea, inevitabilmente ispirata dagli interessi e condizionamenti di chi la scrive.
Chi invece vorrebbe cancellarla, la storia, è affetto dalla sindrome che Furedi chiama presentismo, specificando che non si tratta di semplice riscrittura politicamente tendenziosa di avvenimenti a maggior gloria della versione di turno da diffondere (come facevano i regimi totalitari del Novecento), ma del rifiuto moralisticamente ingenuo e presuntuoso di tutto ciò che disturba la sensibilità dei rivoluzionari con il cancellino in mano. Una deriva di tipo paranoide, come ben rimarca Zhok, perché sostituisce alla comprensione storica il giudizio morale, e quest’ultimo, se non equilibrato dal senso del limite, in ultima analisi si fonda sempre sull’arroganza, infantile e fanatica assieme, di ergersi a monopolisti del Bene, crociati dell’Assoluto, protettori della Fede.
L’obiettivo, in parole povere, è rieducare i morti per educare i vivi. L’accusa principale con cui viene attaccato e screditato il passato consiste, va da sé, nel razzismo. Non solo etnico, ma anche sessuale, di genere, e sociale in senso lato. Razzismo che viene addebitato a epoche in cui il concetto stesso neppure esisteva. Il più classico dei casi è quello dell’antica Grecia: culla della civiltà occidentale sul piano filosofico e scientifico, e tuttavia macchiata dalla colpa dello schiavismo sul quale si reggeva per intero la società di Socrate, Platone e Aristotele. La meccanica di fondo, che gli psicologi conoscono bene, è quella della proiezione declinata qui sul piano storico: si proiettano certezze e idee che abbiamo noi ora, al vissuto e all’orizzonte mentale dei nostri antenati. “Finora”, scrive l’autore del saggio, “non erano mai state spese tante energie per riadattare il passato e per mettere in discussione e criticare figure e istituzioni storiche. A volte sembra che il confine tra presente e passato sia scomparso, perché gli attivisti lo attraversano con disinvoltura e cercano di risolvere i problemi contemporanei riadattando ciò che è già accaduto”.
Giustamente Furedi sottolinea come questa distorsione, che farebbe accapponare la pelle a qualsiasi storico di media decenza, sia funzionale a distrarre dall’occuparsi delle questioni aperte qui e ora. “Non riusciremo a rimediare alle ingiustizie che ci affliggono nel presente facendo la guerra ai misfatti del passato”, osserva. Il docente inglese però si ferma qua, incontrando le sue personali colonne d’Ercole. La prima è che non pare avvedersi che le tare che pur così bene disvela originano dalla stessa cultura che viene oggi distrutta a colpi di piccone. Sentirsi moralmente superiori e in dovere di estendere il Verbo è un sentimento che fa parte del corredo genetico dell’Occidente, figlio di una frattura primigenia (il primo “anno zero”, per usare l’espressione adottata da Furedi) che altro non è che lo spartiacque religioso con cui il cristianesimo ha diviso la vita umana in due: prima e dopo Cristo. Naturalmente, non sarebbe lecito “incolpare” duemila anni di religione cristiana per aver poi figliato l’Illuminismo, con la sua pretesa di illuminare con le buone o le cattive ogni essere umano o, citando Furedi, per aver prodotto quel protestantesimo non tacciabile di essere l’unico progenitore etico del nazismo.
Resta il fatto, però, che volendo contrastare questa manìa da tutori della buoncostume storiografica, si può correre il rischio opposto: mettere a propria volta un frego su un passato di cui meglio non mettere in discussione i fondamentali. Ora, che le tradizioni piaccia o no siano “ancora vive dentro di noi, nel linguaggio che usiamo e nel modo in cui pensiamo”, questo è indubbio. Sempre con Croce, non possiamo non dirci cristiani. Ma questo non significa che non possiamo risalire alle fonti della malattia ammettendo con onestà che sono endogene, già in nuce agli albori del paradigma interpretativo che ha instillato il dovere di convertire l’orbe terracqueo al proprio Credo (per esempio, esportando a tutti i costi la “democrazia”).
Il secondo confine che Furedi non sa o non può valicare emerge là dove accenna al cui prodest dell’intera macchina di eliminazione del passato. A guadagnarci sono infatti le attuali élites al potere, che vedendo dirottare la carica contestataria verso i defunti, per definizione impossibilitati a difendersi, dormono sonni tranquilli e continuano a macinare i loro piani e affari. Fin qui ci siamo. Ma per fortuna è Zhok, come si diceva, a illustrare il comun denominatore che al di là delle intenzioni unisce conservatori e politicamente corretti, liberali di destra e liberali di sinistra: il pregiudizio pavloviano, interiorizzato, inconscio, invisibile, e pertanto potentissimo, secondo cui ciò che libera e svincola dai ceppi del passato è sempre bene, e ciò che ostruisce la fiumana del progresso è sempre male. A destra, per legittimare il culto orgiastico della crescita economica – e patrimoniale, s’intende dei padroni del vapore – e a sinistra per santificare l’emancipazione, in teoria ad infinitum, da ogni ostacolo all’auto-definizione del singolo, sovrano assoluto di sé. Per entrambi, individualisti e psicologicamente narcisisti, la felicità si ritrova nel desiderio di lasciare di affermare l’ego incondizionatamente, liberandolo quanto più possibile dalle necessità. Tradotto: gli altri, la dimensione collettiva, l’appartenenza a un luogo, e quindi anche a una storia, non devono limitare la libertà di arricchirsi nel portafogli o, nella variante radical, di decidere, poniamo, di dichiararsi di punto in bianco femmina anziché maschio (come avviene in Germania, con la legge sull’autocertificazione di genere sbugiardata nel suo palese surrealismo da un beffardo neonazista qualunque).
D’altronde, se il meccanismo è identico ed equivale all’obsolescenza del prodotto, all’innovazione incessante, all’anacronismo programmato per cui ogni merce viene rimpiazzata dalla successiva, la presunta libertà di benessere si riduce a una forsennata rincorsa di opzioni da consumare. Consumare oggetti, come consumare identità. E cos’è che regola il consumo? Il denaro. Nel nostro “superiore” Occidente è solo e soltanto il denaro a rappresentare, tolti i paraventi e contati i resti, il vero valore discriminante. Ed è il denaro che, essendo capillare e pervasivo, esercita un’“educazione comportamentale diffusa e permanente” (Zhok) plasmando inconsapevolmente la forma mentis dell’occidentale medio. Il denaro non soltanto, da Vespasiano in poi, non ha odore, ma non rispetta neppure chi o cosa lo ha generato. Circolando di mano in mano, vale esclusivamente, e oggi più che mai in tempi di moneta virtuale, per ciò che può comprare nel presente, o nella misura in cui può produrre altro denaro nel futuro. Anzi, a essere precisi, dove si presenta come Capitale (capitalismo), il denaro si dà come strutturale rilancio sul futuro. Dunque non conosce né riconosce alcun passato.
Se non strumentalmente, per puntellare il proprio ciclo senza fine. E gli strumenti a difesa di questo sotterraneo potere liquido apolide e astorico, in realtà, utilizzano selettivamente il passato per sbarrare la strada a un futuro alternativo. O almeno è senz’altro così da noi, nell’Europa continentale, Italia in primis. A destra si presuppone che “patria” o “religione” qui da noi abbiano la potenza valoriale che tribalizza ampie fasce della società Usa, e si completa l’auto-inganno con un anti-comunismo a scoppio ritardato ormai onirico. A sinistra, ci si ritiene dalla parte dei “più deboli” se e quando si applichi il temperamatite alla trivella del “libero” mercato, officiando per il resto il rito funerario di un antifascismo pasolinianamente archeologico (oppure, in Germania, facendo gravare sulla nazione un’ipoteca, l’antisemitismo da Shoha, da pagare in eterno, con vivi ringraziamenti da parte del genocida Israele).
Ambedue macroscopiche false coscienze, in cui il passato, a dispetto di Furedi, non viene disciolto nell’acido dell’intolleranza a ritroso, ma al contrario viene tenuto artificialmente in vita, ingigantito, propagandato con un grandangolo ampliato a dismisura, per coprire la molto più prosaica e ferrea stretta del solo autentico pensiero unico: quello liberale. Al centro del quale sta il tragico paradosso di un individuo che in media, complice l’intelligenza artificiale, pare destinato sempre più a ignorare, piuttosto che a schifare, ciò che lo ha preceduto, e proprio per questo ne soffrirà la nostalgia. Il passato, difatti, non passa facilmente, l’inerzia agisce sotto traccia, e gli archetipi sono duri a morire. Insomma, una monade libera da legami costrizioni e prescrizioni: ecco, l’individuo ideale da spremere e tenere asservito, fra le righe dei passatismi posticci di destra e sinistra. Libero di determinarsi, ma non di determinare un futuro diverso da quello che a Furedi non sembra dispiacere: un Occidente a cui non possono certo bastare riti compensatori e flebo nostalgiche, per fermare la “furia del dileguare” che lo acceca da secoli.
Dichiarare guerra al passato è come evirarsi: vero. Ma studiarlo e onorarlo come tale non può voler dir altro che percepirlo secondo il significato profondo, né liberal né conservatore (né tanto meno reazionario), del termine “origine”. Vale a dire: punto di ripartenza…