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Covid Symphony

di Livio Cadè - 24/04/2021

Covid Symphony

Fonte: Ereticamente


(Un’amica, esperta critica musicale, mi invia questa sua testimonianza. Data l’eccezionale rilevanza culturale dell’evento cui si riferisce, credo di far cosa utile pubblicandola).
Reduce da una memorabile esperienza, mi è difficile stendere una recensione musicale senza cedere alla tentazione dell’apologia. Sento ancora in me l’eco degli applausi scroscianti, la commozione e l’entusiasmo che uniscono gli esseri umani davanti a un capolavoro non solo dell’arte ma anche della solidarietà civile.  La sala del Concertgebouw di Amsterdam, una fra le più prestigiose al mondo, era gremita all’inverosimile, ovviamente nei limiti consentiti dalle regole del distanziamento. In totale v’erano dunque nella sala circa duecento persone, tutte naturalmente mascherate e molto lontane una dall’altra, per le note ragioni sanitarie. Ma le 1.800 poltrone vuote erano occupate da manichini elegantemente vestiti, che parevano partecipare all’evento con composta concentrazione. Per renderli più realistici, è stata messa anche sul loro volto una mascherina.
V’era da tempo nel mondo della cultura internazionale un febbrile aspettativa per la prémiere dell’imponente “Covid Symphony”, del compositore americano  di origini giapponesi Paul Nakagata, nell’occasione in veste anche di direttore d’orchestra. Creazione geniale per soli, coro, orchestra, organo e sirena d’ambulanza, divisa in cinque “Fasi”. Alla musica di Nakagata si uniscono le splendide coreografie di Rudy Tsunamoto, altro artista nippo-statunitense, compagno di Nakagata nella vita e nel lavoro.
Prima del concerto si avvertiva nella grande sala l’estrema tensione dell’attesa. Forse per questo alcune persone non son riuscite a trattenersi dal tossire, cosa del resto abituale nei teatri. Naturalmente sono state subito scortate all’uscita, dove alcune ambulanze erano già predisposte per il loro trasferimento negli ospedali cittadini. Lì verranno sottoposte a tutti gli esami e i controlli necessari in questi casi.
Il mio vicino, a dieci metri di distanza da me, dopo aver tossito si è irrigidito, fingendosi un manichino, ma il termo-scanner lo ha smascherato. Anch’io ho dovuto, con sforzi penosi, reprimere l’impulso di tossire, inghiottendo saliva e arrivando quasi a soffocarmi, mentre gli operatori sanitari si aggiravano tra noi trascinando via le persone sospette. Infine, quando i musicisti hanno fatto il loro ingresso sul palcoscenico, eravamo rimasti poco più di cinquanta ad applaudirli, disseminati qua e là tra gli imperturbabili manichini.
Cosa dire? La Covid Symphony pone senza dubbio una pietra miliare nella storia della musica. Opera somma in cui arte e vita si fondono. Esempio di come lo spirito umano possa trarre accenti sublimi dalla sofferenza. Le parole non possono rendere giustizia alle meraviglie di questa composizione colossale. Vorrei  tuttavia accennare ad alcuni dei punti salienti. Innanzitutto il maestoso Prologo, in cui per oltre quaranta minuti sentiamo risuonare un’infinita e cavernosa nota del pedale dell’organo, mentre il controfagotto espone il “tema della morte”. Due sole note, lugubri e lente, nel registro grave, sempre uguali, come qualcosa che striscia nel fango primordiale. Effetto che crea nell’ascoltatore una sorta di ipnosi, il terrore di una minaccia invisibile.
Indimenticabile anche l’incipit della Fase 2, quando sulla nota fissa dell’organo si alzano dapprima quasi impercettibilmente le voci dei bassi, bisbigliando, “vir,vir,vir”, poi “us,us,us”, con un’unica nota implacabile. Questo tema (“tema del virus”) è sommessamente ripetuto nel registro basso per circa cinque minuti. Poi vi si aggiungono i tenori, ripetendo le stesse parole su una nota più alta, finché entrano i contralti e infine i soprani, cantando tutti “vir,vir,vir…us,us,us” su quattro note diverse che crescono di intensità fino a formare, dopo circa trenta minuti, un accordo fisso e lancinante. Poi, improvvisamente, il totale silenzio, tranne la nota profonda dell’organo, che accompagnerà tutta la Sinfonia come una radiazione cosmica di fondo, diventando tutt’uno con lo spazio.
Questo vuoto irreale dura per circa dieci minuti. Purtroppo, in questo lasso di tempo, alcuni orchestrali e coristi hanno tossito e sono stati immediatamente rimossi, nonostante il maestro Nakagata mostrasse con gesti nervosi la sua contrarietà. Infine, accompagnati da stridule dissonanze dei fiati, sono apparsi alcuni ballerini nudi dipinti di giallo e altri, sempre nudi, con ali di pipistrello (unico indumento era l’obbligatoria mascherina). Alcuni camminavano, altri mimavano sinistri voli, confusi in un interminabile vortice di movimenti che ha lasciato il pubblico senza fiato. Infine, umani e pipistrelli si sono mescolati in un impressionante abbraccio. Così per alcuni drammatici minuti, fino a quando l’orchestra e il coro sono esplosi in un accordo spaventoso, una cacofonia vertiginosa che resta sospesa nell’aria, riempiendo ogni angolo della sala, lacerando i timpani, per un tempo che sembra non finire mai. Poi nuovamente silenzio. Resta solo la nota dell’organo, come un filo teso sull’abisso. I ballerini si sciolgono dal loro torbido amplesso. I pipistrelli volano via, e gli esseri umani cadono a terra, apparentemente privi di vita.
Per non interrompere la grande tensione dell’opera non erano previsti intervalli tra una Fase e l’altra. Ma, conclusa la prima parte, alcuni dei presenti in sala hanno avuto un irrefrenabile attacco di tosse e si è dovuto interrompere per pochi minuti l’esecuzione per condurli fuori. Dal podio il compositore ha giustamente espresso con gesti di grande insofferenza il suo disappunto per questo nuovo contrattempo che veniva a spezzare l’unità dell’opera. All’inizio della Seconda fase eravamo rimasti in tutto una quarantina di spettatori nella sala, oltre i manichini.
Tra i momenti più alti della Sinfonia va ricordato il rabbrividente assolo del tenore nella Fase 2, “Infectus est”, cui il coro risponde “positivum est”, scarna melodia di tre sole note, responsorio ripetuto con straziante monotonia mentre sul palco le sagome nude dei ballerini, investiti da fasci di luce ora gialla, ora arancione, ora rossa, si prostrano davanti a un gigantesco tampone, come un mostruoso fallo.
Memorabile anche il terrificante ululato della sirena che riempie quasi interamente i cinquanta minuti della Fase 3. Su un tappeto di archi sommessi e doloranti che ripetono per tutta la terza parte un’unica nota, sbigottita, ecco il canto lacerante della sirena, dapprima in pianissimo, come emergendo da remote lontananze, poi sempre più vicino, fino a raggiungere altezze assordanti. Alcuni ballerini nudi, altri con un lacero camice bianco, si mescolano in un dolente, disperato groviglio umano. Poi, d’improvviso, cala il silenzio, come un angosciante punto interrogativo. Dopo alcuni minuti, sulla nota degli archi, la sirena ripete i suoi penetranti fischi bitonali, in fortissimo, che gradualmente si allontanano fino a svanire nel nulla. Silenzio. La nota profonda dell’organo risuona tenebrosa, quasi una voragine. Poi tutto si ripete, come un ritornello, per nove o forse dieci volte. Difficile tenerne il conto, presi nella morsa di quella emozione.
Ma la Fase 4 è forse la più toccante. Uno dopo l’altro, gli orchestrali depongono lentamente i loro strumenti e abbandonano il golfo mistico, seguiti dai coristi. Nakagata rimane solo, assorto nella risonanza della continua, inesorabile nota dell’organo, e di un timpano che percuote ritmicamente una medesima nota, come il battito di un cuore che pulsa, a significare la vita che continua, più forte di ogni cosa. È il “tema del Lockdown”. Dopo circa mezz’ora di battiti, ora più lenti, ora più veloci, ora tragicamente sospesi, orchestrali e coristi riprendono lentamente il loro posto. Purtroppo alcuni di loro non hanno potuto rientrare perché, sottoposti al tampone durante l’attesa, sono risultati positivi. Il compositore, già provato dalla fatica, ha debolmente protestato.
Pur con l’orchestra e il coro ridotti della metà, la Sinfonia ha toccato nella Fase 5 il suo apogeo. Tutti, voci e strumenti (solo la sirena tacet) sono esplosi in un inno gioioso, pieno di speranza e di luce (“Inno al vaccino”). I ballerini, nudi come innocenti bambini, dipinti di bianco, danzano in girotondi festosi, si lanciano palloncini variopinti. Come non pensare all’Inno alla gioia di Beethoven? Molti già hanno proposto di chiamare questo brano “Vaccinno” e di renderlo l’inno ufficiale delle Nazioni Unite. Il testo, nella traduzione italiana, dice:
Prendete il vaccino,
il vaccino fa bene,
il vaccino conviene,
a tutte le età.
Prendete il vaccì,
Prendete il vaccì.
Prendete il vaccino! (urlato da tutti, cantanti e strumentisti)
Prendete il vaccino,
Prodotto nostrano,
Rimedio sovrano,
Per tutte le età.
Prendete il vaccì,
Prendete il vaccì.
Prendete il vaccino!
Spenta l’ultima nota, dopo sette ore indimenticabili, il pubblico è esploso in un applauso liberatorio e grato. Da ogni parte piovevano richieste di bis. Un vero tripudio, anche se nella grande Sala, a causa di vari colpi di tosse durante l’esecuzione, eravamo rimasti solo in sei, senza contare i mille e ottocento manichini.
Nakagata, visibilmente commosso, ha concesso il bis dell’inno finale. Grandi applausi anche per Tsunamoto che, uscito alla ribalta, ha romanticamente sfiorato col gomito il gomito del compositore. Il coreografo, con gesto molto umano, ha estratto di tasca il fazzoletto per asciugarsi le lacrime e, forse sopraffatto dall’emozione, si è soffiato il naso. Questo ha comportato l’intervento immediato del personale sanitario, che lo ha trascinato via nonostante le accorate rimostranze del Maestro Nakagata.
Prima di spegnere le luci qualcuno si è accorto che la nota dell’organo risuonava ancora. L’organista, vittima di una paresi, si spera temporanea, non riusciva più a staccare il piede dalla pedaliera. È stato sollevato di peso, con l’arto bloccato a 90 gradi, e trasportato fuori dal personale sanitario tra gli applausi del pubblico, come un eroe.