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Dovremmo ripartire da quel 28 marzo 1997 e restituire l’onore a Fabrizio Laudadio

di Francesco Lamendola - 30/12/2016

Dovremmo ripartire da quel 28 marzo 1997 e restituire l’onore a Fabrizio Laudadio

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 

Era la sera del 28 marzo 1997, Venerdì Santo, quando la motovedetta albanese Kater i Rades – non una carretta del mare, quindi, ma una unità della Marina militare albanese, costruita nei cantieri navali russi e ceduta dall’Unione Sovietica al governo di Tirana molti anni prima – cercò di superare il blocco navale italiano nel Canale d’Otranto e di raggiungere le coste pugliesi. Sì, perché allora il governo italiano – il governo di Romano Prodi, per la precisione: dunque, un governo di centro-sinistra – aveva stabilito un blocco navale nei confronti dell’Albania, piombata nel caos dopo il collasso del folle regime marxista-maoista che per decenni aveva angariato quella nazione; e, anche se non si è mai saputo quali fossero le consegne dettagliate, è certo che le navi della nostra Marina da guerra avevano avuto ordine di proteggere le nostre coste dagli sbarchi indiscriminati dei cosiddetti “profughi”. Ma non erano profughi: in Albania c’era una grande confusione, questo sì; e c’era la miseria: ma nessuna guerra, e nessuna guerra civile. E c’era la smania di arrivare in Italia, che gli Albanesi percepivano come il Paese della cuccagna, grazie alla visione delle nostre reti televisive e al lungo isolamento politico e culturale in cui erano stati costretti a vivere.

Ora, tanto per metter bene in chiaro quali fossero i termini esatti della situazione, bisogna sapere che la corvetta Kater i Rades, lunga 31 metri e larga 3,50, era stata rubata nel porto di Santi Quaranta da criminali che gestivano il traffico degli esseri umani attraverso le acque dell’Adriatico, e che avevano stipato 120 clandestini, più l’equipaggio, per un totale di oltre 140 persone, su una imbarcazione che era stata progettata per imbarcarne esattamente nove. Erano quasi tutti dentro la stiva e ciò spiega il fatto che pochissimi si sarebbero salvati. Dunque, da una parte una nave in mano a dei criminali organizzati, disposti a tutto pur di “sfondare” il blocco; dall’altra le navi della nostra Marina militare, che avevano ordine d’impedire sbarchi non autorizzati. Partita da Valona alle 16,00, la nave albanese fu avvistata un’ora e un quarto più tardi, all’altezza dell’isola di Saseno, dalla fregata Zeffiro, che pattugliava il mare nel contesto dell’operazione Bandiere Bianche, finalizzata appunto a contrastare o limitare al massimo gli sbarchi dei clandestini: perché, all’epoca (sembrano passati mille anni, e non solamente diciannove) i clandestini si chiamavano ancora così, con il loro vero nome, “clandestini”, e  non, come oggi è divenuto d’obbligo, “migranti”, o addirittura “profughi”, anche se profughi non sono affatto, nel 95% dei casi. A questo punto, dopo aver intimato alla nave albanese d’invertire la rotta, intimazione alla quale essa non si curò neppure di rispondere, il comandante della Zefiro passò le consegne a quello di un’altra corvetta, la Sibilla, il capitano Fabrizio Laudadio, ormai a 35 miglia da Brindisi. Per circa due ore, Laudadio tentò di dissuadere il comandante albanese dal proseguire il viaggio; fece di tutto per fermarlo, ma senza speronarlo deliberatamente: molto veloce, la nave italiana cominciò ad avvolgere l’altra in cerchi concentrici, allo scopo d’indurla a invertire la rotta e ritornare nelle acque territoriali albanesi. Ma la Kater i Rades non modificò per nulla la sua rotta: seguitò a navigare in direzione delle coste pugliesi, ormai vicine, incurante di ogni tentativo del capitano italiano e nel pieno dispregio delle sue intimazioni. Pare che il comandante fosse un tale Namik Xhaferi: diciamo “pare” perché, in seguito, durante tutte le vicende processuali, costui si rifiutò sempre di ammettere di essere stato al comando. alle 18,45 si verificò la collisione: la Kater i Rades si piegò sul fianco e affondò subito, posandosi sul fondo dell’Adriatico, a 790 m. di profondità. Perirono più di 100 persone, comprese donne e bambini, di 81 delle quali vennero poi recuperati i corpi; i superstiti furono 34.

Sarebbe troppo lungo e complesso, oltre che troppo triste e deprimente, seguire qui, nei dettagli, le vicende del processo che condussero entrambi i comandanti – un pregiudicato albanese e un ufficiale della Marina militare italiana – sul banco degli accusati, a pari merito, come se recassero una stessa responsabilità. Furono versati fiumi di lacrime e si sprecarono fiumi di parole. Tutte le anime belle, specialmente della sinistra (e a dispetto del fatto che fosse allora al governo l’Ulivo) si indignarono e si strapparono i capelli per la crudeltà e l’insensibilità mostrate dalla nostra Marina e dal comandante Laudadio. Il quale, alla fine, fu condannato, e sia pure a una pena lieve, al pari del comandante albanese, nonostante che avesse sostanzialmente ottemperato agli ordini e nonostante che il Procuratore generale, Giuseppe Vignola, avesse chiesto la sua assoluzione, perché la responsabilità della collisione ricadeva interamente sulle spericolate manovre attuate dalla nave albanese per sfuggire alla corvetta italiana. Alla fine, la Corte d’appello di Lecce condannò Laudadio a due anni e quattro mesi di prigione, per naufragio e omicidio colposo plurimo.

Intanto, il relitto della Kater i Rades, dopo essere stato recuperato con una operazione costosissima, è stato portato ad Otranto e trasformato in un memoriale (bruttissimo), denominato L’approdo: Opera dell’Umanità Migrante, realizzato da un artista greco di fama internazionale, Costas Varosostos. Il regista Nanni Moretti, nel suo film Aprile, del 1998, inveisce contro i dirigenti del governo che si mostrarono tanto indifferenti verso quella tragedia, della quale, evidentemente, avrebbero dovuto considerarsi i responsabili morali. Alcuni parlamentari, fra cui Maria Celeste Nardini e Nichi Vendola, presentarono nel 1997 una interrogazione parlamentare per accertare le responsabilità dei vertici politici e militari nell’affondamento della nave albanese, iniziativa peraltro finita lì. Eppure, in un certo senso, era una richiesta sacrosanta: perché il povero Laudadio fu lasciato solo, le spalle caricate di una responsabilità che, se c’era – ed è questo il punto: se c’era – investiva i suoi superiori e il governo stesso. Invece, come al solito, fu il pesce più piccolo a pagare per tutti. Ma è proprio vero, poi, che qualcuno doveva pagare, e che l’affondamento della nave albanese, per le circostanze in cui era avvenuto e per il contesto generale in cui era maturato, poteva e doveva essere trattato come una “normale” collisione in mare, in cui si deve giudicare della perizia o della imperizia nautica dei comandanti? Non è forse evidente che si trattava, invece, di un caso politico-militare, in cui non era in ballo la perizia del comandante italiano, ma il suo buon diritto, o meglio, il suo preciso dovere, di rispettare le consegne ricevute e d’impedire a una nave, rubata da dei delinquenti comuni di una nazione straniera, e che trasportava non si sapeva chi, di arrivare in un porto o su una spiaggia italiana, benché ciò le fosse stato esplicitamente vietato?

La questione è politica, eccome. Si tratta di chiarire se una nazione sovrana ha, o non ha, il diritto di difendere i propri confini e di vietare l’ingresso illegale di chiunque lo voglia, magari sfruttando spregiudicatamente l’arma del ricatto morale, ossia mettendo a repentaglio la vita di persone inermi: non diciamo “innocenti”, perché l’ingresso non autorizzato in uno Stato straniero è considerato illegale da tutte le legislazioni di questo mondo, tranne che dalla nostra. Perciò, con buona pace di Nanni Moretti e dello scrittore Alessandro Leogrande, autore di un libro-inchiesta che addebita all’Italia la “vergogna” di quella tragedia (edito da Feltrinelli e recensito favorevolmente da Il Fatto Quotidiano), forse lo sbaglio nasce proprio da qui: dal farsi carico di una “colpa” che tale non è, o non è nella misura e nelle forme in cui la si è voluta descrivere. Da quella volta, la nostra Marina  non solo ha cessato di contrastare gli sbarchi clandestini, oltre che dall’Albania, anche dalla Libia, dalla Tunisia e dall’Egitto, ma si è adattata a fare da servizio taxi per qualunque barcone d’immigrati clandestini che richiedano il suo intervento. I nostri marinai trasformati in bay sitter e infermiere per donne che hanno appena partorito, le nostre navi trasformate in comodi traghetti per decine di migliaia di Africani e Asiatici decisi ad arrivare in Italia, non si sa in quali condizioni di salute, non si sa con quale fedina penale: e il ricatto morale è giunto al punto che gli operatori di un centro di prima accoglienza sono stati perfino presentati alla stampa come “razzisti” perché avevano osato lavare i naufraghi con le pompe, ed essi li avevano, a loro volta, fotografati col cellulare, onde documentare al mondo tanta “barbarie” e tanta inumanità.

Noi, allora, non lo sapevamo, ma quel Venerdì Santo del 1997 è stato un test, e un test decisivo: si trattava di vedere se l’Italia, la stampa, i giornali, l’opinione pubblica, il governo, il parlamento, la magistratura, avrebbero “retto” alle tensioni derivanti da un fatto come quello avvenuto nel Canale d’Otranto, con il naufragio della Kater i Rades. Si trattava di sapere se avrebbero sopportato il disagio psicologico e morale provocato dalla morte di tante persone inermi, e avrebbero sostenuto l’azione della Marina, rivendicando il diritto del nostro Paese a difendere i propri confini e le proprie acque territoriali, e sbarrare la strada a ingressi indesiderati, tanto più se organizzati e gestiti dalla malavita straniera. Se, per una volta, saremmo stati solidali con i nostri uomini in uniforme, con i nostri cittadini che, al servizio dello Stato, avevano tentato di applicare le leggi vigenti e le direttive del governo. Se, per una volta, avremmo dato al mondo l’immagine di un popolo unito, di una nazione compatta, che non si lascia turbare dall’emotività in una questione d’interesse vitale per la propria sicurezza: la difesa dei confini e l’affermazione della propria sovranità.

Noi, allora, non ce ne siamo resi conto, ma il mondo ci stava osservando. Ci stavano osservando le diplomazie internazionali, per capire come avremmo reagito a quel fatto; e ci stavano osservando tutti i criminali, gli scafisti, e gli aspiranti immigrati clandestini delle coste orientali e meridionali del Mediterraneo, con i milioni e milioni di abitanti dei rispettivi retroterra, nei Balcani, nel Vicino Oriente e nel continente africano. Crediamo sia quasi inutile dire che nessuna persona in possesso di un minimo di sensibilità e di umanità può restare indifferente davanti a un naufragio in cui trovano la morte decine di persone, fra cui donne e bambini; che nessuna persona civile potrebbe mai compiacersi e provare soddisfazione per un evento del genere. Tuttavia, ci sembra quasi altrettanto evidente che non si tratta di questo, ma di vedere a chi sia giusto attribuire la responsabilità di episodi del genere: se alla nazione che, per proteggere se stessa, fa pattugliare le proprie coste e dà ordine ai propri marinai di allontanare gli intrusi non autorizzati, o a coloro che organizzano il traffico degli esseri umani, lo incoraggiano e ci guadagnano sopra somme  notevoli, che poi servono a finanziare la malavita organizzata e altre attività criminali, dal commercio delle armi e della droga, alla prostituzione, quando non addirittura al terrorismo. Questo è il punto: stabilire su chi ricade la responsabilità per dei fatti come quello del naufragio della Kater i Rades. Perché, se la responsabilità è dello Stato che tenta di proteggere i propri confini, allora è evidente che quello Stato, per evitare il ripetersi di simili eventi, non avrà più altra scelta che quella di spalancare le porte a chiunque, di abolire di fatto le frontiere, e, addirittura, di farsi esso stesso promotore della immigrazione clandestina su vastissima scala, vale a dire della propria auto-invasione, con i propri soldi, con i propri uomini e con le proprie navi.

Il governo australiano, per esempio, non è vittima di tanta emotività e di tanti sensi di colpa: non ammette sbarchi d’immigrati clandestini, e si serve della propria marina per impedirli. Quelli che proprio non li può impedire, nemmeno li subisce: fa sbarcare i clandestini su delle isole esterne, o li rinchiude in appositi campi di raccolta, ma non li lascia proseguire oltre; di concedere loro lo status di rifugiati, non se ne parla; di ammetterli alla cittadinanza in base allo ius soli, meno che meno. Se l’Italia, in quella estate del 1997, avesse retto allo stress psicologico provocato dal naufragio della Kater i Rades, oggi, probabilmente, non saremmo al punto in cui siamo: sommersi da una fiumana ininterrotta di migranti/invasori, e guardati con sospetto dai nostri stessi partner europei, i quali non riescono a capire perché noi vorremmo il loro aiuto, ma non per arginare il flusso, bensì per favorirlo ulteriormente. Si sarebbe sparsa la voce che l’Italia, come la Spagna, come l’Australia, nel difendere i propri confini, non scherza. In un certo senso, l’episodio della nave albanese affondata nel canale d’Otranto è paragonabile alla battaglia di Fornovo del 6 luglio 1495. Se l’esercito della lega italiana avesse inflitto una sconfitta decisiva al re Carlo VIII, probabilmente le successive invasioni francesi e spagnole non ci sarebbero state: il mondo avrebbe saputo che gli Italiani sapevano battersi, e che erano decisi a difendere la loro libertà. Dispiace paragonare la tragedia, in cui perirono più di cento poveracci albanesi, a un fatto d’armi fra due eserciti regolari; ma, per quanto sgradevole, è così. La realtà, a volte, è sgradevole; la politica è sgradevole. Per questo la politica non la fanno le mamme, ma gli uomini politici. Da noi la fanno i demagoghi, che non sanno assumersi le loro responsabilità. E a pagare il conto, poi, sono quelli che hanno fatto il loro dovere: come il capitano Laudadio. Scaricato dai superiori, trascinato in un’aula di giustizia, processato e condannato come un criminale, e infine dato in pasto al sacro sdegno del buonismo progressista…