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Dalla globalizzazione (con il primato dell’Occidente) al possibile multipolarismo

di Andrea Scarano - 17/10/2025

Dalla globalizzazione (con il primato dell’Occidente) al possibile multipolarismo

Fonte: Barbadillo

Se ne sono resi conto un po’ confusamente anche i mass media di casa nostra, di solito distratti e poco sensibili alle dinamiche internazionali che non sfociano nelle drammatiche vicende di stretta attualità. Gli assetti e gli equilibri del mondo stanno cambiando e le profonde trasformazioni che ci coinvolgono, non così rapide diversamente da quanto siamo spesso indotti a credere, sono le conseguenze di processi in gran parte ignorati, sottovalutati o peggio strumentalizzati e distorti, che hanno origini precise.

Il volume collettaneo di cui qui ci occupiamo fornisce un prezioso supporto per orientarsi in tematiche ardue, perché si focalizza su molteplici prospettive delle scienze sociali, incluse quelle di una disciplina di difficile “sistematizzazione” come la geopolitica, talvolta foriera – almeno fino a tempi abbastanza recenti – di accese polemiche in quanto accusata, a torto o a ragione, di eccessivo determinismo.

Un punto di partenza comune alle varie analisi proposte coincide con l’interrogativo sottolineato da Alain de Benoist nella prefazione, ovvero quale sia il “nomos della Terra”, l’elemento regolatore di un insieme ampiamente inteso di relazioni, la natura dell’ordine di fronte a cui ci troviamo a livello planetario. Molti fattori, infatti, confermano che il modello imperiale e talassocratico statunitense – imperniato sul mito del capitalismo eretto a strumento primario di un’espansione economico-finanziaria illimitata, sulle illusioni della “fine della storia” connesse al crollo del muro di Berlino e all’implosione dell’Unione Sovietica, sulle suggestioni della liberal-democrazia nella sua declinazione monocorde di ultimo (e, manco a dirlo, più elevato) stadio del progresso, nonché sull’autonomia della scienza e della tecnica rispetto al potere politico – sia ormai agonizzante e sopravviva nella misura in cui riesce a consolidare il controllo sui propri vassalli europei. 

Detto in altri termini, le fondamenta del sistema unipolare eterodiretto da Washington nel nome dell’Occidente, una nebulosa categoria di problematica applicazione soprattutto sotto il profilo geografico e culturale nel caso del vecchio continente, sono seriamente messe in discussione dai colpi infertigli ad opera dei soggetti emergenti che si stanno affermando su scala globale.

E’ l’alba degli “Stati-civiltà”, macro-aggregati di potenze regionali attratte dall’idea – debitrice in parte sia di concezioni filosofiche cinesi incentrate sull’ordine armonioso e gerarchizzato, sia dell’influenza di una visione manichea legata all’ortodossia quale eterno riferimento spirituale – di un multipolarismo, “in marcia” ma ancora lontano dalla piena realizzazione, fondato sulla difesa di specificità culturali, di storie e di tradizioni millenarie, nonché sulla coesistenza pacifica garantita dal riconoscimento del diritto dei popoli all’autodeterminazione, istanze solo in apparenza garantite da chi sbandiera il pluralismo ad opposte latitudini. Le nuove entità si contrappongono strenuamente alle incursioni dell’universalismo liberale, delineano i contorni di una sovranità contraria al principio di neutralità della sfera pubblica nell’ambito dei valori e interiorizzano la nozione dei ”grandi spazi”, di per sé scivolosa e non di rado fraintesa da parecchi osservatori.

Da un punto di vista strettamente politico tali rivendicazioni emergono in maniera lampante nella condotta dei BRICS, impegnati sin da prima che si acuisse la crisi dei mutui subprime del 2008 nel progetto (in fase embrionale e sostenuto, tra gli altri, dai paesi latino-americani) finalizzato all’instaurazione di un sistema monetario svincolato dal dollaro e di circuiti alternativi, questi ultimi già affiancati dalla Nuova Banca di Sviluppo. In uno scenario simile meglio si inquadrano le motivazioni radicate nelle paure e nelle minacciose misure annunciate, adottate e parzialmente ritirate da Donald Trump in materia di dazi commerciali, risalenti già alla sua prima amministrazione, non sconfessate dal suo successore e puntualmente rinnovate nei mesi scorsi.

Esiste, d’altro canto, un nesso tra l’esasperata auto-rappresentazione dell’identità occidentale come unica portatrice di istanze “buone” e gli effetti collaterali prodotti dal progressismo in quanto dispositivo di giustificazione morale che, nelle riflessioni di Eduardo Zarelli, riveste la legge del più forte con decorazioni ideologiche dalla nobile parvenza (il rispetto dei diritti umani e civili) e riflette al tempo stesso una forma oligarchica di democrazia, che “si erge a culto individualistico apolide e cosmopolita disprezzando la partecipazione comunitaria e la sovranità popolare”.

Le logiche imposte dalla globalizzazione hanno causato una perdita di competitività, un ingente ricorso alle importazioni e all’accumulazione del debito sia verso i paesi produttori di energia sia verso i grandi esportatori di manufatti. A fronte dell’azzeramento del settore produttivo, la natura intrinsecamente instabile di un’economia virtuale come quella statunitense è solo in parte bilanciata da una condizione ancora egemonica, contestata non tanto sotto l’aspetto militare ma nelle sembianze del perseguimento di vantaggi competitivi, per esempio nella produzione tecnologica, nella gestione dell’accesso alle risorse e nel loro controllo.

Taluni studiosi hanno individuato l’attore predestinato a diventare la prima forza industriale e commerciale del pianeta nella Cina, pronta a raccogliere i dividendi di un innato pragmatismo – per inciso, l’esatto contrario dell’atteggiamento tenuto dall’Italia nelle avventurose peripezie dei memorandum d’intesa per la Via della Seta, firmati e subito disdetti sottobanco per evitare frizioni con gli alleati “storici”, silenziare pericolosi clamori mediatici e dibattiti parlamentari – e a collocarsi in posizione semi-monopolistica nella produzione delle “terre rare”, così come nell’acquisizione di infrastrutture strategiche all’estero. Le politiche di penetrazione avviate nel continente africano insieme alla Russia, partner decisivo nelle forniture di petrolio, si sono tradotte in ingenti investimenti e nell’invio da parte di Mosca di mercenari del gruppo Wagner o di truppe regolari. Meno prevedibile, almeno sulla carta, si è rivelata la capacità di Pechino di fronteggiare sul versante marittimo alcune difficoltà di tipo geostrategico, superate con il dispiegamento di un’efficiente organizzazione logistica, con l’acquisizione di quote di maggioranza di un numero crescente di porti nel Mediterraneo a favore di compagnie di Stato e con la partecipazione all’istituzione delle Zone Economiche Speciali.

Se gli accordi a geometria variabile riguardano pure paesi del Golfo tradizionalmente appiattiti fino a pochi anni fa nella fedeltà atlantica, vero è che la ristrutturazione della rete di alleanze tradizionali è stata bruscamente accelerata dal conflitto russo-ucraino, innescato in via principale dal macroscopico (quanto ingiustificato) allargamento a est della Nato. I più importanti obiettivi perseguiti dagli Stati Uniti nella guerra per procura sono chiaramente messi in risalto: staccare definitivamente dagli europei il regime responsabile dell’aggressione a Kiev, tramite l’allargamento della frattura con Berlino e l’accelerazione della deindustrializzazione dei paesi membri dell’Unione Europea; rafforzare il blocco a guida nordamericana anche con il rilancio dell’Iniziativa Trinarium, mirante a innalzare la Polonia ad hub energetico e militare; arginare la crescita cinese. 

Al netto dei disastrosi effetti-boomerang prodotto dalle sanzioni comminate alla Russia, della scelta deliberata di sostenere l’Ucraina con finanziamenti e aiuti militari e della trasformazione del ruolo della Nato in ombrello delle decisioni prese dall’amministrazione a stelle strisce, le debolezze delle Istituzioni di Bruxelles, fotografate in modo plastico dall’esempio dei controversi rapporti con la Turchia, vengono messe a nudo con riferimento alle discriminazioni poste in essere verso le minoranze linguistiche, cioè tramite l’esposizione delle aporie di un impianto regolamentare che impone da un lato agli Stati di osservare determinati criteri e dall’altro riconosce loro ampia libertà di decidere a chi applicarli. 

Non sembrano, tuttavia, sempre incisive le proposte contenute nei pur interessanti passaggi che, dopo aver descritto l’incomparabile matrice di civiltà e lo straordinario laboratorio di idee, sistemi ed esperienze dell’Europa (nella sua accezione più ampia, alludendo cioè a una dimensione altra rispetto all’odierna realtà dell’Unione), partono dalla necessità di porre fine al condizionamento d’oltre Atlantico e di affermare principi quali la sostenibilità economica, il confederalismo e la sussidiarietà comunitarista.

Poco compresa da versanti più lontani, la rapida ascesa dell’area dell’Indo-Pacifico a centro di rilievo internazionale per flussi commerciali e finanziari e a nuova “arena” delle sfide tecnologiche – il richiamo più significativo concerne il blocco che collega i membri dell’ASEAN a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda – schiude potenziali opportunità per il Mediterraneo di tornare ai fasti perduti di mare strategico, snodo di flussi agevolati dall’imponente incremento delle capacità di traffico del canale di Suez.

L’approfondimento relativo al quadrante mediorientale muove da un’analisi di taglio storico che identifica nella rivoluzione islamica del 1979 in Iran un’inversione di segno nel dominio nordamericano, caratterizzato da un’auto-percezione di potere illimitato e discrezionale; si sofferma sulla complessità di contesti altamente instabili anche dal punto di vista diplomatico, come nel caso siriano; evidenzia i fallimentari tentativi di esportare la democrazia con le armi, errore commesso in Iraq e poi reiterato altrove; svela la progressiva conquista da parte israeliana del ruolo di partner irrinunciabile nell’area. Ambiguità insite nelle esperienze delle “primavere arabe” e delle “Rivoluzioni colorate”, eterodirette e maldestramente orientate verso mutamenti di regime nel segno dell’occidentalizzazione oppure a determinare semplicemente il caos, preludono alla polarizzazione dello scontro politico tra Fronte dell’oppressione e Asse della Resistenza, paradigma interpretativo diffuso per comprendere il tempo presente. 

Ulteriore tassello a conferma del tramonto dell’ordine unipolare è la crisi di Gaza, deflagrata – ricorda Salvo Ardizzone – a seguito di un’azione terroristica priva di obiettivi militari, diretta a far collassare l’esecutivo di Tel Aviv in un momento di elevata tensione interna alla società israeliana; essa non è stata provocata solo da Hamas, ma da un insieme di gruppi islamici palestinesi (coordinati da Hezbollah e dalla Forza Quds) rimasti poi totalmente in balia di una potenza di gran lunga superiore, pienamente consapevole di un’assoluta impunità nell’attuazione di una strategia che le garantisce sicurezza con le armi dello sterminio indiscriminato. 

Si può in conclusione convenire che le attuali forme di manifestazione nei conflitti delle categorie amico/nemico, strettamente correlate ad una concezione ontologica, antropologica e a determinati fattori storici (crisi degli Stati nazionali, trasformazioni socio-economiche, intensificazione dei contatti tra culture), rievocano alcuni insegnamenti di Carl Schmitt. Seppur datati, questi rammentano che la guerra trae alimento nelle sue modalità più brutali dalla sovrapposizione di linee parallele e distinte, quelle della morale e della politica; allo stesso tempo la sua perniciosa variante “giusta”, imbevuta di valori astratti (umanità, giustizia, progresso…) e di derivazione liberale o marxista, calpesta le tutele previste dallo ius in bello, esaspera la demonizzazione del diverso e si assesta in un’area non equidistante rispetto a quella delle due estremità del pacifismo e del bellicismo. 

Autori vari, Ordine multipolare. Geopolitica e cultura della crisi, Diana edizioni 2024, pagg. 301, euro 20.