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Chi pagherà la crisi? Le classi popolari o la finanza mondiale?

di Thibault Isabel - 29/04/2020

Chi pagherà la crisi? Le classi popolari o la finanza mondiale?

Fonte: Francesco Marotta blog


Dalle pagine de l’Inactual.fr, la pubblicazione online, diretta da Thibault Isabel,  una ricognizione a tutto tondo del “momento storico”  visto che la situazione in Francia non è molto dissimile da quella italiana, arrivano suggerimenti utili su cosa fare e sulle questioni che dobbiamo evitare, prima di sprofondare definitivamente nel tourbillon agghiacciante della società neoliberale. Le soluzioni ci sono, basta volerlo.

Thibault Isabel è il Direttore editoriale del magazine online https://linactuelle.fr/, nonché filosofo e pensatore che ha già pubblicato anche in Italia innumerevoli saggi. A tal proposito, consigliamo la lettura di “Sesso e Genere. Uomini e donne nella società liquida”, edito da Diana Edizioni, “Il campo del possibile. Sguardi sulla modernità sociale, politica e culturale”, edito da Controcorrente Edizioni. Per i francofoni invece, è possibile acquistare direttamente sul sito de l’Inactualle i suoi due ultimi lavori pubblicati in Francia, intitolati “Pierre-Joseph Proudhon : L’anarchie sans le désordre” con la Prefazione di Michel Onfray e  “Manuel de sagesse païenne”. Il titolo originale dell’articolo è Thibault Isabel: “Qui payera la crise? Les classes populaires ou la finance mondiale?”, pubblicato il 29 aprile 2020, editoriale a cura del Nostro.

F.M.

 

Thibault Isabel: “Chi pagherà la crisi? Le classi popolari o la finanza mondiale?”

 

Il piano di ripresa del governo per tirarci fuori dalla crisi costerà molto. Ma chi dovrà pagare il conto? Abbiamo già visto in passato che è sempre ai cittadini che i governi successivi chiedono sforzi. Thibault Isabel propone invece di riconquistare la nostra sovranità politica ed economica per uscire dai dogmi neoliberali e mettere a disposizione il settore finanziario, nonché le multinazionali.

Lo shock per l’economia mondiale causato dalla pandemia di Covid-19 è stato più rapido e più grave della crisi finanziaria del 2008 o anche della Grande Depressione del 1929. Nel corso di questi due episodi, i mercati azionari sono crollati di almeno il 50%, i mercati del credito sono stati paralizzati da fallimenti a cascata, i tassi di disoccupazione sono saliti oltre il 10% e il PIL si è contratto a un tasso annualizzato del 10% o più. Questo processo ha richiesto circa tre anni. Nel marzo 2020, ci sono volute solo tre settimane per prevedere un esito altrettanto disastroso.

La crisi del sistema.

Sarebbe sbagliato analizzare la situazione pensando che questa crisi sia la conseguenza esclusiva della pandemia di coronavirus. La pandemia è stata solo un fattore scatenante, che è venuto a fermare la macchina già grippata del sistema economico globale. Molti esperti ci avevano avvertito da tempo del rischio di scoppio di bolle finanziarie, e le aberrazioni dei mercati si sono manifestate quando, dopo una delirante sopravvalutazione degli attivi a gennaio, sono stati presi da un panico senza precedenti all’annuncio delle prime misure di contenimento, vivendo una timida rinascita solo quando sono stati annunciati nuovi interventi pubblici, come se il settore privato si aspettasse ormai tutto dai governi per salvarlo.

Il contesto è tanto più drammatico in quanto al costo intrinseco della crisi economica e finanziaria si aggiungerà il costo della gestione della crisi sanitaria. Il rilancio di un’economia, globale ferma da mesi, rappresenterà uno sforzo titanico, mentre la maggior parte degli Stati è già pesantemente indebitata dalla crisi del 2008, che non è stata ancora digerita dai conti pubblici (mentre i mercati finanziari stanno di nuovo raccogliendo profitti favolosi da diversi anni). Secondo le stime attuali, l’indebitamento dei principali Stati occidentali aumenterà di circa il 25% nei prossimi tre anni.

Riformare la finanza globale.

Da ciò scaturiscono diverse osservazioni.

1/ Non si può pensare di rilanciare le economie nazionali dopo la crisi senza riformare radicalmente il sistema, che ha ampiamente dimostrato i suoi misfatti aumentando le disuguaglianze sociali in modo esponenziale e testimoniando una fragilità colpevole che penalizza l’economia reale, le piccole e medie imprese, nonché i risparmi familiari.

2/ Nel contesto di una globalizzazione galoppante, l’interconnessione delle economie è diventata troppo forte, rendendo incontrollabili crisi di ogni tipo – sanitarie, finanziarie, ecc.

3/ La perdita della nostra sovranità industriale, concessa in nome del libero mercato internazionale, non ha portato le opportunità economiche promesse e ci ha indebolito per resistere ai cataclismi, come dimostra la nostra attuale incapacità di produrre medicinali, maschere, respiratori in numero sufficiente.

“La corsa al consumo e al produttivismo si combina con la speculazione per sfociare in uno stile di vita che tutti sono sempre più d’accordo a trovare pericoloso e controproducente”

 4/ Il sistema economico autorizza profitti privati giganteschi per le grandi fortune planetarie, ma quando la situazione si deteriora, richiede l’intervento pubblico degli Stati, e quindi dei contribuenti, per pagare gli errori del passato.

5/ Tutto questo porta anche ad una considerazione di ordine più filosofico: la corsa al consumo e al produttivismo si combina con la speculazione per sfociare in uno stile di vita che tutti sono sempre più d’accordo a trovare pericoloso e controproducente, poiché lo specchio delle allodole della “crescita” e delle “buone cifre economiche” serve solo alle classi agiate, mentre le classi popolari vedono le loro condizioni di vita deteriorarsi a colpo d’occhio (minor potere d’acquisto per i beni di prima necessità, lavoro precario, isolamento della Francia periferica, ecc.).

Dovremo dimenticare le vecchie ricette.

 Dovremo ricostruire e non possiamo farlo allo stesso modo. In ogni caso, le vecchie soluzioni non funzioneranno più, visto il poco spazio di manovra che ci rimane. Lo ha annunciato lo stesso Emmanuel Macron il 16 marzo: «Vinceremo, ma questo periodo ci avrà insegnato molto. Molte certezze e convinzioni saranno spazzate via e messe in discussione». Anche Dominique Strauss-Kahn ha fatto il suo mea culpa, il 7 aprile, sulle colonne di Slate, affermando che gli oppositori di lunga data della globalizzazione, finora considerati «idealisti», «dottrinari» o «pessimisti», avevano in realtà «parzialmente ragione», perché «è molto probabile che la crisi porti a forme di delocalizzazione della produzione, regionale se non nazionale».

“Possiamo ancora chiederci se dobbiamo fidarci di coloro che ci hanno messo al muro per indicarci la strada giusta d’ora in poi”

L’ammissione del fallimento è coraggiosa, ma possiamo ancora chiederci se dobbiamo fidarci di coloro che ci hanno messo al muro per indicarci la strada giusta da seguire d’ora in poi. In ogni caso, i sostenitori del vecchio mondo cercheranno soprattutto di salvare quello che ancora si può salvare di fronte all’evidente fallimento del sistema che hanno messo in piedi.

La pandemia ci offre un’opportunità unica di considerare una profonda riprogettazione del nostro tessuto economico e sociale. Per di più, ci costringe a farlo. Non ci sarà una via d’uscita comoda e noi eviteremo il peggio solo preparandoci ora al cambiamento di rotta, con l’obiettivo di riorientare i risparmi delle famiglie verso una spesa che costruisca un’economia utile e sostenibile. Resta da vedere come e, soprattutto, chi pagherà il conto.

Chi finanzierà il piano di rilancio dell’economia?

 In effetti, questo è il problema. Le belle dichiarazioni d’intenti dei globalisti neoliberali, sia di sinistra che di destra, saranno presto finalizzate a far ingoiare ai cittadini pillole molto amare, ai quali si chiederà di stringere la cinghia per «riformare».

La crisi che stiamo attraversando costituisce sia uno shock della domanda (le famiglie consumano meno) sia uno shock dell’offerta (le aziende producono meno). Per farvi fronte, le misure messe in atto dal governo francese sono essenzialmente keynesiane. Si tratta quindi di investire fondi pubblici per sostenere il consumo e mantenere a galla la produzione. Queste misure sono più o meno condivise da tutti i paesi europei e sostenute da un allentamento dei vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht.

“Le politiche keynesiane, con il pretesto delle radici storiche di sinistra, in realtà troppo spesso contribuiscono a trasformare il debito privato in debito pubblico, vale a dire il debito dei cittadini”

Ma le politiche keynesiane, con il pretesto delle radici storiche di sinistra, in realtà troppo spesso contribuiscono a trasformare il debito privato in debito pubblico, vale a dire il debito dei cittadini. Non sorprende, da questo punto di vista, che Nicolas Sarkozy, anche se bollato a destra, ne abbia fatto un uso massiccio durante la crisi del 2008. Ecco a che punto siamo: i mercati si affrettano a speculare e, in caso di un fiasco generalizzato, aspettano benignamente che gli Stati paghino il conto trasferendo il debito privato dal settore finanziario a quello pubblico per evitare il fallimento del sistema.

Sostenere le classi popolari e medie.

 È evidente che lo Stato deve ora organizzare un piano di rilancio; ma, se lo fa con i metodi abituali dell’establishment, queste misure si tradurranno in ultima analisi con la drastica riduzione dei servizi pubblici (vale a dire con la riduzione delle spese), o con il rafforzamento delle imposte (vale a dire con l’aumento delle entrate) o attraverso l’inflazione (in particolare, nell’ipotesi in cui lo Stato stampi carta moneta in grande quantità per limitare il costo del debito). Nessuno di questi scenari è auspicabile. Se si decide di limitare la spesa dello Stato, le classi popolari saranno le prime a pagarne le conseguenze, poiché sono le principali beneficiarie della spesa pubblica; e, se si ricorre all’imposta o all’inflazione, saranno piuttosto le classi medie che pagheranno il conto, poiché assumono la maggior parte dello sforzo fiscale e si appoggiano sui loro risparmi familiari per evitare l’impoverimento – tuttavia, il risparmio dei francesi sarebbe fortemente ridotto da una politica inflazionistica.

“Mettere le classi popolari e la classi medie l’una contro l’altra è stata la strategia del partito di Maastricht per decenni: si voleva far dimenticare che le uniche persone che non pagano mai per le crisi sono quelle che le causano, cioè gli attori finanziari e le grandi imprese”

Mettere le classi popolari e la classi medie l’una contro l’altra è stata la strategia del partito di Maastricht per decenni: si voleva far dimenticare che le uniche persone che non pagano mai per le crisi sono quelle che le causano, cioè gli attori finanziari e le grandi imprese. Ricordiamoci che l’inflazione galoppante degli anni Trenta, dopo la crisi del 1929, fu per molti la causa della rovina della classe media in Europa, soprattutto in Germania, e che questa situazione traumatica portò alle calamità politiche che conosciamo: il fascismo, le rivalità tra le nazioni e la seconda guerra mondiale. L’unità del paese potrà dunque essere ottenuta solo se le classi popolari e le classi medie sono esse stesse solidali di fronte alla prova, e capiscono che hanno un avversario comune: il sistema bicefalo dei mercati deregolamentati e dei mostri della globalizzazione, che rischiano di diventare onnipotenti dopo la crisi, quando molte piccole e medie imprese dovranno chiudere i battenti. È allora che Amazon vincerà la scommessa; ed è questo che bisogna impedire.

 Il principio «chi inquina paga» in economia.

 Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, non si può semplicemente rattoppare una nave che sta imbarcando acqua da tutti i lati. Lo scafo dovrà essere ristrutturato da cima a fondo. Così come applichiamo all’ecologia il principio chi «inquina paga», dovremo far pagare chi ha causato gli squilibri del sistema neoliberale globalizzato. Ciò significa in particolare: tassare le transazioni finanziarie e i redditi del capitale, istituire un’imposta universale per lottare contro l’espatrio fiscale, tassare l’automazione del lavoro, aumentare l’importo della tassa Gafam sui servizi digitali o tassare le grandi imprese per i costi ambientali delle loro attività, non solo per salvare le casse dello Stato, ma anche per riorientare il sistema di produzione e di consumo in un senso conforme all’equità e al bene comune. Invece di curare semplicemente i sintomi, è tempo di attaccare le vere radici del male.

“Così come il principio «chi inquina paga» viene applicato all’ecologia, chi ha causato gli squilibri del sistema neoliberale globalizzato deve essere fatto pagare”

 L’altra domanda da porsi è quella del debito che sta per esplodere. Quanto più gli Stati si indebitano, tanto più i tassi d’interesse del debito aumenteranno, tanto più gli operatori economici perderanno fiducia nel futuro e limiteranno le loro spese e i loro investimenti. Le misure di rilancio non possono che essere congiunturali: l’austerità tornerà molto rapidamente in primo piano, obbligando i governi europei a chiudere i cordoni della borsa.

L’opzione migliore sarà, quindi, quella di mettere in comune il debito degli Stati europei per ridurre i tassi di interesse. Ma le tensioni emerse a marzo sugli Eurobond rivelano profondi disaccordi tra i paesi del Sud (Francia, Italia, Spagna), che li hanno sostenuti fin dall’inizio, e i paesi del Nord (Germania, Olanda), che si sono rifiutati di sentirne parlare. Essi beneficiano della differenza dei tassi d’interesse tra le nazioni. Il meccanismo di sfruttamento dei paesi più poveri da parte dei tedeschi e degli olandesi è alla base della politica di austerità fiscale, le cui fondamenta sono state gettate con il «grande mercato unico» alla fine degli anni Ottanta. La Germania approfitta inoltre della politica monetaria europea per favorire le sue esportazioni ed i Paesi Bassi devono la loro prosperità alla loro politica di paradiso fiscale. Allo stato attuale delle cose, quindi, l’ordine di Maastricht pone i paesi europei sotto il controllo della Germania e dei suoi alleati privilegiati.

Il punto di vista della Francia profonda.

Naturalmente, è inevitabile ricorrere temporaneamente al debito pubblico per finanziare il piano di risanamento, poiché non esiste una cura miracolosa né denaro gratuito. Ma soprattutto bisogna cogliere questa opportunità per riformare il sistema in modo che lo shock sociale della globalizzazione possa essere meglio ammortizzato. La rivolta dei Gilet Gialli e della Francia periferica, ampiamente sostenuta dall’opinione pubblica, ha dimostrato che il Paese non voleva più le ricette politiche che erano state applicate per decenni da tutti i partiti che condividevano il potere. La Francia profonda, senza la quale nulla può essere ricostruito, non vuole più una politica neoliberale che garantisca una sempre maggiore flessibilità alle grandi multinazionali; e non vuole più una semplice politica di assistenza a breve termine, che porta all’indebitamento dello Stato senza impedire lo smantellamento dei nostri servizi pubblici fondamentali.

“La Francia profonda auspica che si lasci a ciascuno di noi la possibilità di lavorare dignitosamente, in condizioni decenti, per un salario onorevole”

 La Francia profonda auspica che si lasci a ciascuno di noi la possibilità di lavorare dignitosamente, in condizioni decenti, per un salario onorevole. Questo è stato molto chiaramente il messaggio dalle rotonde nell’inverno 2018-2019. Né la destra né la sinistra degli ultimi trent’anni hanno preso sul serio questa richiesta. E per una buona ragione: rompere con la logica dell’ipertrofia dei mercati – i cui difetti non possono che essere dolorosamente tappati con l’interminabile ipertrofia dell’aiuto sociale – richiederebbe allo stesso tempo una riforma radicale del sistema economico che ci è stato imposto dopo gli accordi di Maastricht. In altre parole, la riabilitazione del nostro tessuto economico di prossimità è possibile solo attraverso una presa di distanza con l’Unione europea, per stabilire una cooperazione strategica continentale a geometria variabile. È in questo modo, e solo in questo modo, che sarà possibile riprendere una politica protezionistica di piena occupazione. Questa presa di distanza renderà molto più facile il ricorso a sistemi di mutualizzazione dei debiti – in mancanza di ciò, è vero che si può fare affidamento sull’economia tedesca per sostenerla – ma segnerà, ancor più, la fine dei dogmi neoliberali che paralizzano ogni rifondazione della nostra economia.

Riconquistare la nostra indipendenza politica ed economica.

L’uscita dalla pandemia sarà infatti salutare solo se approfitteremo dell’immenso cantiere in corso per portare le riforme indispensabili ad una ripresa in mano sovrana delle nostre capacità industriali e del nostro sistema finanziario. Tra le misure più urgenti, il governo dovrà ovviamente sanare le ferite aperte dalla crisi, nazionalizzando alcune imprese industriali per rilocalizzare la produzione di numerosi settori. Probabilmente sarà anche necessario nazionalizzare le banche in difficoltà, senza dimenticare in seguito, di separare le banche di deposito e le banche d’affari, per evitare l’inflazione di nuove bolle speculative e per proteggere più efficacemente il risparmio. Alla luce degli ammirevoli sforzi compiuti dal personale sanitario, diventerà finalmente essenziale riabilitare l’ospedale pubblico, così come diventerà essenziale riabilitare i servizi pubblici locali e i trasporti, che sono stati trascurati per troppo tempo.

Più a lungo termine, il nervo della guerra economica, per finanziare le riforme, sarà quello di tassare chi beneficia maggiormente del sistema pagando meno tasse: i grandi gruppi multinazionali. Altrimenti, qualsiasi cosa si faccia, qualunque siano i metodi che si applicheranno, saranno sempre le classi popolari e le classi medie a pagarne il prezzo per prime. È impossibile lottare contro le aziende quasi monopolistiche che possono, in qualsiasi momento, delocalizzare la maggior parte della loro produzione e che scelgono di pagare le tasse nei Paesi Bassi o in Irlanda piuttosto che nei territori dove vendono i loro prodotti.

“Il nervo della guerra economica, per finanziare le riforme, sarà quello di tassare chi beneficia maggiormente del sistema pagando meno tasse: i grandi gruppi multinazionali”

L’unica arma degli Stati è il ricorso ai circuiti corti e al protezionismo. Non un protezionismo nazionalista aggressivo volto a schiacciare i paesi rivali, come fanno allegramente gli Stati Uniti e la Cina, ma un protezionismo concertato con eventuali alleati europei. Quanto più questo protezionismo globale troverà sostegno presso i nostri partner, tanto più sarà efficace di fronte agli assalti economici esterni, consentendo anche collaborazioni fruttuose per grandi progetti comuni. Paradossalmente, questa politica potrebbe anche dare nuovo slancio ad una certa idea dell’Europa, a margine delle istituzioni esistenti.

L’obiettivo finale sarà quello di liberare l’economia locale dalla concorrenza delle grandi aziende internazionali. Il capitalismo globalizzato, ha assunto una forma talmente tentacolare che è arrivato a schiacciare gli ideali di libertà che all’inizio erano serviti a legittimarlo: in fondo, chi può ora credere al mito dell’uomo che si è fatto da sé, partendo dal nulla, che riesce a salire la scala del successo fino a guadagnarsi una vita molto dignitosa? Per ognuno di noi, al contrario, è diventato straordinariamente difficile staccarci dalla nostra condizione originaria, proprio perché la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di una minuscola minoranza di grandi fortune, e il sistema di mercato è diventato una vasta struttura tecnocratica, di cui finiamo per essere gli accoliti, e alla quale i politici non osano più nemmeno opporsi. Speriamo che, con la fine della crisi sanitaria, usciremo anche noi dalla crisi democratico-economica del mondo neoliberale. In definitiva, questo dipende da noi.