Cosa significa “pace giusta”?
di Eduardo Zarelli - 28/08/2025
Fonte: GRECE Italia
Cosa significa “pace giusta”? Che c’è bisogno di una pace che concluda una guerra, con una soluzione giuridicamente coerente dei rapporti tra gli Stati in conflitto, regolando i loro rapporti futuri in modo duraturo. La pace così intesa assume un significato giuridico-formale, mentre l’aggettivo “giusta” aggiunge un valore, la giustizia, che è invece di dominio politico. Se nel conflitto il nemico non è riconosciuto come realtà politica, ma demonizzato come entità astratta, la guerra è religiosa, ideologica, morale, ovvero totale e la pace non praticabile. Non è un caso che tra gli ossimori del presente la “pace giusta” si spreca sulle labbra di chi nega quella possibile. In tal senso, né il bellicista né il pacifista possono essere attendibili attori di pace, solo il pacificatore lo può essere, cioè chi è protagonista di una volontà politica, paradossalmente capace di cogliere il realismo tragico della affermazione del generale Carl von Clausewitz: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». L’idea quindi di ripristinare l’ordine infranto di una pace naturale si presta a visioni di parte che non sanano le cause del conflitto reale. In Occidente si è prodotta l’idea interessata che la pace sia l’affermazione universalistica e redentiva della liberal-democrazia, con tanto di apologo utopistico di Immanuel Kant per una “pace perpetua”. L’ossimoro invalso negli ultimi decenni della “guerra umanitaria” è infatti l’intervento militare sul territorio di uno Stato sovrano, senza il suo consenso, con la giustificazione di porre fine a violazioni dei diritti umani, in realtà usato come pretesto per interessi politici egemonici. Le guerre così non finiscono più: esse diventano ibride; quindi, interminabili perché diventa tanto più difficile mettervi fine dal momento che continuano nella pace. La belligeranza diventa, in forme diverse, uno stato permanente. È la cancellazione della distinzione tra l’eccezione (la guerra) e la norma (ordinariamente, la pace), con il completo rovesciamento della formula di Clausewitz: la guerra diventa la “distruzione della politica con tutti i mezzi”. Nella transizione geopolitica in corso dall’unilateralismo al multipolarismo, viviamo miriadi di conflitti guerreggiati, asimmetrici, locali, col ricorso alle più disparate armi tecniche, economiche, ideologiche, con il rischio mai così concreto della deflagrazione in una Guerra mondiale termo-nucleare. Se il significato di “pace giusta” lo intendiamo come assunzione di responsabilità politica del conflitto, in contro tendenza all’egemone globale, lo si deve intendere come un ordine filosofico finalistico, i cui scopi sono e rimangano attuali anche dopo il conflitto e possono indicare alcune linee di condotta fattivi a partire dal principio dell’autodeterminazione dei Popoli. Esso vale, fatte le debite distinzioni, per il popolo ucraino davanti all’invasione russa, ma vale anche per il popolo ucraino manovrato dalle potenze occidentali in una guerra per procura, così come per le popolazioni russofone del Donbass discriminate dal nazionalismo ucraino. Non si tratta allora di tornare a come era prima, ma di far valere le linee forza di un finalismo realistico, ossia evidente a tutti, se si ha la volontà di vederlo così come risulta essere. La distinzione tra nazionalismo e patriottismo è fondamentale per comprendere le dinamiche in gioco. Il patriottismo è inclusivo e non si basa sulla supremazia di un gruppo rispetto a un altro. Al contrario, il nazionalismo ha una propensione esclusiva e aggressiva che tende a sopprimere le diversità interne e le tradizioni minoritarie. Lo sradicamento delle diversità interne apre la strada a un’ulteriore omologazione, minacciando la diversità culturale e la pluralità di visioni del mondo, così come la globalizzazione apolide cosmopolita. È un fatto che la convivenza di etnie dissimili all’interno della stessa comunità politica può ingenerare conflitti, fino all’implosione di guerre civili, scenario non a caso sempre più incombente anche nel cuore delle società multiculturali occidentali. Nessun giurista o commentatore, però, ne prende atto con onestà intellettuale; nessuno propone di far decidere alle popolazioni residenti in territori omogenei sotto quale governo vivere.
Il commento più diffuso sulla guerra in Ucraina è che «il diritto internazionale è il vero grande sconfitto del nostro tempo storico». C’è da domandarsi dove fosse la consapevolezza di ciò al tempo dell’impegno formale ucraino del 1991 alla neutralità con l’annuncio poi di adesione alla Nato, due colpi di Stato contro il presidente neutralista Janukovich e – dopo il secondo – l’attacco militare al Donbass russofono a quel punto ribelle; gli accordi disattesi di Minsk 2014-15 per l’autonomia federata e il cessate il fuoco in Donbass con otto anni di guerra civile; e, nel marzo 2022, il ritiro dal negoziato di Istanbul a pochi passi dall’accordo con la Russia su istigazione britannica. Tutto ciò in scia storica al disconoscimento sistematico di ogni accordo e garanzia di sicurezza continentale, tradendo reiteratamente sedici volte l’impegno statunitense ancora con Michail Gorbačëv, al crollo dell’Unione Sovietica, di non allargare la Nato a est del confine tedesco, passando invece da sedici a trentadue paesi, che inverano oggi una alleanza offensiva proiettata sull’intero planisfero mondiale. E ancora più in generale – limitandoci qui solo agli eventi più evidenti sempre della storia recente – quale legge internazionale è stata rispettata quando venne bombardata Belgrado per 78 giorni e venne conseguentemente riconosciuta la secessione del Kosovo contro la risoluzione dell’ONU che ingiungeva dovesse restare serbo? Quale norma del diritto internazionale è valsa quando sono stati invasi due paesi sovrani che non avevano responsabilità con l’attacco terroristico alle Twin towers di New York, provocando un milione e trecentomila morti in Afghanistan e in Iraq, con smaccate false prove prodotte presso l’assemblea dell’ONU? O quando è stata bombardata e smembrata la Libia in una guerra civile permanente contro il volere delle Nazioni Unite?
In questo senso l’Ucraina come particolare cade, ma la sua caduta non è fine: è condizione di una sintesi superiore, in cui l’Europa dovrebbe riconoscere sé stessa come soggetto politico intenzionale, e non come servile appendice altrui, per fare emergere un equilibrio internazionale fondato sulla comprensione della necessità in cui sovranità e spirito universale si riconciliano in una forma più alta ed equa di ordine mondiale. Ma l’Europa non è più un soggetto autonomo dalla metà del Novecento, quando le due guerre mondiali hanno fatto venir meno la sovranità continentale in favore del primato egemone atlantico statunitense. C’era un pezzo d’Europa nell’orbita imperialistica di Mosca fino al crollo dell’Unione Sovietica, ma le classi dirigenti comuniste si sono prontamente riciclate nel liberalismo come provincia dell’“impero del male minore” – per dirla con Jean-Claude Michéa – nel continente interamente occidentalizzato. In effetti i piani Marshall, i “miracoli” economici, la costruzione dell’Unione europea sono stati un processo di ricostruzione sotto tutela. Non bastano i capitali, le tecnologie, i mercati comuni per generare una volontà politica sovrana: occorre che vi sia una identità e consapevolezza di autonomia culturale, sociale, economica e militare che produca un progetto condiviso e una comunità di destino, evidentemente non prodottasi storicamente. Questo in Europa non è mai maturato, se non come un fantasmagorico accumulo retorico propagandistico per accreditare istituzioni tecnocratiche volutamente distanti dalle rispettive sovranità popolari. Il noto stratega statunitense (di origine polacca) Zbigniew Brzezinski, a tale proposito, ebbe modo di affermare con perizia inequivoca: «Qualunque espansione del campo di azione politico dell’Europa, è automaticamente un’espansione dell’influenza statunitense. Un’Europa allargata ed una NATO allargata serviranno gli interessi a breve ed a lungo termine della politica europea. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Vicino Oriente», cioè nel Mediterraneo.
Non a caso, il dato macroscopico imbarazzante che emerge dal goffo protagonismo “offeso” delle cancellerie europee, dopo gli approcci negoziali sulla guerra in Ucraina tra Federazione Russa e Stati Uniti, riguarda senza meno la falsa coscienza con la quale viene evocata la pace “giusta” sulla base di principi e ideali che invece non valgono per il popolo palestinese, nonostante un genocidio in corso sotto gli occhi del mondo. Per i palestinesi i grandi impegni morali non valgono. Non una sanzione, non un atto concreto, nulla è stato fatto per impedire una sanguinaria sostituzione coloniale in atto. Questa falsa coscienza è quella dei “volenterosi” europei, i medesimi incapaci di ergersi a parte terza e neutrale, della umiliante acquiescenza ai dazi statunitensi e l’assunzione dei costi di un conflitto che certifica la ennesima colossale sconfitta continentale nella pervicace decisione di accettare la masochistica sottomissione atlantica. La ricerca di una “pace giusta” pare un ennesimo slogan usato per alimentare la guerra con caduti altrui, dal momento che l’apparente tensione a uno scopo “ideale” – di fatto secondo i propri desiderata – serve a vanificare ogni tentativo di trovare compromessi accettabili alle parti. L’idea che la pace arriverà armando senza limiti l’Ucraina (Von der Leyen: «l’Ucraina sia un porcospino d’acciaio» nella riconversione agli armamenti del PIL europeo, già in recessione e regressione della spesa sociale) e costruendo una sorta di articolo 5 di mutuo intervento dei paesi Nato intorno a Kiev senza includerla formalmente, quale scenario presuppone? Il cessate il fuoco o la guerra totale, come gli stati maggiori delle forze armate europee già calendarizzano entro un lustro? D’altronde, la guerra in Ucraina, è un confronto tra Occidente e la federazione Russa, a livello ideologico è quindi un confronto tra una idea di sé e la realtà, quest’ultima da modellare artificiosamente attraverso l’esercizio del potere geopolitico. Lo slancio dei “pacifici bellicisti” per l’Ucraina è evidentemente screditato dalla ignavia umanitaria e il rifiuto sistematico di prendere una qual si voglia posizione contro i crimini di guerra compiuti dallo Stato di Israele. Le cancellerie europee che immemori straparlano di “aggredito” e “aggressore” a seconda della convenienza, non sono più credibili agli occhi dell’intera e maggioritaria comunità internazionale. Via libera quindi all’atto finale della colonizzazione in Cisgiordania. Lo afferma impunito il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich: «Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo non con slogan, ma con i fatti»; mentre il ministro della difesa Israel Katz ha approvato il piano militare per conquistare Gaza City, con l’ordine agli sfollati di abbandonare il territorio e una deportazione di fatto – leggi pulizia etnica – nonostante l’ONU certifichi una carestia catastrofica che pone a rischio sopravvivenza oltre mezzo milione di persone, circa la metà delle quali sono bambini. Tutto questo accade mentre l’Europa dei “diritti” e della cosmopolita “legalità internazionale”, dopo due anni di sterminio e dopo decenni di colonizzazione criminale non è riuscita ad approvare una singola sanzione, che sia una, al cospetto dell’oscenità di crimini contro l’umanità. Chi si attarda nel distinguo pusillanime, giocando sui termini, si sta assumendo una responsabilità ignominiosa con la propria coscienza e davanti alla storia, che già Hannah Arendt aveva codificato nella passività di fronte al male: l’indifferenza e la perdita del contatto con la realtà.Se l’Europa recuperasse mai la consapevolezza di qual è la sua civiltà al cospetto del nomos della Terra, si emanciperebbe all’istante dalla mistificazione oligarchica dell’Unione europea e assumerebbe il ruolo che compete a una sovranità popolare, indipendente e multilaterale, capace cioè di discernere la differenza tra “guerra” e “pace”, in modo che le due parole non siano strumento dell’egemone globale in un mondo invece multipolare, ma assunte con la consapevolezza politica di chi sa confrontarsi con il caos del conflitto in favore della forma della civilizzazione continentale e delle relazioni internazionali, cioè della autodeterminazione dei Popoli.