Carl Schmitt: la guerra giusta e l’Europa del XXI secolo
di Alberto Giovanni Biuso - 08/06/2025
Fonte: GRECE Italia
Lo spazio
L’essere umano è un animale terrestre che chiama Terra un pianeta composto per tre quarti dall’elemento liquido, tanto che il mare ha rappresentato per numerose popolazioni ed epoche la dimensione decisiva dell’esistenza. Anche per questo ciò che di solito viene definito con l’espressione storia del mondo (e che in realtà è soltanto la storia di una specie di mammiferi terrestri) può essere descritto anche come «la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime»1. L’animale più grande – la balena – e quello più astuto – l’uomo – hanno avuto nel mare lo spazio di uno scontro millenario. Sono state le balene e i balenieri ad aprire le rotte e le vie d’acqua più sconosciute e ardite, fino a quando il rapporto tra di loro è stato paritario, fino a che non sono apparsi i macellai delle baleniere meccanizzate.
A partire dalle civiltà del Mediterraneo orientale sino a Lepanto (1571) le battaglie navali non furono altro che scontri di fanteria trasferiti sulle tolde delle navi ma già dalla sconfitta della Armada spagnola nella Manica (1588), con le bocche di fuoco dei cannoni e con i nuovi agili velieri inventati dagli olandesi, lo scontro di mare assunse le sue caratteristiche specifiche, che contribuirono a trasformare un popolo di allevatori come quello inglese nei dominatori del globo. I pirati, i corsari, gli schiumatori del mare furono tra i protagonisti di una trasformazione radicale con la quale l’Inghilterra trasferì la propria esistenza dall’elemento terrestre a quello marittime2.
Mutamento che fu contemporaneo – e strettamente intrecciato – non soltanto alle grandi scoperte geografiche, non soltanto alle nuove tecnologie belliche e navali, non soltanto allo scontro fra cattolicesimo e protestantesimo ma anche alla lotta che oppose il calvinismo “marittimo” al gesuitismo “terrestre”. Integrando e rendendo più plausibile la prospettiva di Max Weber, Schmitt scrive che «se invece ci volgiamo al mare, vediamo immediatamente la coincidenza o, se così posso dire, la fratellanza che, nella storia del mondo, unisce il calvinismo politico alle nascenti energie marittime europee»3.
Con la comparsa del grande Impero inglese sull’acqua, muta radicalmente il modo di combattersi degli umani tra di loro. Nella guerra terrestre, infatti, a fronteggiarsi in campo aperto sono quasi sempre soltanto le truppe, i soldati, gli armigeri. La guerra marittima, invece, tende a colpire le risorse dell’avversario, a strozzare la sua economia, a cannoneggiare le sue coste e le città, a coinvolgere l’intera popolazione diventata tutta e inevitabilmente ‘nemica’. È la guerra totale, inventata dalla potenza marittima e calvinista inglese. Il suo dominio durò per più di due secoli, fino a quando trasformandosi da “pesce” a “macchina”, con la Rivoluzione industriale la Gran Bretagna sembrò attingere a una potenza incontrastata che invece di fatto rappresentò l’inizio della sua crisi. Con la meccanizzazione, infatti, vennero meno lo slancio iniziale e il dominio sulle tecniche della navigazione a vela e un’altra più potente “isola” calvinista si sostituì progressivamente all’antica madrepatria. Agli inizi del Novecento, l’ammiraglio americano Mahan propose la riunificazione fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti allo scopo di garantire la perpetuazione del dominio anglo-americano sul mondo.
La potenza secolare dell’elemento marino – il Leviatano – ha successivamente contribuito allo sviluppo dell’aviazione e del fuoco che distrugge dall’alto. I due nuovi elementi – l’aria e il fuoco – delineano un’ulteriore trasformazione tesa alla sconfitta e al controllo dell’antico elemento terrestre. Il grande uccello mitologico, il Grifo Ziz, combatte per la sottomissione della Terra Behemot. Nella prima metà del Novecento nacque così, attraverso scontri e distruzioni immani, un nuovo Nomos della Terra, quello che dal 1945 al tempo presente ha controllato il pianeta, sconfiggendo l’Europa continentale, lanciando un fuoco immane e distruttore sul Giappone, imponendo all’intera umanità la globalizzazione dei suoi modelli di vita e della sua economia.
Non sono pochi i segnali che indicano nel XXI secolo l’esaurirsi anche di questo Nomos, che però adesso va analizzato e compreso meglio attraverso il libro fondamentale di Carl Schmitt.

Il diritto internazionale
Pubblicato nel 1950, Il Nomos della terra raccoglie e sistematizza nel modo più chiaro e più ricco non soltanto la sapienza giuridica che Schmitt ha interpretato e inverato ma anche una vera e propria storia del Diritto internazionale dal Medioevo al Novecento e una compiuta, aperta e critica filosofia della storia.
I due concetti sui quali si fonda sono Ordnung und Ortung, difficilmente traducibili senza inserirli in un più ampio discorso sull’identità della Terra e del Mare nella storia dell’umanità. Il traduttore italiano sceglie la coppia ‘ordinamento e localizzazione’, la quale ha il merito di trasmettere l’inseparabilità, per Schmitt, dell’ordine politico con il radicamento nello spazio.
Anche la parola chiave, Nomos, non si riferisce a una qualche legge, regola o norma ma indica piuttosto una localizzazione sacrale, un muro che delimitando lo spazio gli assicura l’identità di un senso. Scrive infatti Schmitt che «per noi si tratta del processo fondamentale della suddivisione dello spazio, che è essenziale a ogni epoca storica; si tratta della combinazione strutturante di ordinamento e localizzazione, nel quadro della convivenza tra i popoli sul pianeta nel frattempo scientificamente misurato. In questo senso si parla qui di nomos della terra»4.
La ‘convivenza tra i popoli’ è il significato ed è l’obiettivo del diritto internazionale e dei rapporti tra le comunità, le nazioni, gli Stati. Strutture diverse nel tempo e nello spazio ma tutte caratterizzate da una costante e millenaria dinamica di identità e differenza. Si può entrare infatti in una relazione pacifica con l’altro soltanto se si possiede una propria identità quanto più forte possibile. È infatti in questo modo che si evita, sino a che è possibile, l’insicurezza che è potenzialmente foriera di conflitto. Un conflitto che però non sarà mai eliminabile data la natura finita e animale della specie umana, data cioè la complessità dei suoi bisogni.
È anche per questo che sino al Novecento l’obiettivo del diritto internazionale e delle relazioni tra i popoli non è stata un’impossibile eliminazione della guerra ma una praticabile sua limitazione volta a evitarne gli esiti distruttivi ed esiziali.
Dopo le guerre successive alla dissoluzione dell’Impero romano, dopo dunque i conflitti medioevali tra i popoli cristiani, la novità rappresentata in età moderna dalla nascita degli Stati centralizzati e autonomi richiese l’elaborazione di un nuovo Nomos dell’Europa e del Mediterraneo, il quale ebbe compimento e ratificazione nelle paci di Westfalia del 1648 che chiusero la fase violentissima delle guerre di religione. Con i trattati successivi, ad esempio quello di Utrecht del 1713, si pose fine anche alla guerra di predazione sui mari e nacque in questo modo lo Jus Publicum Europaeum, il quale costituì «un capolavoro della ragione umana» per la sua capacità di porre fine ai «massacri delle guerre tra fazioni religiose» e limitando i conflitti alla forma della «semplice guerra tra gli Stati» come guerra circoscritta e guidata da regole che evitassero il coinvolgimento distruttivo delle popolazioni. L’esito fu costituito dal «fatto sorprendente che per due secoli non si ebbe sul territorio europeo nessuna guerra di annientamento»5.
Poi arrivarono i ‘valori’, vale a dire il ritorno a guerre combattute in nome di principi assoluti e sacri. Nel Medioevo tali principi si riferivano alle verità teologiche; con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche essi si fondavano su principi etici, riassunti nella formula dei ‘diritti dell’uomo’. La differenza con le guerre medioevali fu ed è comunque netta come capacità distruttiva e annichilente delle guerre contemporanee, a partire dalla disponibilità di tecnologie belliche inesistenti nell’età di mezzo.


Umanesimi e massacro
Già il rapporto con le popolazioni delle Americhe, dopo la loro ‘scoperta’, è indice dei tanti interventi umanitari di natura imperialistica che hanno guidato l’azione dell’Europa prima e dell’Occidente dopo, come si evince con chiarezza dalle tesi del filosofo e uomo politico inglese del Cinquecento Francis Bacon, il quale «sostiene che gli Indiani sono, in quanto cannibali, ‘banditi dalla natura stessa’. Essi stanno al di fuori dell’umanità, hors l’humanité, e sono privi di diritti. Non è affatto paradossale che tali argomenti inumani siano sostenuti proprio da pensatori umanisti e umanitari. […] Con essa si accresceva la forza discriminatrice e di spaccatura propria dell’ideologia umanitaria»8.
Il giurista spagnolo Francisco de Vitoria (1483-1546) elabora varie argomentazioni che giustificano la guerra della corona iberica contro i nativi americani, facendo riferimento a «motivi che nell’uso linguistico moderno verrebbero fatti valere quali tipici ‘interventi umanitari’ e che giustificano i diritti di occupazione e di intervento degli Spagnoli, se questi intervengono in favore di uomini ingiustamente oppressi dai barbari nella loro terra»9. Come si vede, nel XXI secolo siamo sempre e ancora in quell’ambito, quello per il quale valori etici e diritti umani guidano e giustificano il colonialismo e i suoi massacri.
Uno dei principi fondamentali di Westfalia fu il divieto di ingerenza negli affari interni di altri Stati; al contrario, le guerre etiche della modernità vengono scatenate per portare il bene e i valori ad altri popoli, sia che si tratti della ‘civiltà’, sia del ‘liberalismo’ politico sia del ‘liberismo economico’, sia appunto dei ‘diritti umani’ contro nazioni accusate di non rispettarlo. Nel XIX secolo cominciò dunque a venire meno quel sistema che, «in confronto alla brutalità delle guerre di religione e di fazione, le quali sono secondo la propria natura guerre di annientamento in cui i nemici si discriminano l’un l’altro come criminali e pirati, e in confronto alle guerre coloniali, che vengono condotte contro popoli ‘selvaggi’», produsse un sistema atto a limitare le guerre, condusse a «una razionalizzazione e un’umanizzazione di grandissima efficacia. Ad entrambe le parti in guerra compete con pari diritto un medesimo carattere statale. Entrambe le parti si riconoscono come Stati. Questo consente di distinguere il nemico dal criminale. Il concetto di nemico diviene capace di assumere una forma giuridica. Il nemico cessa di costituire qualcosa che deve essere annientato. Aliud est hostis, aliud rebellis»10.
Con il declino di questo nomos venne meno il riconoscimento del nemico come justus hostis, al quale attribuire piena umanità, parità e diritto. Con il ritorno invece della guerra come justa causa fondata su ragioni morali, il nemico perse sempre più la sua umanità e oggi vediamo che esso è ridotto a semplice terrorista al quale non viene riconosciuta alcuna forma giuridica e diritto formale ma soltanto la qualifica di criminale di guerra che pertanto non ha diritto a garanzie e processi ma a un semplice e auspicabilmente definitivo annientamento. Per riferirci solo ai più recenti casi, si pensi alla Serbia di Milosevic, alla Libia di Gheddafi, all’Iraq di Saddam Hussein, alla resistenza palestinese di Hamas a Gaza.
Di fatto, questo è il tramonto del diritto romano e quindi di ogni possibilità di comporre i conflitti senza la distruzione totale del nemico. Il diritto romano operava infatti «una distinzione netta tra il nemico, l’hostis, e il criminale. ‘Hostes hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decremivus: ceteri latrones aut praedones sunt’. […] Ma la capacità di riconoscere uno justus hostis è all’origine di ogni diritto internazionale»11. E invece, e ignorando i dubbi contro la guerra giusta sollevati anche dal giurista scolastico Francisco de Vitoria,
«la teoria odierna della guerra giusta mira proprio alla discriminazione dell’avversario in quanto artefice di una guerra giusta. La guerra stessa diviene un crimine nel senso penalistico del termine. L’aggressore viene definito criminale nel peggiore significato del termine, ed è posto outlaw come un pirata. […] Il problema della justa causa rimane al di fuori di tale ambito di determinazione concettuale. Già per questo motivo la distinzione moderna tra guerra giusta e guerra ingiusta non ha una relazione interna con la dottrina scolastica medioevale e con Vitoria. Quest’ultimo è a conoscenza, come lo è l’intera dottrina medioevale, di un bellum justum offensivum»12.
Per essere ancora più chiari (si tratta infatti di un punto fondamentale per comprendere il male del Novecento e del XXI secolo) nella guerra pre-ottocentesca
«l’avversario è considerato senza dubbio nella sostanza come justus hostis. Nella concezione moderna e discriminante della guerra la distinzione tra giustizia e ingiustizia della guerra consiste invece proprio nel fatto che il nemico non è più considerato justus hostis ma criminale. La guerra cessa pertanto di essere un concetto di diritto internazionale, benché non cessino affatto in essa le uccisioni, le depredazioni e l’annientamento, ma siano addirittura accresciuti da nuovi moderni mezzi d’annientamento. Nella misura in cui, da una parte, la guerra diviene azione penale nel senso del moderno diritto criminale, l’avversario non può più, dall’altra parte, essere justus hostis. […] La guerra è così eliminata, ma solo perché i nemici non si riconoscono più reciprocamente sul medesimo piano morale e giuridico»13.

Il nemico ingiusto
Queste affermazioni costituiscono la chiave di volta e la porta di ingresso se si vuole davvero capire il presente. Nel Medioevo la regolamentazione anche della guerra – non, ripeto, la sua utopistica eliminazione – costituisce anche un kat-echon, termine paolino con il quale si indica una forza frenante, la capacità di resistere alle dinamiche della distruzione e della dissoluzione. E questo può accadere, tra le strutture politiche, soltanto se si riconosce il pieno diritto del nemico, il quale può anche avere ragione. E invece già con la Dottrina del diritto di Kant (1797) viene inventata la figura dell’hostis injustus, del ‘nemico ingiusto’, nei cui confronti una guerra preventiva diventa una guerra giusta, di fatto diventa una crociata indotta da ragioni ideologiche e morali, non dal principio di realtà politica e giuridica.
Da Kant alle guerre giacobine, poi a quelle napoleoniche, passando per le guerre nazionalistiche e pervenendo ai bombardamenti umanitari del nostro presente, la figura dello justus hostis «viene dunque negata nella prospettiva di un’etica filosofica così come in precedenza era stata negata dalla teologia, e viene infine soppressa mediante l’introduzione di guerre discriminanti»14.
Tale rovinoso processo si accompagna storicamente a un altro passaggio, che abbiamo già visto nel paragrafo introduttivo, quello dalla terra al mare e poi all’aria. Non è per caso che nel linguaggio mitico la terra è anche la madre del diritto, la fonte della giustizia che ricompensa con la crescita e il raccolto le fatiche che in essa vengono profuse. Il mare è invece definito tante volte da Omero ‘infecondo’, essendolo anche dal punto di vista giuridico, dato che in esso non esistono confini e stabili spazi. Il progressivo affermarsi dell’isola britannica costituisce la forma politica dell’apparire e del predominio del mare sulla terra. Al quale si aggiunse nel Novecento lo spazio aereo, la cui struttura e modalità è del tutto nuova e ha di fatto cancellato il rapporto tra terraferma e mare libero, a favore di un dominio dello spazio aereo che determina le vicende e gli esiti della guerra sia terrestre sia marittima.

Dottrina Monroe e Prima guerra mondiale
Si conferma in questo modo che i due eventi fondamentali della contemporaneità sono stati la Dottrina Monroe (1823) e la Prima guerra mondiale (1914-1918). Il secondo elemento è assai più conosciuto del primo ma è stato il primo a contribuire agli esiti del secondo.
La dottrina Monroe crea il concetto e la realtà di emisfero occidentale contrapposto allo spazio europeo, dove la contrapposizione non è soltanto tra il nuovo e il vecchio, tra il mare e la terra ma tra sfere morali e politiche del tutto diverse. La potenza che ha creato l’emisfero occidentale, gli Stati Uniti d’America, identifica in se stessa una terra d’elezione prima di tutto morale, si attribuisce un primato etico e umanitario, pur essendo nata dallo sterminio e dal genocidio dei popoli nativi dell’America. Si tratta dunque di una civiltà eletta, di una nuova Gerusalemme, il cui manifest destiny consiste nel diffondere libertà e democrazia in tutto il mondo, all’inizio contro le monarchie ‘reazionarie’ dell’Europa e poi contro qualunque popolo e nazione che rifiuti di abbracciare i suoi principi. La politica degli USA successiva al 1823 continuò a oscillare tra isolazionismo e interventismo, sino all’evento chiave della Prima guerra mondiale, delle successive paci e della Lega delle Nazioni, voluta e di fatto imposta dal presidente americano Woodrow Wilson ma alla quale poi gli USA non aderirono. Con l’assenza degli USA dalla Lega delle Nazioni «l’Europa risultava posta in ombra dall’emisfero occidentale. La stessa Lega di Ginevra vi si era sottomessa fin da principio. Nell’art. 21 del suo statuto si era apertamente piegata dinanzi alla dottrina di Monroe»15.
Sono interessanti e significative le modalità di questa assenza. Il presidente Wilson aveva infatti solennemente dichiarato il 19 agosto 1914 la neutralità degli Stati Uniti d’America; aveva ottenuto il suo secondo mandato con la rivendicazione del fatto che durante il primo mandato «he kept us out of war» ma il 2 aprile 1917 Wilson dichiarò che la pace mondiale e la libertà dei popoli richiedevano l’intervento degli USA nella guerra europea: «Solo così la Prima guerra mondiale divenne, da guerra europea vecchio stile, guerra che coinvolgeva il mondo e l’umanità intera»16. A quel punto gli Stati Uniti divennero il dominus delle paci e soprattutto della mutata situazione dell’Europa rispetto all’emisfero occidentale, del quale ora il Continente europeo divenne vassallo.
Così cominciò il tramonto dell’Europa, che negli anni Venti del XXI secolo sta avendo il suo compimento. «L’ordinamento eurocentrico finora vigente del diritto internazionale sta oggi tramontando. Con esso affonda il vecchio nomos della terra»16.
Utopia e imperialismo
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