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Cosa succede quando il petrolio si ferma

di David Hearst - 22/05/2020

Cosa succede quando il petrolio si ferma

Fonte: SakerItalia

Con il prezzo del greggio a 20 dollari al barile, Mohammed Bin Salman sta scoprendo quello che succede quando il mondo non ha più bisogno del tuo petrolio.

Vali soltanto per l’abito che indossi.

 Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS) non può più invocare la scusa della giovinezza o dell’inesperienza.

Quel tempo ormai è passato.

Quello che hai davanti è quello che ti spetta. Il malgoverno, le cantonate e le guerre a lui legate in quanto principe ereditario potranno solo continuare, quando diventerà re.

L’intero compendio dell’arte di governare del principe ereditario si è manifestato nella burrascosa telefonata [in inglese] fatta al presidente russo Vladimir Putin alla vigilia di una riunione dell’Opec del mese scorso [marzo 2020] e che si è conclusa con una terribile guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia.

 

Un grosso sbaglio

Mohammed bin Salman ha capito da solo quanto quella telefonata sia stata un grande errore. Il prezzo del petrolio è crollato [in inglese], i depositi si stanno rapidamente saturando [in inglese], e le compagnie petrolifere dovranno affrontare realmente la prospettiva di dover chiudere i pozzi. Il settore del petrolio e del gas rappresenta [in inglese] il 50% del prodotto interno lordo del regno, e il 70% del valore [in inglese] delle sue esportazioni. Attualmente tutto questo è azzerato.

Come può riferire chiunque abbia mai incontrato Putin, puoi trattare serratamente quanto vuoi con il presidente russo, puoi anche stare sul fronte opposto in due guerre regionali  (Siria e Libia), e mantenere comunque un rapporto collaborativo così come continua a fare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ma quello che non puoi fare è mettere Putin alle strette, e questo è proprio quello che ha fatto il principe ereditario saudita dandogli un ultimatum e urlandogli contro. Putin semplicemente ha replicato alle urla consapevole che, in questa mano di poker, la bilancia dell’import/export russa è messa meglio rispetto a quella saudita.

MBS si sta ora accorgendo di quanto siano deboli le sue carte ma, ad essere sinceri, fece quella telefonata dopo essere stato consigliato da qualcuno altrettanto arrogante e sconsiderato quanto lui. Il genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, e consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner, ascoltò ciò che il principe ereditario saudita stava per fare e non mosse obiezioni.

Questo spiega anche perché la prima reazione [in inglese] di Trump verso il crollo petrolifero fu benevola. Trump pensava che ogni centesimo risparmiato sul prezzo del petrolio si sarebbe trasformato in un miliardo di dollari in più per il potere d’acquisto dei consumatori. Cambiò idea quando la sua attenzione si rivolse a quello che il crollo del prezzo del petrolio stava facendo [in inglese] alla sua stessa industria petrolifera.

 

Arabia Saudita senza petrolio

Con il prezzo del barile di greggio inferiore a 20 dollari, Mohammed bin Salman sta per capire cosa succede quando il mondo non ha bisogno del tuo petrolio. In passato, la risposta standard alla formulazione di quest’ipotesi erano sguardi di sufficienza. Ora non più. La prospettiva che l’Arabia Saudita diventi una nazione debitrice è reale.

Il declino finanziario dell’Arabia Saudita è in atto non da ora. Quando suo padre Salman è diventato re il 23 gennaio 2015, le riserve estere ammontavano a 732 miliardi di dollari. Nel dicembre dello scorso anno si erano ridotti a 499 miliardi, una perdita di 233 miliardi in quattro anni stando [in arabo] all’Autorità Monetaria dell’Arabia Saudita (SAMA).

Anche il PIL pro capite del regno è diminuito, da 25.243 dollari nel 2012 a 23.338 nel 2018 secondo la Banca Mondiale. I risparmi si sono ridotti velocemente. Il FMI ​​ha calcolato che il debito netto raggiungerà il 19% del PIL questanno e il 27% l’anno prossimo. Il coronavirus [in inglese] e la crisi petrolifera potrebbero poi spingerlo al 50% entro il 2022.

La guerra [in inglese] in Yemen, il colpo di Stato [in inglese] in Egitto, gli interventi in tutto il mondo arabo, l’aumento [in inglese] a dismisura della spesa per l’acquisto di armi dagli Stati Uniti, progetti vanitosi come la costruzione [in inglese] della città futuristica di Neom, senza parlare dei suoi tre yacht, dei suoi dipinti e dei suoi palazzi, hanno tutti contribuito a prosciugare le casse saudite.

L’economia saudita era già in difficoltà prima dell’avvento del coronavirus, con il tasso di crescita di appena lo 0,3% e con un calo [in inglese] del 25% nell’edilizia dal 2017. Aggiungete il blocco imposto dalla pandemia e la cancellazione [in inglese] dei pellegrinaggi Umrah e Hajj [in inglese], che attirano fino a 10 milioni di pellegrini all’anno e potete cancellare così altri 8 miliardi di dollari dal bilancio.

Ma il modo in cui il principe ereditario saudita ha speso i suoi soldi non è stato la sola causa del problema. Anche la maniera con cui li ha investiti è andata male.

 

Cattivi investimenti

Un’indicatore di cattivi investimenti è il calo del valore relativo dei fondi sovrani patrimoniali. Il grande fratello, l’Arabia Saudita, è diventato un nano in questa classifica rispetto ai più piccoli stati vicini del Golfo.

Il principale fondo sovrano, il Public Investment Fund (PIF), si colloca [in inglese] all’11° posto nel mondo, ed è in coda all’Ente per gli Investimenti di Abu Dhabi, all’Ente per gli Investimenti del Kuwait e all’Ente per gli Investimento del Qatar. Se i fondi sovrani vengono raggruppati per nazione, gli Emirati Arabi Uniti sono i primi con fondi per un valore di 1213 miliardi di dollari, seguono il Kuwait con 522 miliardi, il Qatar con 328 miliardi e l’Arabia Saudita con 320 miliardi.

Ancor prima che la pandemia di coronavirus avesse luogo, il FMI pensava che i piani per portare l’ammontare del PIF a 1.000 miliardi di dollari non sarebbero stati sufficienti a generare gli introiti necessari se i sauditi avessero diversificato dal petrolio. Scrive [in inglese] il FMI che se “l’Arabia Saudita dovesse portare il suo PIF dagli attuali 300 miliardi di dollari a questa cifra, i soli rendimenti finanziari non riuscirebbero a sostituire adeguatamente le entrate, se non ci fosse il petrolio. La produzione di 10 milioni di barili al giorno, valutato 65 dollari al barile, si traduce attualmente in entrate annue di petrolio di circa 11.000 dollari per ogni saudita”.

Un’altra evidenza del declino è quello che è accaduto agli stessi investimenti. Masayoshi Son, CEO della giapponese Softbank, ha ricordato come ha ottenuto 45 miliardi di dollari dopo aver trascorso solo 45 minuti con MBS per il suo Vision Fund da 100 miliardi. “Un miliardo di dollari al minuto” ha commentato Son. Softbank ha annunciato [in inglese] la scorsa settimana che si aspetta per il  Vision Fund una perdita di 16,5 miliardi di dollari.

Il PIF ha pagato [in inglese] quasi 49 dollari ad azione per un pacchetto azionario in Uber Technologies Inc. nel 2017. Da allora le azioni Uber sono precipitate [in inglese]. Ha poi venduto [in inglese] quasi tutta la sua quota in Tesla (pari a circa 2 miliardi) verso la fine del 2019, proprio prima che il titolo Tesla raggiungesse il massimo, con un rialzo dell’80% in quest’anno. Di questo passo la partecipazione [in inglese] del PIF nel Newcastle United al confronto sembra un solido investimento.

Lo schianto del petrolio è arrivato a meno di due settimane dopo che il PIF ha scialacquato [in inglese] un altro  miliardo di dollari in azioni di quattro compagnie petrolifere europee e nelle navi da crociera “Carnival”, il che mette in dubbio la strategia di diversificazione del PIF dal petrolio. “Non capisco perché il PIF stia facendo adesso queste cose mentre è noto che il loro paese avrà bisogno di ogni centesimo”, ha detto [in inglese] un banchiere del Medio Oriente al Financial Times, “mi ricorda molto la QIA [Qatar Investment Authority] nei suoi primi anni. C’è una strategia, ma non la rispettano. Vogliono alta visibilità, ma vogliono anche fare soldi. Vogliono diversificare l’economia, ma vogliono essere opportunisti”.

 

Nessuno stimolo finanziario

L’Arabia Saudita oggi non può permettersi, come i suoi vicini del Golfo, di erogare uno stimolo finanziario per attutire l’impatto economico della pandemia. Il regno sta spendendo [in inglese] l’1% del suo PIL per sostenere la sua economia durante la crisi, il Qatar ne sta spendendo il 5,5 per cento, il Bahrain il 3,9 e gli Emirati Arabi Uniti l’1,8.

Esistono molte evidenze di come il denaro si sta esaurendo. Il re ha decretato [in inglese] che lo stato avrebbe pagato il 60% degli stipendi durante il blocco per il coronavirus.

Ma i dipendenti della più grande società di telecomunicazioni saudita, la STC, ricevono solo il 10% dei loro stipendi perché, a quanto mi viene detto, il governo non sta pagando alla STC i soldi per il personale a casa.

Il Ministero della Salute saudita ha requisito gli hotel per farli funzionare come ospedali, ma invece di risarcire i proprietari di hotel per la cessione temporanea della loro proprietà o di pagare loro un prezzo di costo, li stanno costringendo a pagare le spese correnti ed i costi di disinfezione delle camere.

Guardiamo poi i tagli di stipendio che i medici egiziani assunti nel settore sanitario privato saudita sono costretti a subire. Quelli di loro che usufruiscono delle loro ferie annuali non vengono pagati. Coloro che vengono fatti lavorare da casa a turno dai loro ospedali per ridurre il rischio di infezione, devono detrarre quel tempo dalle loro ferie annuali o lavorare gratuitamente.

Quindi, come riportato [in inglese] da Bloomberg, la prospettiva che l’Arabia Saudita diventi una nazione debitrice netta è reale. La domanda è: quanto presto succederà?

Il FMI ha calcolato che con un prezzo del petrolio compreso tra i 50 e i 55 dollari al barile, le riserve estere dell’Arabia Saudita cadrebbero nel 2024 a circa cinque mesi di copertura delle importazioni. Con il petrolio a valore zero, una crisi della bilancia dei pagamenti, un tempo impensabile, e l’abbandono dell’aggancio al dollaro sono ora altamente probabili.

 

Effetto regionale

Entrambi i pilastri del piano di Mohammed bin Salman per modernizzare e riformare il suo paese si stanno sgretolando. Il suo piano per attrarre investimenti esteri vendendo il 5% di Aramco sulle borse estere è tramontato, e ora anche il PIF, il principale strumento per diversificare l’economia saudita dal petrolio, è nel caos.

Molti nella regione apprezzerebbero l’uscita di scena di MBS. Semplicemente perché ha fatto troppo male a troppe persone, specialmente in Egitto. In un’era post-petrolifera, MBS avrebbe perso il suo potere di patrocinio, il potere di un oligarca che può spendere un miliardo di dollari al minuto senza battere ciglio.

Ma il crollo dell’economia dell’Arabia Saudita, che per decenni è stata la motrice dell’economia di tutta la regione, avrebbe conseguenze immediate in Egitto, Sudan, Giordania, Libano, Siria e Tunisia, tutti paesi che hanno inviato milioni di lavoratori e professionisti nel regno saudita e le cui economie sono cresciute in rapporto alle loro rimesse.

Questa è una prospettiva che nessuno dovrebbe augurarsi.

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 Articolo di David Hearst pubblicato su Anti-Empire il 27 aprile 2020
Traduzione in italiano di Pier Luigi S. per SakerItalia

[le note in questo formato sono del traduttore]