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Contro l’antropocentrismo

di Maurizio Pallante - 06/09/2023

Contro l’antropocentrismo

Fonte: Sostenibilità equità solidarietà

Nell’Operetta morale di Giacomo Leopardi intitolata Dialogo di un folletto e di uno gnomo, allo gnomo che, spedito da suo padre «a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno», il folletto risponde che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». E allo gnomo che, incredulo, chiede: «Ma come sono andati a mancare quei monelli?», spiega: «Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male». «Ben avrei caro – replica lo gnomo – che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Al che il folletto aggiunge: «Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse». E allo gnomo che ironicamente chiosa: «Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?», il folletto risponde: «Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano». «In verità – commenta lo gnomo – che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci». «Ma i porci, secondo Crisippo, – conclude il folletto – erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale».
Giacomo Leopardi compose le Operette morali tra il 1824 e il 1832. In questo dialogo connette l’estinzione della specie umana con l’antropocentrismo, prefigurando, con duecento anni d’anticipo, ciò che si paventa possa compiersi ai giorni nostri in conseguenza della crisi climatica, delle zoonosi e di una guerra nucleare. La sua critica ai rapporti di dominio e sfruttamento instaurati dalla specie umana nei confronti degli altri viventi non si basa su motivazioni di carattere etico, ma sulla loro irrazionalità: come può una specie, per di più numericamente limitata (ai suoi tempi più che ai nostri) pensare che tutte le altre specie viventi non abbiano valore in sé stesse e la loro unica funzione sia soddisfare le sue esigenze e le sue voglie? In questo dialogo il collegamento tra l’antropocentrismo e l’estinzione della specie umana scaturisce da un’intuizione poetica – i veri poeti si riconoscono dalla loro capacità di percepire in anticipo ciò che diventerà chiaro in un futuro più o meno lontano – ma non da un’analisi scientifica, che sarebbe maturata solo mezzo secolo dopo, a partire dagli studi sull’ecologia, la disciplina che studia i rapporti di reciproca interdipendenza degli organismi viventi tra loro e con i fattori abiotici dei luoghi in cui vivono, avviati nel 1866 dal biologo, zoologo, filosofo e artista tedesco Ernst Haeckel. Da questi studi maturò la consapevolezza che, se gli esseri umani si comportano come se non fossero inseriti in questa trama di relazioni e pensano di poter ricavare dei vantaggi a scapito di altre specie viventi, o non si preoccupano se la soddisfazione delle loro esigenze altera gli equilibri geobiochimici, si innesca una serie di conseguenze a catena che si ripercuotono negativamente anche sulla loro vita.
Le pandemie che negli ultimi cento anni si sono diffuse nella specie umana con alti tassi di mortalità, sono state causate da virus che le sono stati trasmessi da animali selvatici, costretti a trasferirsi in territori antropizzati perché le foreste primarie in cui vivevano erano state abbattute per rendere edificabili, o agricoli i terreni che occupavano. La ricerca di un maggior benessere per gli esseri umani, perseguita infliggendo una sofferenza a quegli animali, ha generato sofferenza tra gli esseri umani. Analogamente l’incremento delle emissioni di anidride carbonica, derivanti dalla combustione delle fonti fossili utilizzate per ottenere l’energia necessaria a far crescere la produzione e il consumo di merci, ha innalzato la temperatura della terra, accentuando i fenomeni meteorologici estremi che sconvolgono, con frequenza e intensità crescenti, gli insediamenti umani e causano numeri crescenti di morti. La ricerca di un maggior benessere materiale, perseguita con l’uso di tecnologie che hanno alterato gli equilibri nei rapporti tra i fattori abiotici, sta generando forme di sofferenza sempre più gravi tra gli esseri umani.
La concezione progressista della storia e la confusione, messa in luce da Pier Paolo Pasolini nei primi anni settanta del Novecento, tra il concetto di progresso, come costante avanzamento dell’umanità verso il meglio, e il concetto di sviluppo, che identifica il progresso con la crescita economica, hanno rafforzato negli esseri umani la convinzione che tutte le specie viventi, animali e vegetali, tutti i minerali accumulati sotto la crosta terrestre, tutte le forze naturali suscitate dal sole – l’energia termica, i venti e il ciclo dell’acqua – siano risorse messe a loro disposizione, che il progresso consista nella loro capacità di sfruttarle in misura sempre maggiore per soddisfare sempre meglio i loro bisogni e i loro desideri, che l’equità consista nella definizione di rapporti sociali che consentano a tutti i popoli e a tutte le classi sociali di usufruirne equamente. Ma questa concezione antropocentrica del mondo non tiene conto del fatto che, se per accrescere la disponibilità di risorse si accresce lo sfruttamento delle altre specie viventi e si sconvolgono gli equilibri che regolano i rapporti tra i fattori abiotici, si otterrà il risultato opposto di peggiorare le condizioni di vita della specie umana. E di avvicinarla all’estinzione.
Nel 1967, dopo un ventennio in cui nei Paesi industrializzati l’economia era cresciuta ininterrottamente, ma non era successo altrettanto nei Paesi che venivano definiti del Terzo mondo, Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio scrisse che bisognava perseguire una più equa distribuzione delle risorse naturali tra tutti i popoli, aumentando le quantità a disposizione dei popoli poveri, perché questa era una conseguenza intrinseca alla volontà di Dio di destinare la terra e tutto ciò che contiene all’uso della specie umana. Non di una parte soltanto di essa. Nelle sue parole la presunzione antropocentrica descritta da Giacomo Leopardi con amara ironia assumeva non soltanto una valenza etica, ma una connotazione religiosa.
«“Riempite la terra e assoggettatela”, (Gen 1, 28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l’uomo, cui è demandato il compito d’applicare il suo sforzo intelligente nel metterla a valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. […] Il recente concilio l’ha ricordato: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, di modo che i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità. (Const. past. Gaudium et spes, n. 69)». (Pop. Pro., n. 22)
Abbagliati dalle luci dei progressi tecnologici, intorpiditi dall’abbondanza crescente di beni materiali, storditi dall’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive, gli esseri umani, nei trent’anni di crescita economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale, non riuscivano a vedere il nesso causale tra i progressi nella sottomissione della natura e l’aumento delle malattie causate dalle sostanze di sintesi utilizzate per accrescere la produttività industriale e agricola, dalle emissioni inquinanti di molti processi produttivi, dalla crescita dei rifiuti liquidi, solidi e gassosi. La convinzione che «la creazione intera è per l’uomo […] che Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli», impediva a Papa Paolo VI e alla maggioranza dei suoi contemporanei di vedere, mentre avveniva davanti ai loro occhi, l’inizio del cammino verso l’esito che Giacomo Leopardi aveva previsto un secolo prima che cominciasse a diventare una prospettiva possibile.
Eppure in quegli anni a qualcuno non era sfuggito quanto stava accadendo. Nel 1962 la biologa e zoologa statunitense Rachel Carson aveva dato alle stampe il libro Primavera silenziosa, che ebbe un grande successo, fu tradotto in molte lingue e venne pubblicato in italiano nel 1964. In questo libro, analizzando il processo che aveva sterminato gli uccelli di passo in una piccola oasi faunistica realizzata da una famiglia di naturalisti in un terreno di sua proprietà, ne aveva attribuito la causa a un potente insetticida, il DDT, disseminato dagli aeroplani per uccidere gli insetti che danneggiavano le colture agricole circostanti. Risalendo lungo la catena alimentare, dalle foglie e dalle cortecce degli alberi irrorati dal pesticida, all’humus in cui si erano trasformati, ai lombrichi che se ne erano nutriti, agli uccelli che si erano nutriti di quei lombrichi, le concentrazioni dell’insetticida erano aumentate progressivamente, diventando letali per tutti i livelli trofici. Il fenomeno della bioaccumulazione dei pesticidi lungo le catene alimentari fu riscontrato anche in altre nicchie ecologiche. Il ritrovamento di molecole di DDT nel grasso dei pinguini dell’Antartide avrebbe confermato che le connessioni di tutte le forme di vita tra loro formano catene in grado di attraversare i continenti.
Poiché la specie umana è al vertice di tutte le catene alimentari, l’antropocentrismo, oltre a configurare un rapporto di sopraffazione nei confronti delle altre specie viventi, è una forma di suicidio collettivo inconsapevole. Nel grafico cartesiano riportato nell’aureo libretto Allegro, ma non troppo, l’economista Carlo Maria Cipolla misura sull’asse delle X i vantaggi e i danni che può ottenere un soggetto che compie un’azione nei confronti di un altro soggetto, di cui misura sull’asse delle Y i vantaggi e i danni che può riceverne. Se l’azione del primo soggetto è vantaggiosa per entrambi, si colloca nel quadrante in alto a destra. Chi la compie è intelligente. Se l’azione lo danneggia, ma avvantaggia l’altro, si colloca nel quadrante in alto a sinistra. Chi la compie è sprovveduto. Se l’azione lo avvantaggia, ma danneggia l’altro soggetto, si colloca nel quadrante in basso a destra. Chi la compie è un bandito. Se l’azione è dannosa per entrambi, si colloca nel quadrante in basso a sinistra. Chi la compie è uno stupido. L’antropocentrismo può rientrare nel quadrante dei banditi, perché può procurare alla specie umana dei vantaggi a danno di altre specie viventi, ma in un bilancio complessivo si colloca nel quadrante degli stupidi.
Le tesi sostenute da Rachel Carson nel suo libro furono criticate aspramente dall’industria chimica e dalle associazioni degli agricoltori, ma furono ascoltate con grande attenzione dal presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e dai suoi collaboratori, che sulla loro spinta impostarono la legislazione ambientale del Paese. Il libro fu una pietra miliare per lo sviluppo e la diffusione della coscienza ambientalista in tutto il mondo, ma non riuscì a superare le mura del Vaticano.
Nel 1968, su impulso dell’imprenditore italiano Aurelio Peccei, un gruppo di intellettuali, politici, dirigenti industriali e scienziati, preoccupati dai problemi ecologici causati dalla crescita economica degli ultimi venti anni, fondò il Club di Roma e affidò a un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology uno studio finalizzato a prevedere fino a quando il pianeta sarebbe stato in grado di fornire al sistema produttivo le quantità crescenti di risorse di cui aveva bisogno per continuare a far crescere la produzione e il consumo di merci, e di metabolizzarne gli scarti. Lo studio venne focalizzato su cinque fattori di crisi: la crescita della popolazione mondiale, della produzione agricola, della produzione industriale, dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili e dell’inquinamento. Nel rapporto, pubblicato nel 1972, in inglese col titolo The Limits to Growth (I limiti della crescita), in italiano col titolo I limiti dello sviluppo, si sosteneva che, a quei tassi di crescita, il sistema economico e produttivo nell’arco dei successivi cinquant’anni avrebbe superato le capacità del pianeta di sostenerlo. Poiché la ricerca metteva in discussione il pilastro su cui si fondava l’economia dei Paesi industrializzati, suscitò forti polemiche tra chi ne condivideva le analisi e chi le riteneva infondate. Introdusse nel dibattito scientifico temi sino ad allora ignorati, ma non riuscì a far maturare una sensibilità ecologica in grado di ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi e degli stili di vita consumistici.
Indifferente alle diatribe umane, l’economia continuò a crescere e la crisi ecologica ad aggravarsi. L’ONU cominciò a preoccuparsi e nel 1983 istituì una Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, affidandone la presidenza alla dottoressa Gro Harlem Brundtland, già primo ministro della Norvegia. L’obbiettivo della Commissione, come si evince dal suo stesso nome, era l’elaborazione di una strategia che consentisse di conciliare le esigenze dello sviluppo economico con la tutela dell’ambiente. Tuttavia il messaggio principale del rapporto conclusivo, pubblicato nel 1987 col titolo Il nostro comune futuro, non metteva in correlazione lo sviluppo economico con la possibilità di ridurre il suo impatto sulla biosfera, ma con la possibilità di soddisfare le esigenze della specie umana in saecula saeculorum. In quel rapporto venne coniato il concetto di sviluppo sostenibile, che veniva definito in questi termini: «uno sviluppo che consente alle generazioni presenti di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri».
Anziché superare l’antropocentrismo, che è la matrice filosofica su cui la specie umana fonda il suo diritto di instaurare rapporti di dominio con le altre specie viventi e con gli ecosistemi, la proposta della commissione Brundtland lo rafforzava. Non poteva che derivarne un aggravamento ulteriore della crisi ecologica, come fu dimostrato dal fatto che appena cinque anni dopo l’ONU fu indotta a convocare a Rio de Janeiro un congresso mondiale, sempre sull’ambiente e lo sviluppo, con l’obbiettivo di conciliare l’inconciliabile: la riduzione delle emissioni di CO2 con la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, che le fa aumentare. Il compito di affrontare questa missione impossibile fu assegnato all’organizzazione annuale di Conferenze delle parti (COP), in cui si sarebbero dovuti incontrare i responsabili politici e gli staff tecnici del maggior numero possibile di Paesi del mondo. Nei successivi trent’anni, pur essendo state organizzate 27 di queste Conferenze, con la partecipazione di delegazioni da 196 Paesi, la concentrazione della CO2 nell’atmosfera non solo è cresciuta costantemente, ma sono aumentati anche i suoi tassi di crescita annui: dal 1990 al 2000 di 1 parte per milione; dal 2000 al 2010 di 1,5 ppm; dal 2010 al 2020 di quasi 2 ppm. Per 5 milioni di anni, fino alla fine del Settecento non aveva superato le 280 ppm. A maggio del 2023 ha raggiunto le 424 ppm. Di conseguenza la crisi climatica si è progressivamente aggravata, avvicinandosi sempre di più al punto di non ritorno.
Ogni cinque anni la specie umana celebra il suo potere organizzando una fiera mondiale denominata Expo, dove le aziende di molti Paesi espongono le innovazioni tecnologiche con cui nel quinquennio precedente hanno accresciuto la loro capacità di dominare la natura e le altre specie viventi. Nel 2015, la fiera è stata ospitata a Milano e gli organizzatori hanno pensato di conferirle una valenza etica intitolandola Nutrire il Pianeta. Non è necessario avere un master in sociologia per sapere che l’ignoranza e la presunzione sono due sorelle gemelle inseparabili ed equipollenti. E basta aver frequentato la scuola primaria per sapere che non è la specie umana a nutrire il pianeta, ma è il pianeta a nutrire tutte le specie viventi, tra cui la specie umana. Quello slogan è una spia del più ottuso antropocentrismo. Qualcuno potrebbe obbiettare che volesse semplicemente indicare il proposito di utilizzare le innovazioni scientifiche e tecnologiche per nutrire regolarmente gli 800 milioni di esseri umani che patiscono la fame. Sarà (forse), ma per risolvere o, quanto meno, attenuare questa inaccettabile ingiustizia senza accrescere lo sfruttamento delle risorse naturali e l’impatto della specie umana sul pianeta, bisognerebbe innanzitutto che i popoli ricchi riducessero la quantità di cibo che buttano e adottassero una dieta meno carnivora, in modo da poter destinare all’alimentazione umana una quota significativa dei terreni agricoli attualmente coltivati per l’alimentazione degli animali da allevamento. Dovrebbero inoltre indirizzare le innovazioni tecnologiche a ridurre il consumo di materia e di energia per unità di prodotto, allungare la durata di vita degli oggetti, riutilizzare i materiali contenuti negli oggetti dismessi, in modo da lasciare ai popoli poveri una maggiore disponibilità di risorse. La vera misura del progresso tecnologico è la capacità di migliorare le condizioni di vita degli esseri umani che ancora non riescono a soddisfare le esigenze della sopravvivenza, senza danneggiare le condizioni di vita di altre specie viventi, né aggravare l’insostenibilità ambientale.
Se lo slogan Nutrire il Pianeta fosse stato dettato dalla nobile intenzione di aiutare i popoli poveri a uscire dalla povertà (come è noto, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno) l’ottusità antropocentrica che lo ha dettato sarebbe ancora più grave, perché vorrebbe dire che con la parola pianeta gli organizzatori dell’Expo di Milano intendevano la specie umana. Poiché la specie umana non è il pianeta, ma solo lo 0,01% di tutte le specie viventi sulla Terra, quello slogan presuppone l’idea che il pianeta sia stato fatto per lei e che tutte le altre specie viventi non abbiano un valore in sé, ma soltanto la funzione di essere risorse al suo servizio.
Nonostante tutto, l’ottusità granitica dell’antropocentrismo comincia a manifestare delle crepe. Nello stesso anno 2015 in cui si è svolta l’Expo di Milano, il primo papa a scegliere il nome di Francesco d’Assisi a otto secoli dalla sua morte, rendeva pubblica una lettera Enciclica che, utilizzando l’incipit del Cantico di frate Sole, aveva intitolato Laudato sì’. In questa Enciclica viene analizzata, con un rigore scientifico connotato da una forte motivazione etica, la gravità raggiunta dalla crisi ecologica, si sostiene che sia causata dall’antropocentrismo che caratterizza la cultura e il sistema dei valori delle società industriali e che per superarla sia necessaria una profonda rivoluzione culturale finalizzata a realizzare un’ecologia integrale, riconoscendo il ruolo insostituibile di ogni specie vivente nella rete dei rapporti che le connette tra loro e con i fattori abiotici degli ecosistemi in cui sono inserite. A questa consapevolezza scientifica, sufficiente per indurre la specie umana a non considerarle al proprio servizio, Papa Francesco conferisce una connotazione etica derivante dalla concezione religiosa della Terra come creato e dei viventi come creature, a ognuna delle quali il Creatore ha assegnato una collocazione specifica nel suo disegno divino. Non è necessario condividerla per apprezzare che in questo contesto tutti i viventi ricevono una valorizzazione ulteriore.
«Dunque, si capisce meglio l’importanza e il significato di qualsiasi creatura, se la si contempla nell’insieme del piano di Dio. Questo insegna il catechismo: «L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e diseguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre». (n. 86)
Se ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella rete delle relazioni che la interconnettono a tutte le altre, il male subito da ognuna di esse si ripercuote a catena su tutte, anche su quella che lo commette:
«… essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge a un rispetto sacro, amorevole e umile. Voglio ricordare che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione». (Esort. Ap. Evangeli gaudium, 24-11-2013, n. 89). (n. 215).
La consapevolezza della pari dignità di ogni specie vivente e della necessità di ognuna di esse nella fitta trama delle relazioni che le connettono tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, non consente di considerarle risorse al servizio della specie umana, come è stato fatto fino ad ora dalla visione del mondo antropocentrica.
«Oggi la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in se stesse e noi potessimo disporne a piacimento. Così i Vescovi della Germania hanno spiegato che per le altre creature “si potrebbe parlare di priorità dell’essere sull’essere utili”». (n. 89).
La convinzione che tutte le specie viventi siano al servizio della specie umana, non è soltanto la causa di fondo della crisi ecologica, ma genera anche gravi conseguenze sociali, perché induce gli esseri umani a competere per impadronirsene e favorisce i più forti a danno dei più deboli.
«Sarebbe […] sbagliato pensare che gli altri viventi debbano essere considerati come meri oggetti sottoposti all’arbitrario dominio dell’essere umano. Quando si propone una visione della natura unicamente come oggetto di profitto e di interesse, ciò comporta anche gravi conseguenze per la società. La visione che rinforza l’arbitrio del più forte ha favorito immense diseguaglianze, ingiustizie e violenze per la maggior parte dell’umanità, perché le risorse diventano proprietà del primo arrivato, o di quello che ha più potere: il vincitore prende tutto. L’ideale di armonia, di giustizia, di fraternità e di pace che Gesù propone è agli antipodi di tale modello, e così Egli lo esprimeva ai poteri del suo tempo: «I governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra di voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt, 20, 25-26). (n. 82)
I modi con cui gli esseri umani trattano gli animali si riflettono nei modi in cui si rapportano tra loro. Il rifiuto di maltrattare gli animali si traduce in una maggiore predisposizione a instaurare rapporti sociali basati sulla collaborazione e il rispetto reciproco.
«[…] quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità. Di conseguenza, è vero anche che l’indifferenza o la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sempre per trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone». (n. 92)
Nell’attuale epoca storica, in cui l’estinzione della specie umana ipotizzata da Giacomo Leopardi due secoli fa è diventata una possibilità reale, l’Enciclica di Papa Francesco indica nel superamento dell’antropocentrismo il prerequisito per evitarla. La cultura laica e la cultura religiosa contemporanee saranno capaci di fare questa scelta? Saranno capaci di traghettare l’umanità dall’epoca storica iniziata nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale, a una nuova epoca storica capace di spostare le conquiste scientifiche compiute negli ultimi tre secoli dalla logica del dominio alla logica della cura del pianeta e di tutti i viventi?