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Dove ci porterà questo buonismo istituzionalizzato?

di Francesco Lamendola - 08/01/2021

Dove ci porterà questo buonismo istituzionalizzato?

Fonte: Accademia nuova Italia

La signora X soffre di un lieve disturbo psichico: fondamentalmente è una disadattata e una depressa. Dopo aver trascorso alcuni anni in una comunità nella quale aveva l’incarico di svolgere alcuni semplici lavori manuali, è stata dimessa e ha ricevuto dal comune un bell’appartamento, con due camere, cucina, soggiorno e servizi, in cambio di un affitto simbolico. Riceve inoltre una piccola paga settimanale e, da quando ha mostrato di non aver voglia di farsi da mangiare, una volta al giorno le viene recapitato il pranzo a domicilio. I soldi che riceve le servono per le piccole spese quotidiane, mentre alle bollette pensa un amministratore delegato dal comune; fra le piccole spese primeggiano le sigarette. La signora è alquanto in sovrappeso e soffre d’incontinenza; si rifiuta di fare più di due o trecento metri a piedi e, per ogni necessità, telefona a una serie di persona amiche, anche dieci volte al giorno, finché non l’accontentano, la vengono a prendere e l’accompagnano in banca, a ritirare la paghetta, o dal tabacchino, a comprare le sigarette, o al supermercato, oppure dal medico. Non tiene la casa in ordine e anzi la lascia andare in degrado: la sporcizia si accumula dappertutto, un fortissimo odore di tabacco ristagna perennemente nelle stanze, anche perché non si dà la pena di aerarle. A questo punto il comune ha deciso di mandarle il servizio di pulizia in casa, che le ha tirato l’appartamento a lucido; pochissimi giorni dopo, era di nuovo un porcile. Quando la signora si trova fuori casa, ha delle urgenze fisiologiche improcrastinabili e allora a va a cercare un angolo ove appartarsi, anche per i bisogno grossi. In realtà porta i pannoloni, però preferisce farla in un cortile qualsiasi piuttosto che tornare a cambiarsi a casa, visto che adesso, dice lei, è tutta così bella e pulita. Questa è la sua situazione, questa è la sua vita. Non ha uno scopo, non ha una sia pur minima occupazione, in compenso non le manca nulla e può tirare avanti grazie all’amministrazione pubblica, che provvede per lei. Passa le giornate a telefonare a destra e a manca; parenti non ne ha, tranne un figlio, che di tanto in tanto passa a trovarla. È stata sposata e ha avuto due figli; ha anche due sorelle, che però non si fanno mai vedere, anche se abitano poco lontano. Tutto il peso del suo mantenimento ricade sul comune e sulla buona volontà di qualche persona amica. Non ci sono prospettive di miglioramento, perché le manca la motivazione a star meglio: si lascia andare e passa le ore in attesa che venga il momento di dormire; al mattino presto incomincia il giro delle telefonate, sia per farsi accompagnare da qualche parte, sia semplicemente per scambiar due parole con un altro essere umano. In effetti nell’appartamento accanto vive un’altra persona con problemi psichici, sempre leggeri: si tratta di un giovane che frequenta anche l’università e dunque possiede sia la capacità di muoversi autonomamente, prendere il treno, ecc., sia di concentrarsi nello studio. Però la signora non conta molto su di lui, preferisce tempestare di chiamate altre persone, fin dalle prime ore del mattino.

Ora, nessuno dice che le persone bisognose, sotto il profilo psichico oltre che sotto quello economico, debbano essere abbandonate al loro destino; nessuno nega che sia giusto prendersi cura di loro, e che la società debba spendere tempo e denaro per accudirle e sistemarle nella maniera più dignitosa possibile. E tuttavia, ci si domanda se questa filosofia nei confronti delle persone in difficoltà sia quella più giusta. Ha senso gettare tempo e risorse in un pozzo senza fondo, senza la minima prospettiva di miglioramento? Non sarebbe meglio proporzionare gli aiuti a una strategia di recupero, ove possibile, come certamente lo è nel caso ora descritto? A che scopo permettere a una persona di adagiarsi sul proprio disagio e lasciare che gli altri pensino a tutto al posto suo, togliendole l’incentivazione a far qualcosa per se stessa? Aiutati, che Dio ti aiuta, dice il proverbio. Che cosa vuol fare lo Stato, in questi casi: assumere il ruolo di Dio e far tutto da solo? E che cosa rimane da fare all’individuo, in questa prospettiva, se non aspettare la pubblica assistenza? Ma, si dirà, non saranno pochi casi del genere a mandare in rovina le finanze pubbliche. Siamo però sicuri che si tratti di pochi casi? O non sono invece moltissimi, centinaia e centinaia di migliaia, perfino milioni? In ogni caso, non è solo un discorso quantitativo e non lo si può ridurre alla dimensione economica, per quanto quest’ultima non dovrebbe mai esser persa di vista: quale famiglia può permettersi di mantenere dei figli a fondo perduto, con la prospettiva di trascinare in miseria anche i membri che lavorano e guadagnano per tutti? Ma è anche e soprattutto un discorso di saggezza e di giustizia: è il caso di destinare ingenti risorse in una strategia che non punta a risanare, per quanto possibile, le situazioni, ma semplicemente a prolungarle all’infinito, senza vantaggio per alcuno? Non sarebbe cosa più saggia tenere occupate quelle persone, obbligarle a prendersi cura della casa che è stata data loro, minacciandole, in caso contrario, di arrangiarsi da sole, secondo le leggi del mercato? E non sarebbe cosa migliore tenerle occupate, innanzitutto per la loro salute mentale, anche a costo di far loro spostare degli oggetti qualsiasi da qui a lì, di scavare e poi riempire delle buche nel giardino? La cosa più importante, ci sembra, dovrebbe essere rompere il legane di dipendenza psicologica e responsabilizzare, nei imiti del possibile, individui come la signora X, guidandoli, un poco alla volta, a riprende in mano la loro vita. Certo, ci vorrebbe una seria terapia psichiatrica: invece tutto quello che la signora è tenuta a fare, è di presentarsi una volta al mese dallo psichiatra, il quale le prescrive i soliti farmaci chimici, che fanno sparire i sintomi del suo malessere e la intontiscono, ma non giovano affatto a guidarla verso la consapevolezza delle cause profonde del suo malessere. Ma questo è un discorso che riguarda un po’ tutta la medicina moderna, basata sulla terapia dei sintomi e non sulla ricerca delle loro cause; e tutta proiettata sul consumo abbondante di farmaci di sintesi, come se non esistessero altre strade percorribili, a cominciare dagli agenti maturali, e soprattutto da un serio lavoro di auto-consapevolezza.

Quel che abbiamo detto ora, facendo questo esempio concreto, si può estendere a cento e cento altre situazioni, educative, scolastiche, sanitarie, giudiziarie, dalle quali emerge un filo conduttore; la “bontà” all’ingrosso, la disponibilità a senso unico, l’indulgenza e la comprensione codificate per legge, ma sempre del pubblico verso il privato e mai viceversa. Se un impiegato postale disonesto ruba sul lavoro, difficilmente viene licenziato: al massimo viene trasferito. Stesso discorso per una maestra manesca o per un vigile assenteista. C’è aria di condono generale  permanente, nella società contemporanea: come se fossero state abolite le responsabilità con un tratto di penna, e ogni volta che una persona ha un problema, la responsabilità di trovare la soluzione spetti sempre, per definizione, a qualcun altro. Forse la società si sente in colpa di fronte al disadattamento dei suoi membri, perché, dopo tre secoli di somministrazione delle idee di Rousseau, dà ormai per assodato che l’individuo, di per se stesso, è buono e innocente, e quindi se ha dei problemi, se sbaglia, se sia ammala, la colpa è sempre e solo della società in cui vive. Se uno impazzisce e diventa pericoloso, per sé e per gli altri, si dà ormai per scontato che a farlo impazzire sia stata la società; meglio ancora, si sospetta che la sua non sia vera pazzia, ma che sia una reazione difensiva di fronte alla cattiveria e all’insensibilità della società. Basaglia dixit. E siamo sicuri che la cosa migliore, per un ragazzino autistico, e anche per gli altri, sia inserirlo in una normale classe scolastica, dove non ha alcuna possibilità di socializzare, ma in compenso potrà rendere la vita difficile, e perfino impossibile, ai suoi compagni e agli stessi insegnanti? Sappiamo che non è facile fare questo discorso, specialmente oggi: si fa la figura di chi vuol sparare sulla croce rossa. Poverini, i più svantaggiati hanno diritto alla massima comprensione e alla massima accoglienza, si dice. Ma siamo sicuri che questo tipo di comprensione, questo tipo di accoglienza, siano davvero utili, per loro e per gli altri? Eppure, obietterà qualcuno, qui stiamo facendo della confusione: che cosa c’entra il caso di una signora psichicamente fragile con quello di un impiegato disonesto che non riceve la giusta sanzione? C’entra, eccome: sono due esempi di uno stesso problema: l’eccessiva arrendevolezza e il buonismo istituzionalizzato che caratterizzano l’atteggiamento dello Stato, della pubblica amministrazione e di gran parte dei mass-media, nonché della magistratura, verso le situazioni che richiederebbero, sì, compassione e solidarietà, ma anche un certo grado di fermezza. Il male parte già dalle famiglie: quanti genitori sanno essere giustamente severi, ai nostri giorni, di fronte alle manifestazioni d’irresponsabilità dei loro figli? Non è forse vero che il proibito proibire, di sessantottesca memoria, in questi cinquant’anni è andato veramente al potere, tanto che ormai nessuno osa più dire di no a nessun altro? Non è forse vero che l’atteggiamento del legislatore verso le richieste sempre più esigenti, sempre più sconcertanti, di alcune minoranze aggressive, è il frutto di questo mezzo secolo di diseducazione permanente? Non è forse vero che già c’è qualcuno, nelle sedi istituzionali non solo italiane, ma un po’ in tutto l’Occidente, che comincia ad invocare comprensione e tolleranza anche per la pedofilia, considerata alla stregua d’una inclinazione sessuale come un’altra, del tutto lecita e accettabile, purché i due soggetti siano consenzienti e non venga esercitata violenza fisica sul minorenne? E questo è solo un esempio; ne potremmo fare a centinaia. Stiamo per caso esagerando, stiamo dipingendo un quadro a tinte troppo fosche? Eppure, in alcuni Stati degli U.S.A. i seguaci del Tempio di Satana hanno ottenuto il pieno riconoscimento di legge per la loro “religione”, con tanto di codificazione dei loro diritti, primo fra tutti la dichiarazione dei redditi con gli stessi criteri che si usano per la Chiesa cattolica o le varie chiese protestanti. È normale? Sulla piastrina di riconoscimento dei militari, viene scritto che il sodato Tal dei Tali appartiene alla chiesa di Satana, in modo che, se gli accade qualcosa in un’azione di guerra, si proceda alle esequie tenendo conto di tale appartenenza. Ora se il satanismo,  cioè una “religione” che ha come fine il male e l’adorazione del Male, viene riconosciuto alla luce del sole, non si dovrebbe riconoscere la pedofilia, qualora il bambino fatto oggetto dell’attività sessuale di un adulto sia consenziente? Una volta imboccata questa strada, nessuno può dire dove si arriverà.

E adesso due parole sui delitti e sulle pene, parafrasando il buon vecchio Cesare Beccaria. La pena deve rieducare piuttosto che punire? Benissimo; bisogna però che la rieducazione sia possibile, e inoltre che venga effettivamente tentata. Non ha senso lasciare in carcere dei soggetti pericolosi e recidivi, che sarebbero una minaccia costante per la società il giorno in cui tornassero liberi. Una volta eravamo fermamente contrari alla pena di morte: nel corso degli anni abbiamo mutato opinione. E non si obietti che ciò è incompatibile con la fede cattolica: questo lasciamo che lo dica il signor Bergoglio, che ha fatto cambiare appositamente il catechismo, dalla sera alla mattina, al § 2267. Ma non è vero. Il Magistero non ha mai insegnato una cosa simile; e neppure Gesù ne ha mai parlato, o ha mai fatto capire di considerare illegittima la pena capitale. Al contrario, ha auspicato la pena di morte per quanti abusano dei bambini e danno loro scandalo (Mt 18, 6-7):  Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo! A questo, evidentemente, il signor Bergoglio non ha pensato, come non ci hanno pensato i suoi servili adulatori, i suoi vescovi e cardinali e tutti i suoi teologi progressisti e buonisti. Ma il buonismo, ricordiamolo, è il contrario della bontà, è la sua diabolica contraffazione. Ed è per questo evidentemente che quella frase del nostro Signore viene così raramente citata dai preti progressisti e dai teologi modernisti, tutti pieni di carità e discernimento, ma improvvisamente ciechi, sordi e muti quando si tratta di ricordare quel passo del Vangelo di Matteo. Grazie al buonismo, si consente ai malvagi d’infierire sulle loro vittime, quando sarebbe possibile fermarli per tempo. Prediamo il caso di Agitu Gudeta, la donna etiope di 42 anni, rifugiata in Italia e divenuta imprenditrice in un paese del Trentino, uccisa a martellate in testa da un pastore ghanese di 32 anni, suo dipendente. Mentre era a terra agonizzante, costui l’ha anche stuprata. Il racconto dell’assassino, che mette al centro la lite per uno stipendio non corrispostogli da parte della donna, puzza di marcio: se era una questione di soldi, come mai la discussione si è svolta nella camera da letto della donna? E come mai, dopo averla uccisa, o tramortita, l’uomo ha voluto abusare di quel corpo straziato? In un caso come questo, non esitiamo a dire che giustizia sarebbe irrogare la pena di morte. Né cambieremmo parere se l’assassino fosse stato un italiano. Ci sono individui troppo pericolosi per essere lasciati in circolazione; e troppo immondi perché la società debba farsi carico di sopportare la loro presenza. Vanno eliminati, come le mele marce. Quante volte i più atroci delitti sono stati compiuti da soggetti che avevano già commesso reati gravi, e tuttavia avevano ottenuto la libertà su cauzione in fase istruttoria, o un permesso dalla prigione per buona condotta? Se ne potrebbe fare un elenco interminabile: e il sangue di quelle vittime grida vendetta al cielo. Non vorremmo essere nei panni di quei magistrati che hanno rimesso in libertà degli assassini potenziali, pienamente consapevoli dei rischi insiti in tale modo di fare, ma ossequienti al dogma imperante del buonismo a ogni costo...