Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Combattere l'immigrazionismo vuol dire combattere la disgregazione sociale e l'umiliazione dei ceti popolari

Combattere l'immigrazionismo vuol dire combattere la disgregazione sociale e l'umiliazione dei ceti popolari

di Antonio Catalano - 02/09/2025

Combattere l'immigrazionismo vuol dire combattere la disgregazione sociale e l'umiliazione dei ceti popolari

Fonte: Antonio Catalano

Con gli anni ’80 il pensiero dominante cominciò a battere sul tasto degli italiani che “non vogliono più fare certi lavori” e un po’ alla volta quasi tutti si convinsero che fosse così. I lavori “sporchi” li vogliono fare solo gli stranieri, non i turisti certo, e per sostenere questa tesi nasceva un giornalismo di inchiesta per disvelare questa verità. In Germania il giornalista Gunter Walraff si “traveste” da turco ed entra nel circuito del lavoro “sporco”, quello dei lavori che i tedeschi un po’ alla volta cedono agli immigrati, in particolare, allora, ai turchi. Il libro era “Faccia da turco”.
Ma perché questi lavori venivano ceduti un po’ alla volta agli immigrati? Semplicemente perché questi costavano di meno, molto di meno, ed era più conveniente assumerli. La retorica degli italiani (o tedeschi) che non vogliono più fare certi lavori era solo il rivestimento ideologico giustificativo dell’apertura delle frontiere ai grandi flussi migratori. Il capitalismo entrava nella fase globalista, per affrontare la quale serviva una piena liberalizzazione (deregolamentare – deregulation si diceva – era la parola d’ordine) al fine di competere sul mercato internazionale. Bisognava comprimere il lavoro, abbassare il suo costo, ma insieme serviva fare a pezzi tutta la normativa sul lavoro costata decenni di lotte sindacali e politiche.
Non mi si venga a ricordare che anche noi siamo stati un popolo di emigranti (non: “migranti”) eccetera eccetera, oggi l’emigrazione non è più quella, stiamo parlando d’altro.
Piaccia o non piaccia, la miglior interprete di questa esigenza squisitamente capitalistica è stata la sinistra (la quale da allora comincia a perdere la sua connotazione storica di paladina degli interessi delle classi lavoratrici). Sinistra che abbraccia in toto l’ideologia del multiculturalismo che sociologia e saggistica istituzionale aveva elaborato nelle università americane per poi diffonderla tramite la grande divulgazione. Nel campo pubblicitario, per esempio, fu molto impattante, sul piano dello scardinamento dei vecchi assetti mentali, la campagna di Benetton condotta da Oliviero Toscano “Tutti i colori del mondo”, in cui si mostravano ragazzi e ragazze di etnie diverse felici e sorridenti.
La cultura del multiculturalismo (e delle sue varie declinazioni) divenne il vessillo culturale e distintivo della sinistra. Guai a metterne in discussione i presupposti, si veniva immediatamente tacciati di razzismo, per cui i grandi flussi migratori venivano salutati come i benvenuti. A proposito di benvenuti, mi viene in mente un certo Benvenù, così si faceva chiamare, un giovane intraprendente di origine centrafricana, che nella mia Lucera (Foggia) svolgeva un’alacre attività privata di collocamento del lavoro. In sostanza era un “caporale” che gestiva la collocazione della forza lavoro immigrata. Un giorno andai nel suo “ufficio”, con la scusa di cercare assistenza per un mio genitore, e lì toccai con mano la realtà del suo lavoro. Guai a obiettare sull’attività di Benvenù, nel senso di metterne in rilievo la sua oggettiva funzione di “caporale”, con i miei amici (sempre di meno) di sinistra, storcevano il muso e mi guardavano male: “ma stai diventando proprio di destra!” commentavano con commiserazione. Qualche anno dopo Benvenù sarebbe finito sotto processo per una serie di reati che non sto qui a elencare.
Penso, almeno spero, che si sia capito il ragionamento. L’accoglienza, l’apertura dei porti e tutta quanta la retorica dell’inclusione non si sono fatte largo perché a un certo punto siamo diventati più “umani”, ma semplicemente perché serviva giustificare la liberalizzazione dei flussi migratori. E in questo lavoro la sinistra, associata a certi settori della chiesa cattolica, ha mostrata di essere la più brava. La destra si è trovata nella tenaglia della difesa dell’“identità” minacciata dagli immigrati (specialmente se islamici) e dell’accettazione delle regole del mercato che chiedono manovalanza a buon mercato. Insomma, siamo alla classica costituzione di quell’esercito industriale di riserva che il capitalismo tiene sempre in caldo per disporre in libertà della forza lavoro a condizioni ad esso più convenienti.
Evidente che finché i numeri rimanevano passabili, tutto sommato si riusciva ad accettare la situazione, con gli irenici accoglientisti a saltarellare come gioiosi arancioni Hare Krishna, ma il continuo arrivo di immigrati non poteva che far diventare la questione sempre più esplosiva, sul lato naturalmente dei ceti popolari. Il lavoro per gli italiani diventava sempre più scadente e mal pagato e la situazione sociale sempre più complicata, perché c’è un limite oltre il quale non si può andare, inutile girarci intorno, e demagogici e dannosi sono quegli “esperimenti” sociali alla Mimmo Lucano (che pretendeva, con i soldi pubblici, a scapito dei residenti calabresi, di riempire la sua Riace di immigrati). Tutt’ora certi sciagurati pensatoi continuano a proporre soluzioni del tipo “diamo i centri in via di spopolamento ai migranti”, proposte sulle quali ora non mi trattengo perché allungherei di molto il discorso, ma varrà la pena tornarci, perché si riallaccia al drammatico tema dello spopolamento delle aree interne.
Allora, fatta questa doverosa premessa, in via di conclusione possiamo affermare che: a) la deregolamentazione dei flussi migratori è una strategia della classe dominante; b) le nostre società non sono oggi migliori perché vige il multiculturalismo (costruzione ideologica giustificativa di società liquida e villaggio globale); c) il lavoro è sicuramente peggiorato in questi ultimi 40 anni sia sul piano della sicurezza che salariale; d) quei famosi lavori “che gli italiani non vogliono più fare” sono diventati uno standard per tutti.
Inoltre, c’è il grosso tema della sicurezza. Bisogna avere il coraggio di parlarne, inutile far finta di niente. Sicurezza non significa legge e ordine, questa è di solito la traduzione sprezzante del tema di una sinistra diventata anarchicheggiante. Sicurezza significa innanzitutto dare ai cittadini la garanzia di vivere senza dover competere a ribasso, darwinianamente, con un esercito di riserva in continua espansione (vedi decreto flussi approvato recentemente dal Governo: quasi mezzo milione di immigrati “regolari” nei prossimi tre anni). Significa vivere in quartieri dove il disagio non si tocca con mano per via di una presenza ponderante di immigrati (è importante sentirsi a casa propria, non vivere quel senso di spaesamento generato da una presenza “eccessiva” di esterni). Significa contrastare quella violenza diffusa determinata da una conflittualità ormai endemica in medio-grandi città (vedi fenomeno delle bande giovanili). Significa non dover aver paura di circolare per le strade dopo una certa ora perché piene di immigrati sbandati (vedi ultimo caso donna violentata a Tor Tre Teste a Roma). Non è negando il bisogno di sicurezza, innanzitutto bisogno dei ceti popolari, che si facciano passi in avanti, come se questo problema fosse solo il parto di un vannaccismo razzista. Questo atteggiamento è perlomeno irresponsabile, per non dire altro, peraltro non permette, per esempio, di comprendere quanto sta accadendo in Gran Bretagna, se non ricorrendo ai facili luoghi comuni del perbenismo accoglientista. 
In Gran Bretagna sta crescendo un impetuoso movimento di protesta contro l’immigrazione di massa. La gente del popolo non vuole che nei propri quartieri gli hotel si riempiano di immigrati richiedenti asilo, ottenuto il quale poi arrivano i famigliari, per cui ogni richiedente asilo va al minimo moltiplicato per due. Tanto per cambiare, la sinistra non capisce quello che sta succedendo, la colpa ricade sulla destra xenofoba e razzista, come per esempio fa “il manifesto” che parla di tumulti anti-migranti e razzisti. Chiaro quindi che se la sinistra si consegna supinamente agli interessi del capitale migrantista la destra, nelle sue varie accezioni, copre il vuoto sostenendo le ragioni dei manifestanti e, non a caso, Nigel Farage trionfa nei sondaggi. Qui uno dei tanti filmati girati di questi giorni in Gran Bretagna: https://www.youtube.com/watch?v=0RMyXnW0qb0
Prima conclusione. È chiaro che il punto limite è ormai più che superato, andare avanti in questa direzione è grave e colpevole. La sinistra si fa sostenitrice dei processi disgregativi delle nostre società con l’irresponsabile propaganda dell’accoglienza indefinita, la destra si fa interprete del malessere di gran parte della popolazione ma senza essere in grado di interrompere i flussi in quanto compartecipe di quegli interessi che li generano. È chiaro quindi che serva una prospettiva alternativa a queste due posizioni, una prospettiva che incarni quei sentimenti di giustizia sociale che hanno caratterizzato i movimenti dei lavoratori dal dopoguerra gli anni ’70.
Ma oggi questo non può darsi nella meccanica riproposizioni di “antiche” posizioni di “classe”, in quanto lo scenario internazionale è completamente mutato rispetto all’epoca, determinando una questione sociale dalle caratteristiche nuove, per esempio la necessità di unire la classe lavoratrice al ceto medio sempre più proletarizzato. La mole delle contraddizioni non è quindi più riconducibile alla scala della lotta di classe come intesa nel Novecento. Oggi, per rendere credibile e praticabile una lotta che respinga la “confusione” determinata dalle spietate logiche del mercato liberista e globalista, è necessaria una dotazione programmatica politica basata sulla sovranità nazionale, e popolare. Ma qui il discorso diventa strettamente politico, e quindi per il momento passo.