Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Da Ariosto a Eliot, l’inutile viaggio della modernità

Da Ariosto a Eliot, l’inutile viaggio della modernità

di Francesco Lamendola - 27/06/2018

Da Ariosto a Eliot, l’inutile viaggio della modernità

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Ha inizio con Petrarca, il poeta che scala le montagne (il monte Ventoso) senza sapere perché, l’inutile viaggiare dell’uomo moderno. Si dirà: per curiosità, per il piacere di provare emozioni. Vero, tutto vero; solo che la curiositas, senza la virtus, è una facoltà superflua ed oziosa, se non addirittura pericolosa, come ben sapeva Dante, il Dante del XXVI canto dell’Inferno, quello del viaggio di Ulisse. Quanto alle emozioni, se sono fine a se stesse, non allargano di certo la conoscenza del reale. E poi, è una spiegazione che non regge. Petrarca non ci dà alcuna vera descrizione dell’ascensione; l’ascensione è solo un pretesto, uno scenario, un fondale (fasullo) per rappresentare sempre e solo l’unica cosa che sa e vuole rappresentare: se stesso, il suo animo dilaniato, i suoi (supposti) tormenti interiori. Quasi non guarda il paesaggio; nulla lo interessa realmente, se non se stesso e poter fare sfoggio della sua cultura classica. Cita perfino le cose che da lassù non si vedono (i Pirenei), ma non si scorda di citare Filippo V di Macedonia e il Monte Emo, per far sapere a tutti che ha letto Tito Livio - non c’è niente da fare, la vanità letteraria è più forte di lui, è una seconda natura - e così meditando arriva in cima e subito tira fuori le Confessioni di sant’Agostino, col quale s’immagina (a torto) di avere una profonda consonanza interiore. Il fatto è che sant’Agostino è profondo, Petrarca è uno che vuol sembrare profondo; sant’Agostino è alla ricerca della verità, Petrarca non la vedrebbe neanche se gliela servissero sopra un piatto d’argento, perché è talmente preso da se stesso che in lui non c’è posto per null’altro.

Comunque arriva in cima alla montagna e si mette a leggere; trova proprio la pagina che fa al caso suo: E vanno gli uomini sulle cime degli alti monti ed esplorano le profondità dei mari, e di se stessi non si prendono cura. Voi ci credete? E come credere a uno che dice di aver scritto quella lettera a caldo, appena rientrato, quando sappiamo che l’ha rielaborata qualcosa come una quindicina d’anni dopo? Cosa egli abbia fatto lassù, com’è il paesaggio, che specie di alberi ha visto, per esempio: di tutto questo non dice nulla, sarebbero cose troppo terra terra, perfino triviali; certo non degne di lui, della sua gravitas. Vien quasi da dubitare che sia realmente giunto in cima. Forse ha fatto come Donald Crowhurst, il navigatore solitario che, nel 1969, finse di aver fatto il giro del mondo e prese in giro tutti quanti, perché non era mai uscito dall’Atlantico. Ma ammettiamo che sia giunto per davvero sulla cima: che cosa ha provato? Qualsiasi alpinista ce lo direbbe, ma lui no; ha cose molto più serie da raccontare: il suo dissidio interiore. Vien da chiedersi che senso abbia scalare le montagne a quel modo, con quel tipo di atteggiamento (o di distrazione) mentale. Tanto varrebbe restarsene a casa e viaggiare con la fantasia, come hanno fatto tanti altri, ad esempio Emilio Salgari. Almeno Salgari ci ha lasciato in compagnia di Sandokan, Tremal Naik, Yanez de Gomera e di Marianna, la Perla di Labuan, senza contare alcune decine di corsari rossi, neri, verdi  e di pirati, filibustieri, marinai, viaggiatori, esploratori, balenieri, naufraghi, avventurieri d’ogni risma, cacciatori, pellerossa, scotennatrici. Ci ha lasciato qualcosa di bello, che ha allietato le ore della nostra infanzia. Ma Petrarca, con la sua ascensione al monte Ventoso, che cosa ha lasciato ai suoi lettori? L’ennesimo secchio di se stesso. Tutto il mondo, per lui, doveva essere solo un unico specchio sfaccettato, per riflettere la sua immagine innumerevoli volte, sempre debitamente curata. Un altro po’ di trucco, per favore; ancora un po’ di cerone per sembrare più pallido; un po’ di ombreggiatura sotto gli occhi, per far vedere che è tanto, tanto triste, che ha pianto, perché Laura non lo ama, e lui forse morirà di dolore. Su il sipario: la commedia va in scena.

Al centro dell’Orlando furioso si trova il tema del viaggiare, ma del viaggiare inutile, del viaggiare sghembo, o meglio circolare: i personaggi ritornano inconsapevolmente al punto di partenza. È un viaggiare inconcludente, un errare, nel duplice significato di andare in giro e di andare fuori strada. Al centro degli errori di dame e cavalieri c’è il palazzo incantato del mago Atlante, un vero labirinto, ove ciascuno insegue il suo personale oggetto del desiderio, e Orlando, naturalmente, vede o crede di vedere Angelica, e la insegue, ma  inutilmente, perché si tratta solo di un fantasma. Nel poema di Ariosto l’uomo viaggia, viaggia incessantemente, ma in ultima analisi senza scopo e senza frutto: come Orlando, appunto, che attraversa mezz’orbe terracqueo per poi tornare in Francia e trovare che la bella Angelica gli è sfuggita e se n’è andata con un umile fante saraceno, Medoro, disdegnando il fior fiore dei cavalieri, lui compreso. Il viaggiare, del resto, per Ariosto, è una metafora della vita: la vita è un andare continuamente all’inseguimento dell’oggetto del desiderio, perché l’uomo è un essere desiderante: ma il suo desiderio non si appaga mai, per definizione, perché, se si appagasse, l’oggetto cesserebbe di essere desiderabile, e quindi egli dovrebbe ripartire all’inseguimento dio un nuovo oggetto, di qualcosa che possa accendere il nuovamente il suo desiderio. Chiaro che, in una tale prospettiva, la vita si riduce a un correre inutile dietro qualcosa di’illusorio; una tragica beffa, a ben guardare, per quanto talvolta abbellita con i fronzoli del sogno o con il pathos delle grandi imprese. Ariosto, del resto, più saggio, o più pigro, di Petrarca, non viaggiò affatto: l’unica volta che gli chiesero di farlo, si rifiutò: fu allorché piantò in asso il suo nobile e porporato signore, il cardinale Ippolito d’Este, che era stato nominato vescovo di Eger, in Ungheria. Lasciare Ferrara, allontanarsi da Alessandra Benucci (e dalle sue comodità borghesi)? Mai. Meglio una vita in pantofole, e grandi viaggi solo con la fantasia. Magari con l’Ippogrifo per andare sulla Luna: quasi quattro secoli prima di Jules Verne.

Ed eccoci arrivati (saltando gli scalini a quattro a quattro) all’Ottocento, con il byroniano Childe Harold’s pilgrimage, classica navigazione senza meta e senza scopo di un eroe moderno, mezzo esteta e mezzo dandy, pessimista e ipocondriaco, innamorato sempre e solo di se stesso (come Petrarca), ma anche potenzialmente cattivo a causa del suo stesso narcisismo (una delle tante amanti di Byron, la spregiudicata Caroline Lamb, regina dei salotti, lo definì pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare); e poi al Novecento, con Thomas Stearns Eliot ed il suo The Love Song of J. Alfred Prufrock. Chi è mister Prufrock? È l’alter ego del poeta e il tipico intellettuale novecentesco: nevrotico, insicuro, timido e sfrontato al tempo stesso, pieno di complessi e di manie, che non sa quel che vuole, né vuole quel che sa. Tutto sommato, un personaggio discretamente buffo, come buffo è il suo nome; a renderlo interessante (per i critici letterari) è il flusso di coscienza che è il suo modo di esprimersi, non certo la sua personalità scialba e artefatta. Le donne lo incuriosiscono, lo attraggono; però qualcosa lo trattiene, non sa buttarsi, si ferma sull’orlo del baratro e si mette a fantasticare, un po’ come gli “inetti” di Svevo. Si muove nelle circostanze della vita come un viandante stralunato, curioso e un po’ querulo, indiscreto e petulante; muore dalla voglia di raccontarsi, ma è disposto a farlo solo se ha la certezza che le sue parole resteranno sigillate: significativa, in proposto, la citazione dei versi di Dante, in apertura, con le parole di Guido da Montefeltro (Inf., XXVII, 61-66): S'i' credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo, / questa fiamma staria sanza più scosse. // Ma però che già mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s'i'odo il vero, / sanza tema d'infamia ti rispondo. Se non altro, a Mr. Prufrock è rimasto un residuo di pudore; a differenza di Petrarca, che non esita a tediarci con la sua fluviale, minuziosa, stucchevole e insincera auto-analisi del Secretum (ma anche di tutto il Canzoniere, ovviamente).  Così lo descrive lo storico della letteratura Massimo Bacigalupo (nella Introduzione a T. S. Eliot, Poesie, 1905/1920, Roma, Newton Compton, 1995, pp. 9-10):

 

“Prufrock” è un monologo o confessione, in cui scopriamo il carattere un po’ ridicolo del protagonista a mano a mano che egli ci parla. Eliot ha qui tenuto presente il modello vittoriano dei monologhi di Robert Browning, che presentavano delle personalità e dei racconti in presa diretta con un linguaggio non di rado contorta. Ma Prufrock vive in un mondo diverso ò salotti, nebbie cittadine, perplessità, incontri rimandati, fantasticherie, digressioni – e non riesce a costruirsi un racconto: è una voce che prova certe inflessioni, una personalità dispersa nei fenomeni, sul punto di svanire. Eliot è risalito oltre Browning, ai soliloqui risolutivi del teatro elisabettiano, dove una maschera tragica parla nell’oscurità evocando immagini arrischiate ed evocando parole oscure, e il mondo è fatto di ombre, figure di figure.  Inoltre, come suggerisce l’epigrafe dantesca del monologo di Prufrock, il modello ultimo è quello di un’anima in pena che si confessa, ripercorre la sua vita e il suo fallimento voce di una nuova, moderna, “Commedia”. Dante, diceva Eliot nel 1905, era “l’influsso più persistente e più profondo sulla mia poesia”. Egli ne apprezzava le immagini nitide, il realismo visionario ma anche scatologico, la prospettiva universalistica in cui giocano tutte le culture, classicità e modernità, riferimento concreto e speculazione filosofica, il teatro della coscienza. “Mi sento così completamente inferiore alla sua presenza“ diceva in una lettera del 1920 a proposito della difficoltà di scrivere criticamente.  “Non sembra veramente esserci altro da fare che indicarla e restare in silenzio”. Eliot rivela dunque grandi ambizioni ma soprattutto capacità mettendo in scena il viaggio di Prufrock, che non porta in alcun luogo, ma continua ad arrampicarsi nel vuoto attraverso costrizioni e ripetizioni. […] La confessione apparentemente drammatica è scalzata volutamente dalla conclusione comica, la scelta banale del proprio abbigliamento. Ma Eliot, pur celandosi dietro la maschera dell’ironia, sta anche rivelando quelli che sono i contenuti effettivi, disparati, della coscienza. Nulla è puro, i livelli e le immagini si contaminano, Prufrock desta il nostro sorriso, ma è un’immagine speculare, appena un po’ ritoccata, del suo autore e del lettore: “You and I”.

 

Percorso circolare, ritorno al punto di partenza: dopo aver descritto un ampio giro, l’uomo moderno è tornato nei paraggi del luogo da cui era partito. Con Petrarca aveva cominciato a vagare, ma in uno spazio, vuoto, illusorio, in un paesaggio stilizzato, irreale, sovrapponendo la letteratura alla realtà, le reminiscenze classiche al paesaggio reale, l’attualità senza tempo degli autori antichi all’attualità nel tempo della vita presente; con Ariosto, si era smarrito in una serie d’interminabili labirinti; ora, con Eliot, riprende a vagare, diremmo quasi a ciondolare, senza meta e senza scopo, nella nebbia di Londra, come il cantore di Laura vagava nei più deserti campi cercando di scordare il suo amore infelice: ma con una nota comica che gli toglie serietà e c’impedisce di prenderlo del tutto sul serio, anche se intuiamo che Mr. Prufrock è, in fin dei conti, un personaggio tragico, però di una tragicità non scevra d’ironia e perciò di una nota buffa. Ma è sempre lo stesso viandante, e, per dirla con Pirandello, lo stesso forestiere della vita; un individuo incompleto, alienato, infelice, non però del tutto serio, umoristico semmai, nel senso pirandelliano del termine: di quella comicità che lascia trasparire il dramma intimo, nascosto. È uno, nessuno e centomila; è se stesso, ma anche qualcun altro, forse qualcuno di cui ha scordato il nome, di cui si trova ad imitare l’esistenza, perennemente fuori parte, costretto in una vita non sua, in una dimensione che non gli appartiene del tutto, anzi che gli sfugge, che gli si sottrae inesorabilmente, come l’acqua si allontana da Tantalo allorché questi accosta le labbra per dissetarsi; è l’uomo della folla descritto in un memorabile racconto di Edgar Allan Poe; è l’uomo senza qualità di Musil; è il moderno Ulisse che ha scordato dove vuole andare, forse perché si è attardato nel paese dei Lotofagi e non ricorda più la sua petrosa Itaca, non ha più memoria della moglie né del figlio, e, per dirla tutta, ha scordato anche chi è lui stesso. E l’Angelo che potrebbe sussurrarglielo, lui stesso l’ha scacciato. E si riduce, come Leopold Bloom, a mendicare un figlio nel primo sconosciuto in cui s’imbatte.

A che si deve un tale smarrimento, una tale perdita d’una meta e di uno scopo, una così mortificante insignificanza? L’uomo pre-moderno, mettendosi in viaggio, sapeva bene dove andare. Dante, per esempio, sapeva che il viaggio è la vita stessa, e che non il viaggio è una metafora della vita, ma la vita è una metafora del viaggio; Dante, che vedeva il viaggio dell’uomo non dalla nascita alla tomba, o dal concepimento alla tomba, ma da un’eternità a un’altra eternità: da quando Dio ci ha pensati,  prima ancora di creare il mondo, a quando saremo chiamati al nostro stato definitivo, infernale o beatifico. L’uomo medievale, l’uomo cristiano, viaggia per conquistarsi la vita eterna in paradiso: ma l’uomo moderno perché viaggia, e dove crede, dove spera di andare? Non lo sa; non sa più nulla. A forza di ragione strumentale e calcolante, ha smarrito la ragione vera, il senso del suo essere, del suo destino: vaga a casaccio, come un sonnambulo, come un ubriaco. Non ha una meta perché la meta è la tomba, ma è una meta che gli ripugna: non la vuol vedere, cerca di pensare ad altro. Ma essa è lì, davanti a lui: non le può sfuggire. Vorrebbe giocare a scacchi con la morte, ma sa già che è destinato a perdere. Una cosa potrebbe ancora fare: tornare a casa, gettarsi ai piedi del Padre e dirgli: Ho peccato contro il cielo e contro di te; non son più degno. Ma ne avrà il coraggio?