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Ernesto Galli della Loggia va alla guerra

di Carlo Formenti - 23/06/2021

Ernesto Galli della Loggia va alla guerra

Fonte: Carlo Formenti

C’è un termine psicanalitico – denegazione – che descrive la posizione di un paziente che nega una palese evidenza che lo riguarda. I vocabolari danno alla parola un significato meno forte, assimilandola all’atto generico del negare (che non necessariamente significa negare una verità evidente). Nel caso in questione – le parole con cui Galli della Loggia inizia il suo articolo di fondo sul Corriere di oggi – credo che il significato psicanalitico del termine sia il più appropriato: la verità negata è evidente, e colui che la nega lo fa per rimuoverne le intollerabili implicazioni. Ecco l’attacco dell’articolo: “Il cuore della questione non è la guerra fredda che torna o l’ambizione Usa di una nuova egemonia nei confronti dell’Europa” bensì, prosegue, le illusioni e gli errori di Putin e dei cinesi (ma poi l’articolo si occupa solo di questi ultimi). Vedremo ora come questi “errori” vengono descritti, e come da tale descrizione si evinca la più assoluta ignoranza (improbabile) dell’autore nei confronti della realtà cinese, o (ben più probabile) la sua più assoluta malafede (senza l’attenuante dell’inconsapevolezza del paziente nei confronti dei motivi che lo inducono a negare la realtà).
Procediamo con ordine. L’errore di fondo dei cinesi consisterebbe nell’aver creduto che l’economia sia la chiave di tutto, mentre invece “esiste anche la politica, esistono l’algebra del potere, gli interessi degli stati e delle classi dirigenti, il peso delle idee, del passato, dell’opinione pubblica”. Fantastico: il maestrino Galli della Loggia vuole insegnare la politica a un gruppo dirigente che da quasi un secolo (il PCC è stato fondato a Shangai nel 1921) ha saputo giostrare con l’algebra del potere, gli interessi degli stati, il peso delle idee, del passato - per usare le sue parole -  in modo talmente accorto e sofisticato, da trasformare un Paese umiliato e ridotto in miseria dal colonialismo occidentale e giapponese nella seconda potenza mondiale. Ma questa è solo la vanagloria da maestrino, il vero punto è la corbelleria secondo cui i cinesi penserebbero che l’economia sia la chiave di tutto, quando se c’è una cosa che non hanno mai rinnegato, nemmeno dopo le riforme del 1978, degli insegnamenti di Mao è che “la politica deve sempre stare al posto di comando”. Come avrete notato, nel riprendere le parole del nostro ho tralasciato l’opinione pubblica, perché è questo il vero nodo che gli sta a cuore – il compitino che gli è stato commissionato - ma su questo più avanti.
Poche righe sotto, il maestrino articola il discorso specificando che l’errore di economicismo dei cinesi consisterebbe nell’illusione per cui “noi” ci saremmo lasciati comprare (il plurale non è maiestatis, esprime la totale identificazione del nostro con la “civiltà” euroatlantica, in opposizione ai “barbari” orientali). Il guaio è che “noi” – cioè i capitalisti occidentali nel senso corretto da dare al pronome in questione – ci siamo lasciati comprare eccome, visto che ci siamo lanciati a corpo morto negli spazi che l’apertura delle zone speciali ha messo a disposizione degli investitori stranieri. Quello che il maestrino non dice è che “noi” ci siamo accorti troppo tardi che i cinesi hanno usato quell’apertura – l’esca del grasso succulento per le iene occidentali – per appropriarsi di risorse e conoscenze che - sotto il ferreo comando della politica! – non hanno portato alla trasformazione in senso capitalistico del Paese (come i profeti degli anni Novanta annunciavano, aggiungendo che con lo sviluppo sarebbe arrivata anche l’occidentalizzazione del sistema politico) ma hanno forgiato una macchina poderosa per combattere l’Occidente sul suo stesso terreno, vale a dire sul processo di internazionalizzazione dell’economia. Di qui la reazione euroatlantica e la guerra fredda denegata in apertura di articolo.
Questo rovesciamento dei rapporti di forza – frutto di una mossa tipica delle arti marziali orientali – mandia in bestia il maestrino che, infatti, da qui alla fine dell’articolo sbrocca in una serie di corbellerie. Prima si lamenta della “politica di virtuale colonizzazione” che i cinesi starebbero conducendo in Africa. E qui malafede e ignoranza coincidono: malafede perché per parlare di colonialismo dai pulpiti occidentali ci vuole davvero una faccia di c… di proporzioni pantagrueliche, ignoranza perché il maestrino ignora (o vuole ignorare) che gli investimenti cinesi in Africa sono abissalmente diversi dai “nostri”: 1) perché non sono finanziari ma infrastrutturali, per cui favoriscono lo sviluppo reale dei destinatari e non la perpetuazione della loro dipendenza; 2) perché non sono associati al rispetto di condizioni politiche, tutelando la sovranità dei Paesi beneficiari; 3) perché non stringono al collo di chi riceve gli aiuti il cappio del debito (le condizioni sono largamente più favorevoli di quelle praticate dalle potenze occidentali). Dopodiché si azzarda ad accusare che “è difficile escludere che nelle tasche di qualche esponente del fragile e inconsistente ceto politico che caratterizza l’Occidente attuale non sia arrivato da Pechino qualcosa di più concreto”.
E qui casca l’asino: l’autorevole opinionista getta la maschera scoprendo la faccia dell’agit prop di regime. Sopra avevo annunciato che avrei ripreso la questione dell’opinione pubblica e ora è il momento: è qui che il nostro esegue il suo compitino, cioè insinuare dubbi sui “giri di valzer” dei governi a maggioranza M5S con la Cina, e portare acqua al mulino della svolta euroatlantica del comandante Draghi. In conclusione, la guerra fredda c’è eccome e personaggi come Galli della Loggia combattono in prima linea sul fronte della propaganda. “A pensare male si fa peccato ma…” scrive il nostro prima di insinuare che chi non si allinea è prezzolato dalla Cina. E lui da chi è prezzolato, si potrebbe ribattere, ma io non credo sia questo il problema, nel senso che questi agit prop della propaganda occidentale sono servi volontari e felici di esserlo. Non è che non ne traggano vantaggi, ma sono vantaggi “immateriali” come il prestigio e l’autorevolezza che vengono loro accordati dagli organi deputati a orientare l’opinione pubblica. In poche parole, li si compra con poco.