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Effemeridi dell'infamia

di Franco Cardini - 28/12/2020

Effemeridi dell'infamia

Fonte: Franco Cardini

 

Ricordiamo: non serve a niente e a nessuno, ma ricordiamo. Saremo in pochi a farlo, noialtri che non ci scordiamo nemmeno del Cermis. Qualcuno obietterà che in fondo a graziare questi assassini è stato un matto criminale, che se Dio vuole presto sgombrerà dalla Casa Bianca. Non c’illudiamo. Il prossimo inquilino di quel solenne, brutto edificio è un personaggio semi-inesistente circondato da gente forse meno matta ma non meno pericolosa di Trump.

L’America democratica farà meno colpi di testa, si proclamerà multilateralista (l’ha già fatto), ma stringerà proprio per questo molto di più i legami con quelli che l’ipocrita eufemismo corrente fa definire “alleati”. Ci troveremo invischiati fino al collo nelle nuove imprese democratiche: e saranno imprese di guerra. I nuovi contractors magari non li fornirà la Blackwater/Academi, ma saranno comunque assassini prezzolati. E anche il nostro esercito italiano, non più di leva, non più di popolo, ma fatto di efficienti e ben pagati professionisti (executive, si dice), è in parte già una pepinière di assassini e lo sarà ancora di più, inserito com’è in un’associazione a delinquere come la NATO.
Dicono che un politico rampante italiano, un po’ in difficoltà con la situazione del suo e nostro paese, punti alla direzione della NATO. Un ruolo prestigioso, di spicco internazionale, strapagato, brillante, di potere. Un ruolo da reggicoda di gangsters, che non augurerei al mio peggior nemico. Prego con tutto il mio cuore Nostra Signora la Madonna dell’Impruneta, della quale quel politico rampante ed io siamo devotissimi, affinché ciò non accada.

FC

MARINA MONTESANO
IN MEMORIA DI QUATTORDICI ASSASSINATI DI CUI NON HA PARLATO NESSUNO
Si chiamavano Ahmed Haithem Ahmed Al Rubia’y, Mahassin Mohssen Kadhum Al-Khazali, Osama Fadhil Abbas, Ali Mohammed Hafedh Abdul Razzaq, Mohamed Abbas Mahmoud, Qasim Mohamed Abbas Mahmoud, Sa’adi Ali Abbas Alkarkh, Mushtaq Karim Abd Al-Razzaq, Ghaniyah Hassan Ali, Ibrahim Abid Ayash, Hamoud Sa’eed Abttan, Uday Ismail Ibrahiem, Mahdi Sahib Nasir and Ali Khalil Abdul Hussein. Quattordici irakeni: dieci uomini, due donne e due bambini di nove e undici anni; secondo il governo del paese mancano ancora tre nomi, perché la lista dovrebbe includerne diciassette, oltre a ventitré feriti. Si trovavano a passare per Piazza Nisour a Baghdad il 16 settembre 2007 quando transitava di lì un convoglio di mezzi statunitensi: trasportavano personale americano d’ambasciata scortato da guardie armate, non inquadrate nell’esercito, ma appartenenti alla compagnia di sicurezza privata chiamata Blackwater (oggi Academi).
Vale la pena ricordare chi sono questi mercenari: nel 2003 l’inviato presidenziale Paul Bremer, senza passare da alcuna gara d’appalto, dette loro un contratto per oltre 27milioni di dollari, assicurando ai suoi membri l’immunità dalla legge irachena, al pari dei soldati. Molti fra gli ingaggiati sono ex militari pagati da 500 a 1.500 dollari al giorno, dunque molto più delle truppe in servizio regolare. La Blackwater è l’impero privato del miliardario Erik Prince, un cristiano fondamentalista e finanziatore repubblicano. I suoi contractors, come oggi chiamiamo i mercenari, fra le altre “missioni” sono stati impiegati contro gli stessi civili americani dopo il disastro di New Orleans nel 2005, hanno continuato a operare in Iraq anche sotto l’amministrazione Obama, forniscono la sicurezza privata negli Emirati Arabi. Nel 2006, Prince si è espanso a livello internazionale, formando una nuova filiale alle Barbados, al di fuori delle tasse e dei regolamenti americani, per addestrare forze straniere, spesso finanziate dagli aiuti militari americani. Ha sostenuto Trump e il vice Mike Pence, nonché il loro amico Steve Bannon (leader dei media dell’ultradestra, assai amato anche in Italia, ora sotto processo per frodi fiscali), e sua sorella Betsy DeVos è entrata come segretario all’Istruzione, dove ha favorito costantemente le scuole religiose contro quelle laiche.
Il 16 settembre 2007 il convoglio scortato dai contractors non venne attaccato: entrava in una rotatoria trafficata, dove uno fra loro cominciò a sparare su un’automobile nella quale si trovavano un ventenne e sua madre, diretti dal dentista; forse l’auto gli era sembrata troppo vicina. A quel punto altri suoi colleghi aprirono il fuoco con armi pesanti contro le auto e contro i pedoni che avevano la sfortuna di passare da lì, o di trovarsi davanti a uno dei tanti negozi sulla piazza. Secondo i testimoni, pezzi di cadaveri e cervella erano sparse tutto intorno quando, schermandosi con granate fumogene, il convoglio lasciò la piazza. Perché avevano sparato in modo così indiscriminato? Certamente la tensione avrà giocato un ruolo, ma molto di più avrà contato l’impunità, la certezza di non poter essere in alcun modo puniti, né in Iraq, né al ritorno negli Stati Uniti. Tuttavia, la strage fu talmente enorme da agitare persino una città martirizzata qual era Baghdad.
La Blackwater affermò che il convoglio aveva risposto al fuoco, ma l’FBI inviata sul posto chiarì che neppure un sasso aveva colpito i mezzi americani. Un rapporto del Congresso degli Stati Uniti, pubblicato due settimane dopo, diceva che i mercenari della Blackwater erano stati coinvolti in almeno 195 sparatorie in Iraq dal 2005. Nell’84% di questi casi, erano stati loro i primi ad aprire il fuoco. Negli stessi giorni Erik Prince, chiamato a testimoniare davanti a una commissione del Congresso, insisté tuttavia che la pattuglia aveva aperto il fuoco solo perché attaccata. Come detto, il governo irakeno era impossibilitato a operare contro i colpevoli, ma alla fine dell’anno decretò l’espulsione della Blackwater, che ha avuto corso soltanto a partire dal 2009. In patria, uno dei contractor coinvolti decise nel 2008 di testimoniare contro quelli che avevano sparato, indicando (e mi ripugna anche ricordarli per nome) Paul A. Slough, Evan S. Liberty, Dustin L. Heard, Donald W. Ball e Nicholas A. Slatten quali colpevoli. I tentativi di portarli a processo si sono trascinati per anni fino a quando, fra 2017 e 2018, e in seguito alle pressioni dell’allora vicepresidente Joe Biden, che a tal fine si era impegnato con il governo irakeno, Slatten è stato condannato all’ergastolo per aver aperto il fuoco per primo, Ball è andato assolto, gli altri tre sono stati condannati a trent’anni di prigione ciascuno.
Sono questi gli uomini che Donald Trump ha deciso di graziare il 22 dicembre scorso. Insieme a una pletora di parenti e amici accusati di frodi fiscali, corruzione e così via, e nel momento in cui sta cercando di far eseguire le condanne a morte per il maggior numero possibile di condannati per reati federali: che a leggere ciò che hanno fatto destano ben poca pietà, ma nessuno dei quali ha massacrato diciassette persone inclusi due bambini. Trump ha graziato quattro criminali, neppure di guerra, dal momento che non c’era alcuna guerra in corso; quattro stragisti che hanno agito sicuri dell’impunità che il governo statunitense garantisce loro. E che, se mai un processo dovrà arrivare, sarà in casa, dinanzi a una giuria che assolve, come successe per i piloti che tagliarono il cavo della funivia del Cermis per divertirsi a passarci sotto, rimandati in patria e lì assolti, senza che neppure i soldi promessi ai familiari delle vittime arrivassero mai: 40 milioni di dollari bloccati dal segretario alla difesa William Cohen, dell’amministrazione democratica di Bill Clinton (era il 1999).
Per la strage di Piazza Nisour si era almeno arrivati a una condanna, anche importante, che pareva poter ripristinare uno straccio di giustizia. Ma evidentemente era un’illusione, e la presidenza Trump si chiude nel nome dell’ignominia che l’ha contrassegnata. D’altra parte c’è poco da stupirsi: in Vietnam la strage di Mi Lay, 504 civili inermi massacrati dalle truppe americane per il gusto di farlo, si concluse con la condanna all’ergastolo del tenente William Calley, dichiarato colpevole di omicidio premeditato per aver ordinato di sparare, e il giorno dopo la condanna graziato con un atto di indulgenza dal presidente Richard Nixon, che ordinò di trasferirlo dalla prigione agli arresti domiciliari. Calley scontò tre anni e mezzo di arresti domiciliari a Fort Benning, in Georgia, e poi fu dichiarato libero da un giudice federale. E non ci facciamo troppe illusioni sui presidenti degni contro i “cattivi” che non godono di buona stampa come Nixon e Trump: l’allora governatore della Georgia, Jimmy Carter, futuro presidente “buono”, istituì l’American Fighting Man’s Day chiedendo ai georgiani di guidare per una settimana con le luci accese per protestare contro la condanna di Calley.
Criminali di guerra non sono certo soltanto gli americani, è ovvio; ma in questi casi a colpirmi è il senso di impunità, accompagnato dalla retorica della democrazia, magari da esportare, e dalla convinzione sottesa che Dio è dalla loro parte sempre e comunque. Non è un caso se il termine “fondamentalismo”, che oggi ci piace spendere soprattutto quando parliamo di “altri”, sia nato in realtà proprio per definire le sette evangeliche e lo spirito religioso di un’America profonda nella quale si è sposato perfettamente con il capitalismo più rampante. Il presidente uscente ha incarnato perfettamente questo dualismo per noi difficile da capire; la sua sconfitta è state una delle poche buone notizie di questo 2020, e la grazia concessa ai quattro assassini me ne dà la conferma: sperando naturalmente in un 2021 e in una presidenza migliori.