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Cinquanta sfumature di verde

di Alain de Benoist - 20/06/2023

Cinquanta sfumature di verde

Fonte: Diorama letterario

Heidegger ha scritto nella sua "Introduzione alla metafisica" (1935): «L’oscuramento del mondo, la fuga degli dei, la distruzione della Terra, la gregarizzazione dell’uomo, il sospetto odioso verso tutto ciò che è creativo e libero, tutto ciò ha raggiunto, su tutta la Terra, proporzioni tali che categorie infantili come pessimismo e ottimismo da tempo sono diventate ridicole».
Sono parole che si applicano benissimo all’ecologia. Oggi, a parte qualche scontroso reazionario, tutti si dicono ecologisti. Se ne potrebbe essere lieti se, dell’ecologia, non si potessero avere le idee più diverse, le peggiori come le migliori. Lo testimoniano le due forme di ecologia più diffuse nel solco dell’ideologia dominante: da un lato il “capitalismo verde” e il suo corollario, lo “sviluppo sostenibile”, dall’altro l’ecologismo radical chic, che è anche quello dei partiti Verdi.
La teoria dello sviluppo sostenibile vuol fare quadrare il cerchio: guardandosi dal mettere in discussione il capitalismo, che è la maggiore causa della devastazione della Terra perché per sua natura combatte tutto ciò che rischia di ostacolare l’espansione planetaria del mercato, pretende di difendere l’ambiente senza però ripudiare l’ideale moderno della crescita. Ma, bisogna ripeterlo, non si può avere una crescita industriale e demografica infinita in uno spazio finito. Lo sviluppo sostenibile, pilotato da esperti che credono che l’ideologia si riduca alle anomalie climatiche e all’impronta carbone, che contano sulle “tecno soluzioni”, cioè sul ricorso a sempre più tecnica per correggere la tecnica, e vogliono decidere su tutto in termini di quantità e redditività perché nella natura vedono solo un oggetto da gestire, si accontenta di rinviare le scadenze, adottando l’atteggiamento di un pilota di nave che, avvertito di star dirigendosi contro gli scogli, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. Chi parla di ecologia senza mettere sotto accusa il capitalismo farebbe meglio a tacere.
L’ecologismo radical chic, invece, funziona sulla tematica del pentimento morale in una prospettiva “planetaria” e apocalittica («pentitevi, perché la fine è vicina!»). Veicolato da piccoli borghesi delle grandi città che non hanno alcuna idea di cosa sia davvero la natura (i cacciatori la conoscono e la rispettano meglio di loro), perorano un’ecologia fondamentalmente punitiva col pretesto di “far del bene al pianeta”, che ai loro occhi non è che uno spazio mondiale in via di unificazione. Come fare del bene al pianeta? Proibendo gli alberi di Natale, il foie gras, la caccia alla lepre e le corride, favorendo la promozione delle pale eoliche e dei monopattini elettrici, vandalizzando le opere d’arte o magari legalizzando la cannabis e inviando carri all’Ucraina. Strano modo di preservare l’ambiente.
Che fare, allora, se si vuol restituire all’ecologia il suo vero senso? Innanzitutto evitare quella che Bernard Charbonneau chiamava la «periferizzazione del mondo», la trasformazione del mondo in una periferia senza fine, fatta di costruzioni industriali, sedi di grosse società, terre desolate, “grandi insiemi” e centri commerciali. Impedire la devastazione del mondo da parte di un capitalismo liberale che cerca solo di massimizzare i profitti. Preservarlo dall’accelerazione del tempo e dal restringimento dello spazio. Farne un luogo non solo vivibile, ma abitabile.
Questa ecologia è un’ecologia del locale, del territorio, del paesaggio, del sito, del «luogo che fa legame» (Maffesoli). L’ecologista sincero è un amico dei luoghi, che sono altrettanti abiti con cui i popoli hanno rivestito la Terra. I luoghi, come gli uomini che li abitano, non sono intercambiabili, anche se entrambi vivono nell’orizzonte della precarietà. Nietzsche diceva che «l’occhio del nichilista idealizza nel senso della bruttezza». La bruttezza oggi è voluta e ricercata, perché la bellezza è considerata superata. Occorre restituire al mondo la sua bellezza e la sua diversità, a partire dalla diversità dei popoli e delle culture.
Non si tratta solo di rispettare l’ambiente, ma di rifondare un’amichevole connivenza fra l’uomo e la natura, che si potrebbe riassumere nei termini di Martin Buber: sostituire l’io-tu all’io-ciò. Ritrovare il senso del cosmos. Smettere di ragionare secondo il dualismo soggetto-oggetto ereditato da Cartesio che inaugura un’assoluta separazione tra la cultura e la natura, gettando le basi di quello che Augustin Berque chiama il paradigma occidentale moderno classico. Armonia ma non fusione. Perché bisogna anche respingere l’ecologismo New Age, mistico e fusionale, e l’antispecismo, che vuole dimenticare che l’uomo è creatore di se stesso perché, contrariamente agli altri animali, l’ambito che gli appartiene in proprio è la storicità. Solo l’uomo diviene storicamente. L’umanità è una solo biologicamente; culturalmente è per forza molteplice. L’uomo non ha un ambiente specifico. Crea il suo a sua guisa, e questa disposizione sfocia nella diversità delle culture.
L’ecologia è fondamentalmente conservatrice, poiché si batte per il rispetto degli ecosistemi e dei cicli naturali, valorizza il radicamento, rifiuta il saccheggio dei paesaggi, ha il senso della terra, diffida tradizionalmente dei danni provocati in nome del produttivismo e del progresso. Ma è anche rivoluzionaria. Nel 1937, Bernard Charbonneau pubblicò un articolo intitolato "Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria", constatando che «in un mondo che si lascia andare nel corso del Niagara economico, la conservazione diventa rivoluzionaria». Aveva ragione. Cambiare rotta sarebbe un atto molto profondamente conservatore e perfettamente rivoluzionario.