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E' vero che la Germania può fare debito e l'Italia no?

di Thomas Fazi - 22/08/2019

E' vero che la Germania può fare debito e l'Italia no?

Fonte: Thomas Fazi

Benvenuti a una nuova puntata della nostra rubrica “Le fake news economiche di Luigi Marattin”. In questi giorni i liberisti de’ noantri si stanno dando da fare per spiegarci perché la Germania – a differenza di noi – si può permettere lo stimolo fiscale da 50 miliardi recentemente annunciato dal governo tedesco. Ovviamente non poteva mancare un contributo del nostro economista preferito.

In un suo post (https://www.facebook.com/…/a.2838989787446…/668990940235428/), Marattin ci spiega che la ragione per cui la Germania può – e noi no – è che «la Germania ha “risparmiato” in tempi di ciclo favorevole (portando il debito al 60 per cento del PIL e conseguendo addirittura un avanzo di bilancio), al fine di poter spendere – e spendere tanto – in tempi di ciclo meno favorevole». Prosegue poi Marattin: «Per poter utilizzare la “politica fiscale controciclica” in sicurezza» – si dice anticiclica ma vabbè – «occorre aver fatto anche l’altro pezzo: tenere i conti in ordine quando le cose vanno meglio». Lezione che, secondo Marattin, sarebbe rimasta «sempre inattuata in Italia».

Quanto c’è di vero nell’analisi di Marattin? Ben poco, come vedremo. Tanto per cominciare, come abbiamo visto nelle prime due puntate (https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/ e https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569), in un paese che emette la propria valuta non c’è alcuna relazione tra rapporto debito/PIL – e dunque sull’aver “tenuto i conti in ordine” in passato – e lo “spazio fiscale”, cioè la possibilità o meno di fare deficit; altrimenti non si capirebbe come faccia il Giappone, con un rapporto debito/PIL del 250 per cento, il doppio di quello italiano, a mantenere da più di vent’anni un disavanzo primario – cioè uno stimolo fiscale – permanente nell’ordine del 4-5 per cento del PIL. Altro discorso per i paesi dell’eurozona, che sono sottoposti al ricatto permanente dei mercati e alle decisioni arbitrarie della BCE, ma questo a prescindere dall’entità del loro debito pubblico.

Ciò detto, è vero che la Germania in passato ha avuto un comportamento fiscale più virtuoso del nostro, “risparmiando” più dell’Italia in tempi di ciclo favorevole? Il ciclo a cui si riferisce Marattin è il periodo post-2010. Ora, è un dato di fatto che nell’ultimo decennio la Germania si è distinta per essere uno dei pochi paesi europei che è riuscito a coniugare un considerevole avanzo di bilancio (addirittura al lordo degli interessi sul debito) con un tasso di crescita relativamente sostenuto.

Tuttavia ci vuole un bel coraggio per definire quella tedesca una politica “keynesiana”, come fa Marattin. Nel 2010-11, quando cioè la Germania ha avviato la sua politica fiscale ultra-restrittiva, l’eurozona era in piena recessione, con un tasso di disoccupazione dell’11 per cento, in buona parte a causa delle severe misure di austerità (cioè di distruzione della domanda interna) imposte dalle istituzioni europee e dalla Germania stessa all’unione monetaria e in particolare ai paesi della periferia, ufficialmente al fine di riequilibrare le loro bilance commerciali deficitarie, con l’effetto ampiamente prevedibile di accelerare la spirale recessiva e deflazionistica (nonché la drammatica crisi sociale) in tutta l’eurozona.

Il minimo che ci si sarebbe aspettato in questo contesto è che i paesi con un surplus commerciale – Germania in primis – offrissero anch’essi il loro contributo al riequilibrio della bilancia dei pagamenti intraeuropea (ammesso e non concesso che questo fosse il reale obiettivo o comunque un obiettivo economicamente dirimente), per mezzo di un aumento proporzionale della domanda interna, che avrebbe permesso ai paesi periferici di compensare (almeno in parte) con l’export l’effetto recessivo delle politiche di austerità. Non a caso nel pieno della crisi dell’euro erano praticamene tutti concordi nel chiedere alla Germania uno “stimolo fiscale”.

I tedeschi, invece, hanno fatto l’esatto opposto: tenendo fede alla propria vocazione neomercantilista, hanno tenuto giù i consumi interni e puntato tutto sull’export, sfruttando parassitariamente le politiche di stimolo – quelle sì “keynesiane” – messe in atto soprattutto da Stati Uniti e Cina all’indomani della crisi finanziaria. Il risultato è stato di amplificare non solo le divergenze economiche intraeuropee ma anche gli squilibri tra l’eurozona e il resto del mondo. Infatti già nel 2013 – dunque ben prima dell’elezione di Trump – il dipartimento del Tesoro statunitense criticò duramente il rifiuto della Germania di incrementare la domanda interna (attraverso aumenti salariali e maggiori investimenti) e di contribuire a un riequilibrio degli squilibri commerciali europei e globali.

Nel rapporto, l’economia tedesca veniva additata dal Tesoro per «l’anemico tasso di crescita della domanda interna e la sua dipendenza dalle esportazioni». Questi due fattori, scriveva il governo americano, «hanno impedito un riequilibrio nel momento in cui molti altri paesi dell’area euro sono sotto forte pressione per ridurre la domanda e comprimere le importazioni al fine di promuovere aggiustamenti. Il risultato netto è stato quello di innestare una fase deflazionistica sia all’interno della zona euro che nell’economia mondiale».

Insomma, se la Germania nell’ultimo decennio ha potuto “risparmiare” – e crescere al contempo – è solo perché altri non l’hanno fatto. E questo ha avuto conseguenze disastrose per l’Europa e per il mondo; altro che comportamento virtuoso. E comunque, secondo i parametri di Marattin, l’Italia ha avuto un comportamento più “virtuoso” di quello tedesco, registrando un avanzo primario (cioè al netto degli interessi) superiore a quello tedesco per tutto il periodo in questione, come si può vedere nella figura 1. Se l’Italia, nonostante il suo considerevole avanzo primario, ha continuato a registrare un disavanzo di bilancio complessivo, è unicamente una conseguenza della astronomica spesa per interessi sul debito pregresso (circa il 4 per cento del PIL), a sua volta una conseguenza della scellerata decisione di far schizzare in alto i tassi di interesse, negli anni Ottanta, per rimanere nello SME (a tal proposito si veda la terza puntata della rubrica: https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569).

Se la strategia export-led non ha funzionato per l’Italia è semplicemente perché le esportazioni hanno un peso sul PIL – circa il 25 per cento nel 2010 – molto minore che in Germania, dove nel 2010 le esportazioni ammontavano al 45 per cento del PIL, ed era dunque impossibile attendersi che queste potessero compensare il crollo della domanda interna, da cui dipende più del 70 per cento dell’economia italiana (su questo punto si veda sempre la terza puntata).

Secondo Marattin, l’austerità degli ultimi anni è stata necessaria «perché nei primi anni Duemila – quando le cose andavano bene – abbiamo dilapidato l’avanzo primario aumentando la spesa corrente, dissipando in spesa clientelare i benefici fiscali dell’ingresso nella moneta unica». Al netto di quanto detto prima – cioè del fatto che nella misura in cui l’Italia è stata costretta a perseguire una politica fiscale fortemente restrittiva (e dunque palesemente pro-ciclica) nel pieno della recessione più lunga e profonda della sua storia, questa è stata unicamente una conseguenza della sua scelta di privarsi del controllo della politica monetaria e dunque della politica fiscale –, l’affermazione di Marattin circa la presunta dissipatezza fiscale dell’Italia merita una risposta più approfondita.

Vediamo come si è comportata l’Italia rispetto alla Germania nei primi anni Duemila. Come si può vedere nella figura 2, nella prima metà dei Duemila – «quando le cose andavano bene» – la Germania ha effettuato una massiccia espansione fiscale, nell’ordine di diversi punti percentuale del PIL, passando da un avanzo di bilancio (al lordo degli interessi sul debito) pari all’1 per cento del PIL nel 2000 a un disavanzo del 3-4 per cento (superiore a quello italiano per diversi anni), tanto che, insieme alla Francia, fu il primo paese a chiedere (e ovviamente ad ottenere) uno sforamento del “tetto” del 3 per cento nel rapporto deficit/PIL stabilito da Maastricht. La Germania comincia poi a ridurre il suo deficit (sempre al lordo degli interessi) nella seconda metà degli anni Duemila, ma lo stesso fa anche l’Italia, come si può vedere sempre nella figura 2, il cui rapporto deficit/PIL, fino allo scoppio della crisi finanziaria, rimane sostanzialmente in linea con quello della media dei paesi avanzati.

Lo scenario è simile se prendiamo il dato del bilancio primario (dunque al netto degli interessi sul debito pubblico) dei due paesi (figura 1). Come si può vedere, il bilancio primario tedesco crolla vertiginosamente nei primi anni Duemila per poi risalire. Il bilancio primario italiano registra – è vero – una discesa più lunga di quello tedesco, ma per quasi tutto il periodo in esame si attesta a un livello nettamente superiore di quello tedesco, per non parlare del livello medio dei paesi avanzati. Allo scoppio della crisi finanziaria, il disavanzo primario italiano è praticamente in linea con quello tedesco.

In generale, come si può vedere nella figura 3, l’Italia è il paese ad aver registrato in media l’avanzo primario più alto di tutti i paesi europei nel corso degli ultimi vent’anni. Non a caso il noto economista olandese Servaas Storm individua nel regime di «austerità fiscale permanente» perseguito dall’Italia fin dai primi anni Novanta, cioè dalla firma del Trattato di Maastricht, una delle cause principali della stagnazione pluridecennale del nostro paese. È altresì interessante osservare (figura 4) come tra il 2000 e il 2007 il rapporto debito/PIL della Germania sia aumentato di cinque punti percentuale, mentre quello italiano si è ridotto in misura equivalente. Dunque non si comprende cosa rimproveri Marattin all’Italia. Di non aver fatto ancora più austerità?

In definitiva, siamo di fronte all’ennesimo tentativo dei liberisti – di cui Marattin è indubbiamente uno degli esponenti più autorevoli – di giustificare la macelleria sociale di questi anni facendo appello a presunte “leggi naturali” dell’economia prive di qualsivoglia fondamento, mascherando così le reali cause della devastante crisi socioeconomica del nostro paese: la radicale riconfigurazione del nostro assetto economico-istituzionale conseguente all’adesione dell’Italia alla sovrastruttura economica europea e le varie (contro)riforme regressive ad essa associate. Nulla di nuovo sotto il sole. Come disse Keynes, il fascino dell’economia liberista consiste proprio nella sua capacità di «spiegare gran parte dell’ingiustizia sociale e dell’apparente crudeltà [del modello economico vigente] come un incidente inevitabile nel grande schema del progresso» ed è precisamente questo che le garantisce «il supporto delle forze sociali dominanti».

Nel caso qualcuno avesse ancora qualche dubbio su quali siano gli interessi rappresentati dal PD.