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Complottismo al tempo del “Coronavirus”

di Luca Leonello Rimbotti - 08/05/2020

Complottismo al tempo del “Coronavirus”

Fonte: Italicum

Si è instaurata una dittatura senza dittatore, insinuatasi nelle menti massificate senza apparente contrasto, mettendo le società nazionali al servizio di “un’ideologia del profitto che si è imposta senza mirare ad altro scopo che all’onnipotenza di una potenza finanziaria illimitata”

L’attuale fase di restrizione delle libertà individuali, causata dall’emergenza per il cosiddetto “coronavirus”,
regala al potere cosmopolita le più favorevoli condizioni per operare un programma di irreggimentazione universale, quale neppure le dittature totalitarie del passato avrebbero mai potuto sognarsi. Che sia solo un caso, un caso davvero straordinario, che al potere mondiale sia stata offerta l’occasione per mettere in campo una così totale misura di controllo e addomesticamento sociale di massa? Vogliamo credere al caso? E sia. Crediamoci. Tuttavia, è impossibile non sottolineare il fatto che proprio nelle settimane di massima allerta anti-virus si è registrata, e ancora si registra, una strana docilità delle minoranze cosiddette “alternative”, passive e obbedienti dinanzi alla dislocazione per legge di ogni legame sociale e comunitario: “distanziamento sociale” significa disintegrazione della comunità.

Proprio loro, le avanguardie della sovversione sostenibile, solitamente così interventiste, così aggressive, proprio loro brillano per l’assenza. Perché questa inerzia, questo mutismo di ogni politica di contrapposizione? Verrebbe da chiedersi: ma dove sono i vecchi “black-bloc”, i grandi rovesciatori di cassonetti che in tempi non così lontani fecero “tremare” il potere capitalista? E le nuove e più modeste “sardine”? E i girotondini, i marciatori della pace, gli anarco-insurrezionalisti, i militanti dei centri sociali, insomma tutta la grande armata equa e solidale degli “antagonisti” del sistema capitalistico, dove si è nascosta? Perché questo silenzio, proprio mentre si offrirebbero ottime occasioni per agire, in un clima di generale allarme sociale e di destabilizzazione dei collaudati comparti sociali? A cosa o a chi dobbiamo questo capolavoro di domesticazione dello spirito di rivolta insito nell’animale sociale, rivoltoso o imborghesito che sia?

In passato si è parlato spesso della capacità dei nuovi linguaggi (le “neolingue”) di incidere sulla realtà, deformandola a piacere e introducendo motivi lessicali in grado di agire sulla psiche collettiva. Personaggi come Orwell o Klemperer già al loro tempo considerarono la portata virale di certi linguaggi. Giudicarono che il fulcro della manipolazione non risiede tanto in codici segreti di scelte minoranze, quanto nel significato che circola liberamente nel popolo, attraverso i significanti quotidiani: “Non il linguaggio-sistema, infatti, non il linguaggio-codice, ma la lingua parlata, la lingua della comunicazione quotidiana, la parola che ha luogo tra questi parlanti reali, è l’ambito dell’incubazione, dell’infezione e della propagazione irresistibile del virus”[1].

La capacità che ha il potere contemporaneo di insinuarsi nella coscienza dell’uomo-massa, determinandone convinzioni e comportamenti, ma dandosi l’aria di distribuire sempre maggiori dosi di libertà e autonomia, è il vero capolavoro dell’epoca attuale. La mondializzazione delle coscienze attraverso il livellamento universale entro codici divenuti sapere diffuso, rivela il vero colpo di genio dell’intelligenza collettiva che governa attualmente il pianeta. Si tratta di qualcosa che assomiglia come una goccia d’acqua ad un dispotismo inavvertito, un “totalitarismo soffice”. Il martello della “verità” conculcata agisce ormai solo più nel subcosciente, non ha più un ruolo sociale, è l’invisibile attrezzo con cui già dall’avvento della democrazia internazionale il potere si è assicurato il tranquillo assoggettamento di plebi ormai da tempo narcotizzate:

“Il totalitarismo è soft quando non ha bisogno della coercizione e della repressione per produrre assoggettamento, perché quest’ultimo è dato preliminarmente. Il totalitarismo è soft quando l’assoggettamento è preventivo. Anzi, in linea di principio, quella soft sarebbe la forma compiuta del totalitarismo, se avesse una stabilità, che, invece, non possiede. Ma da cosa dipenderebbe questo assoggettamento preliminare, questo adattamento integrale alle condizioni poste dal potere? Una risposta corrente è: dalla mancanza di alternativa. Il mondo sarebbe solo quello che ci viene propinato mediaticamente come l’unico mondo vivibile”.[2]

Questa condizione è resa bene dalla natura reticolare del potere che, come già notava Foucault decenni fa, non è concentrato in una mano, è spersonalizzato e non unitario, costruito sull’affidabilità di manager della dominazione che costruiscono la macchina del controllo tralasciando la fase meramente repressiva, ormai inutile e obsoleta, e invece mettendo al centro dell’apparato dell’assoggettamento una forma nuova di terrorismo, ubiqua e inconoscibile, non centralizzata e, soprattutto, avvertita dai più, in maniera del tutto rovesciata e paradossale, come vettore di “inclusione”, “progresso”, “solidarietà”. La stessa diffusione di questi termini, assicurata dall’assuefazione, rivela la dimensione patologica in cui sono cadute le masse che, lavorate da decenni di propaganda, scambiano la mostruosità del potere mondiale per momento di crescita, di unificazione dell’umanità entro categorie etiche comuni, col condimento delle solite fantasie utopiche del tipo della liberazione dalle barriere, cittadinanza del mondo, pace perpetua, momento di crescita, e quant’altre banalità la disturbata psicologia politica progressista e “democratica” sia in grado di rappresentarsi.

Al culmine del processo evolutivo progressista, si ha insomma il bel risultato di vedere una società innestata sull’inganno e sulla mistificazione. Oppure, come è stato scritto senza tante perifrasi, si può affermare che nella nostra epoca “occupa un posto di rilievo l’idea di una assolutizzazione della menzogna. Vivremmo in società in cui la distinzione fra fattuale e fittizio è venuta meno, in cui dominano l’inganno, l’occultamento, l’irrealtà. Vivremmo in un unico mondo falsificato”. Le energie che animano questo “mondo falsificato” sono introvabili, l’uomo della strada o l’osservatore non hanno i mezzi per fermarne l’immagine, si va avanti per prognosi presentite, per istinto, per facoltà intuitive. Il potere è occulto nel senso proprio del termine. Non si lascia osservare. La macchina della decisione è in mani sconosciute. Esattamente in questo grumo di surreali contraddizioni risiede la caratteristica principale del potere mondialista, la sua capacità di nutrirsi di assenza e, al tempo stesso, di intimidazione: “a un potere senza volto corrisponde un terrore senza volto”[3]. Su tutta questa sovrastruttura di falsificazione e impostura che è la società moderna, costruita sugli ideali universalistici coatti, siede sovrana l’alienazione, che guida sia i dominanti che i dominati.

In queste condizioni, risulta impossibile non assumere atteggiamenti “complottisti”, nel pieno, come siamo, di un dramma del potere che esprime l’assenza e la virtualità. L’apologo sul “re nudo”, che narra il condizionamento di massa che porta alla credulità più idiota, bene esprime l’impossibilità di credere a ciò che si vede. Oggi, ogni spirito intelligente sottrattosi all’incantesimo propagandistico, laico o ecclesiastico, non può non credere esattamente in ciò che non si vede.

Sta operando una dittatura senza dittatore, insinuatasi nelle menti massificate senza apparente contrasto, mettendo le società nazionali al servizio di “un’ideologia del profitto che si è imposta senza mirare ad altro scopo che all’onnipotenza di una potenza finanziaria illimitata”, attuando una violenta prassi esclusivista: “una delle astuzie del sistema consiste nel convincere ogni refrattario al pensiero unico di essere isolato, senza dubbio in preda al delirio”[4].

Il macchinismo sociale che regge il pianeta, anche attraverso la personalizzazione dell’apparato digitale, ha precisi riscontri nel visionarismo gnostico-anabattista di orientamento massonico, quel ginepraio di scientismo e sogni ad occhi sbarrati che è la concezione del mondo giacobino-calvinista, costruita sul falso mito dell’universo come macchina, del Dio-orologio, della società come conglomerato di individui eterodiretti dall’oligopolio multimediale.

Come notava a suo tempo Serge Latouche, il tragico paradosso è l’anima del progresso liberal. Per dirne una: “L’inquinamento creato dalla tecnica reclama più tecnica per risolvere i problemi da essa posti. Si pensa così di creare nuovi batteri o altri xeno-organismi per divorare o riciclare i rifiuti e le scorie del tecnocosmo. La tecnica crea situazioni tali che sembra impossibile uscirne senza ricorrere ad ancora più tecnica”[5]. Accade così che lo “xeno-organismo”, di quando in quando, per sventatezza oppure per calcolo, o per tutti e due i motivi, cada di mano allo scienziato chiuso nel suo laboratorio, e prenda ad aggirarsi per le plaghe del mondo. Con i risultati a tutti noti. Non è che questo rende possibile di fare le prove generali per un nuovo regime? Introduzione di leggi eccezionali, restringimento della libertà personale, divieto di riunione pubblica, etc., tutto questo, una volta introdotto, verrà facilmente rimosso dopo l’emergenza epidemica, oppure, con la scusa della protezione sanitaria e sociale, diventerà col tempo struttura di sistema?

Qui non si tratta di fare il “complottista”. Si tratta di voler vedere, oppure di rimanere nel sonno eterno del paradiso artificiale progressista. Che c’è qualcosa che non torna lo vedono anche i ciechi. Si tratta di applicare nei confronti del potere quella capacità critica che la dominazione consumista liberal ha spento in individui e masse, applicando il più grigio conformismo. La colonizzazione della sfera privata, la riduzione dell’umano alla dimensione domestica individuale, la segregazione delle coscienze non è affare solo legato al periodo del “coronavirus”. L’aggressione diretta all’uomo, colpito nella sua specificità di erede ricco di radici, è all’opera da un pezzo ed è il compimento di un progetto chiaro come il sole, che ha in mente l’annientamento finale dei collegamenti sociali, delle appartenenze e dei legami, distruggendo non solo le nazioni e le comunità, ma anche gli individui, concepiti come un programma e manomessi nei laboratori ideologici dei “totalitari cibernetici e maoisti digitali”[6].

L’attuale retorica sulla vita, martellata in sincrono da parlamenti e pulpiti, è l’indizio: si suggerisce di difendere la vita ad ogni costo, anche se questo comporta una sostanziale non-vivibilità, mettendo a repentaglio tutti i retaggi di cui è fatto l’uomo, la biopolitica, l’etnostoria, il radicamento nell’autoctonia che costruisce l’immedesimazione nel luogo, nel paesaggio, nell’anima delle cose e degli uomini. Quando etica ed estetica coincidevano. Alla qualità della vita si è sostituita la quantità. Basta rimanere vivi, non importa con quali costi. Distrutta questa struttura primordiale, al potere anonimo cosmopolita si disvela l’obiettivo finale, la creazione dell’impero mondiale dell’uguaglianza universale, la poltiglia antropologica che serve alla “dittatura di segno ideologico liberale”[7]. È un fatto che il potere vero e unico è in mano a una sovrastruttura dispotica che agisce per i propri interessi e contro quelli dei popoli. Un sottomondo fatto di cerchie:

“quei ristretti gruppi di potere i quali controllando la produzione industriale e la finanza, sono in grado di condizionare in modo determinante le scelte e le strategie dei grandi partiti di massa, come pure di determinare la stessa evoluzione di ideologie o dottrine politiche”[8].

In questi ambienti, dove ribolle la convinzione di detenere la verità assoluta, asserita per legge come dogma universale, viene a galla tutto il retroterra degenere del progressismo:

La giustizia della responsabilità individuale fondata dalla Rivoluzione francese e dal diritto francese diventa così una polizia di sicurezza sociale, incaricata di braccare gli elementi deviati e pericolosi, riconoscibili dai loro tratti fisici. L’idea di una necessità biologica della devianza e del crimine si impone a poco a poco in un contesto fortemente improntato a un’idea di darwinismo sociale, che induce a preferire una polizia preventiva a una giustizia riparatrice. In parallelo, e in sinergia con questi fenomeni, si sviluppano, con i progressi della medicina epidemiologica, le politiche sanitarie di controllo e di filtro delle popolazioni e dei loro flussi[9].

In questo modo, l’intreccio fra potere, società e medicina sociale è assicurato. Come i fatti dimostrano. La guerra all’identità comunitaria, ed anche la guerra batteriologica all’identità individuale, comunque la si concepisca, non sarà che un episodio di crescita, regolato da programmi che vengono da lontano, ben ponderati sin dall’inizio del dramma cosmopolita: “La rivoluzione industriale del XIX secolo obbedisce quindi alla logica cumulativa di una razionalità calcolante, la cui natura verrà svelata da Martin Heidegger negli anni Trenta del Novecento”[10]. Il filosofo-contadino difatti individuò da subito la caratteristica fondamentale della tecnica gestita dal potere “democratico”: una devianza criminale.

[1] Rocco Ronchi, Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria, in Forme contemporanee del totalitarismo, a cura di Massimo Recalcati, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 45-46.
[2] Fabio Galimberti, La macchina della rimozione, in Recalcati, cit., p. 265.
[3] Le due ultime citazioni, ibid., pp. 264-65.
[4] Viviane Forrester, Una strana dittatura, Ponte alle Grazie, Firenze 2003, p. 43.
[5] Serge Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 56.
[6] Alessandro Gnocchi, Totalitarismo digitale. Così il web sottomette l’individuo alla massa, “Il Giornale”, 7 febbraio 2010. L’espressione è di Jaron Lanier, “l’inventore della realtà virtuale”, esperto di collettivizzazione informatica.
[7] Cfr. Marco Tarchi, Padroni del mondo e dittatori del pensiero, in La paura e l’arroganza, a cura di Franco Cardini, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 9: “Sembrava assurdo […] paventare il rischio di una dittatura del pensiero in democrazia e, per giunta, di una dittatura di segno ideologico liberale, messa in atto cioè da quanti fanno dei diritti di Libertà la loro bandiera”.
[8] Marco Dolcetta, Politica occulta. Logge, Lobbies, Sette e politiche trasversali nel mondo, Castelvecchi, Roma 1998, p. 46.
[9] Johann Chapoutot, Controllare e distruggere, Einaudi, Torino 2015, p. 11.
[10] Ivi.