Dio, mitra e minacce: Ben Gvir vuole lo scontro totale
di Domenico Quirico - 04/10/2025

Fonte: La Stampa
Le frontiere umane sfumano quando toccano il fanatismo. Al di là della biografia. L’uomo, lì, elude la sua biografia. Quando tenti di soppesarlo, di fissare il suo peso sulle cosiddette «caratteristiche personali», sprofondi fino alla cintola. La sua personalità è una buca ricoperta solo da un sottile strato di tratti psicologici, temperamenti, abitudini, violenti modi di fare e di dire. Non appena cerchi di decifrarlo, di fare un passo per avvicinarti, ecco che cadi dentro il trabocchetto del suo eccessismo semplificatore. Itamar Ben Gvir, per esempio, il ministro israeliano della Sicurezza Ben Gvir. Grasso, volgare, con la kippah storta, in bilico sul cranio, vene prominenti, scatenato come se fosse sempre sul ciglio di un tafferuglio, di una rissa di strada, violento, omofobo, antidemocratico, spregiatore di ogni legge che non sia quella del suo dio e del suo popolo, razzista sì razzista.
È curioso ma tanti soggetti che gli somigliano li ho incontrati nelle file dei jihadisti, sono i tipi che popolano la razza di assassini di Hamas. E non è un caso che si vogliano estirpare a vicenda, fiutano nell’altro la copia. Ieri ha fatto mostra del suo volgare zibaldone di insulti e minacce con i rastrellati sulle barche umanitarie. Si è fatto inquadrare mentre su una delle imbarcazioni sequestrate, con andatura ciampicona, esplora la confusione delle cambuse alla ricerca delle “prove del delitto’’. L’odio lo galvanizza, accampato come è sulle rive di una protostoria definiva: questa terra è mia, me l’ha data dio… Alcune settimane fa ha guidato una marcia di un migliaio di coloni sulla spianata delle moschee, è andato ostentatamente a pregare davanti alla moschea violando il divieto (ma ci sono ancora delle regole in quella parte del mondo dove sappiam bene che è accaduto di tutto?): il solito modo animalesco per prender possesso del territorio, una dichiarazione di: questa è roba nostra… A ribadire la scienza bracona della annessione senza perder tempo. Subito Hamas ne aveva tratto motivo di soddisfatta conferma alla sua propaganda, che con gli ebrei l’unica trattativa è quella dell’odio e della vendetta. Non vien voglia di ripetere esausti il vecchio detto yiddish: «Vivere si potrebbe, solo che non ti lasciano campare»?
Nel duemila, era settembre, Ariel Sharon marciò anche lui sul luogo santo dei musulmani, sul monte del tempio ebraico, accompagnato da un migliaio di poliziotti. Una esplicita provocazione. Ventiquattro ore dopo scoppiò una battaglia tra i soldati e i palestinesi che tumultuavano chiedendo vendetta davanti alla cupola della roccia. Ci furono morti e feriti. Sharon non spiegò perché avesse scelto proprio quel momento per il pellegrinaggio. Eppure era facile mettere insieme i tasselli. Bisognava dare il colpo finale agli accordi di Oslo, tutto qui. Non era difficile, bastava una spintarella. “L’onesto sensale americano’’, nel caso Clinton, aveva incassato solo dei no. Arafat, di fronte a una offerta di sovranità virtuale per tenere in piedi una pace finta, per una volta preferì il fallimento alla umiliazione. Quanto era tornato a Gaza, infatti, erano stato accolti, lui e il suo codazzo di cortigiani corrotti, inetti e antidemocratici, come eroi: il Vecchio divenne “il nuovo Saladino” che aveva tenuto testa a America e Israele. Erano fanfaronate. Saladino non sarebbe mai entrato a Gerusalemme e Sharon aveva provveduto da accorto politico a vibrare nella spianata il colpo finale.
Ben Gvir tenta di soffocare il progetto di tregua, «il tradimento», uscito dal vertice fra Trump e Netanyahu. Forse ci riuscirà. Con l’aiuto di Hamas. Bisogna sempre diffidare di chi è certo di aver dalla sua parte dio e un mitra.
Sharon era molto diverso da Ben Gvir. Perché apparteneva a una altra fase della storia di Israele: anche se si intravedevano i micidiali regressi che hanno portato all’oggi. Quando un politico israeliano sale al Monte del Tempio state certi che manda un messaggio di guerra senza quartiere. La “profanazione” del sancta sanctorum dei musulmani è un’unità di misura, un lessico, una grammatica delle idee della destra ideologica israeliana. Ne illustra con un atto l’arcaica arroganza, la retorica imperialistica, il suprematismo metallico e minatorio. Che è il bric-à- brac purtroppo micidiale di ogni fanatismo-etnico religioso, il suo consueto “fall out’’ di rifiuti.
Allora Ben Gvir. Quando qualche scalcagnato, per non dover fare i conti con la realtà, ripropone la formula “due popoli due Stati!’’ dovrebbe rispondere alla domanda: dove mettiamo Hamas? E dove mettiamo Ben Gvir con il suo suprematismo ebraico che ha ormai contagiato anche il Likud di Netanyahu? Altra atroce domanda: il duce di questo fascismo ebraico come si connette con la democrazia di Israele?
I connotati di Ben Gvir meritano di esser descritti con minuzioso accanimento catastale. Sono il fantasma speculare dell’Israele che pensavamo consolidato dalla lezione di un mostruoso delitto subìto. È cresciuto nella ideologia, negli anni novanta, del Kach’, il partito del rabbino Meir Kahane, nell’87 messo fuori legge come gruppo terroristico. Oggi chissà…Gvir tiene sulla scrivania il ritratto di Baruk Goldstein, l’estremista che nel 1994 uccise trenta palestinesi alla tomba dei patriarchi: un eroe. Gvir non è rimasto un teppista di strada che dava la caccia alle coppie miste, è diventato avvocato, difende “i giovani delle colline’’, i coloni violenti, ha trovato da tempo poltrona in tutti canali televisivi.
Sembra chiaro dunque: un esponente del sionismo religioso, il messianismo estremista di Gush Emunim e il suo acidume contagioso che si è adeguato ai tempi nuovi. Tutto qui? Forse hanno ragione coloro secondo cui il suo fine non sono la ricostruzione del grande Sion o le colonie, è la guerra delle razze. Al massimo concede che i palestinesi non siano eliminati, ma semplicemente cacciati via.

