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Fuori centro

di Marco Tarchi - 24/01/2022

Fuori centro

Fonte: Diorama letterario

Da qualche tempo si manifesta una visibile agitazione negli ambienti che amano definirsi non conformisti, e più in generale fra gli autoproclamati nemici dell’establishment. A riscaldare gli animi e risvegliare sopiti o compressi bollori sono soprattutto due questioni: da un lato le vicende collegate al persistere della pandemia da Covid-19, e in particolare le misure adottate dai governi e dalle istituzioni sovranazionali per contenerne l’espansione e gli effetti; dall’altro, su un piano molto diverso, quelle riguardanti lo scenario delle relazioni internazionali, in particolare l’acuirsi delle tensioni fra Stati Uniti e Cina.
Che entrambi i temi possano sollevare inquietudini e dividere l’opinione pubblica in fronti distinti se non contrapposti, non ha di che stupire. Sia nell’uno che nell’altro ambito la riflessione razionale e gli impulsi emotivi tendono ad aggrovigliarsi e a creare cortocircuiti, coinvolgendo problemi di rilevanza tutt’altro che secondaria. Nel primo di questi casi spiccano la tutela della salute, il rispetto delle libertà individuali e di quelle collettive, il timore di un’ulteriore intensificazione delia sorveglianza pubblica sui comportamenti privati, il sospetto che dietro l’esplosione epidemica e la sua enfatizzazione in sede mediatica si celino gli interessi dei grandi gruppi farmaceutici e/o quelli di governi impegnati a liquidare la precedente minaccia populista, il rapporto tra scienza/scienziati e politica/politici nella gestione delle crisi sanitarie, ecc. Nella seconda vicenda – che in una certa misura si ricollega alla prima, attraverso i frequenti richiami all’ipotetico ruolo del laboratorio di Wuhan nella diffusione, se non addirittura nella creazione, del virus che oggi ci affligge – si affacciano altri fattori di dimensione planetaria, dallo scontro di civiltà di huntingtoniana memoria alla concorrenza tra le potenze per il predominio sul mercato economico, sullo sfondo della non meno serrata lotta per l’egemonia e per la costruzione di un nuovo assetto geopolitico, di nuovo bipolare oppure multipolare, fondato tanto sull’hard power militare quanto sul soft power gestito dai colossi del web e attraverso una molteplicità di strumenti culturali.
A sorprendere è piuttosto il grado di intensità e di radicalizzazione che queste controversie stanno suscitando nei partigiani dei diversi campi, i cui toni e atteggiamenti sfiorano ormai, in non pochi casi, la paranoia e la monomaniacalità, con accuse e contrattacchi che rischiano di oltrepassare il livello di guardia delle guerre fredde per predisporre il terreno a scontri surriscaldati, le cui conseguenze rimangono in larga misura imprevedibili.
Per quanto riguarda la pandemia, il frequente ricorso agli schemi complottistici, alle congetture più strampalate, alla rincorsa del chiacchiericcio isterico che dilaga nei social networks, tipico delle coorti no vax, fa da pendant alla caccia all’untore, alla gogna della pubblica denuncia e agli appelli alle punizioni esemplari dei renitenti (che vanno dal “si paghino le cure se si ammalano” al più drastico “non curiamoli”). Ne scaturisce inevitabilmente una polarizzazione che sfocia, come si è visto, nella trasposizione dello scontro sul terreno direttamente politico e nel tentativo velleitario di partiti, gruppi e gruppuscoli “di opposizione” di sfruttare la situazione aizzando le piazze fisiche o quelle virtuali, con inevitabili effetti boomerang e campagne di ulteriore delegittimazione. Sul versante che attiene alle questioni internazionali, lo scenario dello scontro appare decisamente più orientato in senso unilaterale, perché a chi ha riscoperto il “pericolo giallo” d’altri tempi e ne fa il nuovo spauracchio per ricominciare ad intonare il vecchio coro della difesa dell’Occidente non sembra contrapporsi, per il momento, nessun avversario organizzato.
Il che non impedisce di sentir risuonare invocazioni a sanzioni e boicottaggi e inviti a individuare e denunciare ogni episodio che possa prestarsi a dimostrare la perfidia del Dragone rosso e dei suoi dirigenti, pronti ad inghiottire l’intero mondo in una versione 3.0 a dimensione aumentata del Celeste Impero. Il tutto sullo sfondo del profilarsi di uno schieramento che si proclama conservatore e fa della fedeltà alla Alleanza atlantica e dell’esaltazione dei valori occidentali minacciati dagli ultimi comunisti di Pechino, spregiatori dei diritti umani, la propria bandiera. In modo diverso, il concentrarsi delle passioni e delle mobilitazioni di ambienti che si considerano e pretendono di presentarsi come “antagonisti del Sistema” attorno a queste due linee di frattura rischia di sfumare, e far passare in secondo piano, questioni che dovrebbero apparire – perché lo sono – assai più cruciali nella deriva delle società contemporanea verso traguardi che in quel microcosmo dovrebbero suscitare una profonda inquietudine. Prima di tutte, il progressivo intensificarsi dell’azione di condizionamento psicologico che una congerie di attori politici, sociali e massmediali stanno esercitando per radicare nella coscienza collettiva i dogmi dell’ideologia woke, avanguardia di quel sistema di pensiero che è correntemente noto come il politicamente corretto: un insieme di credenze, pregiudizi etici e norme che attenta in profondità alla libertà delle coscienze e a quella della ricerca scientifica, e che – stando sul mero terreno dei fatti e senza concessioni alla retorica, perché sono già numerosi gli esempi che lo dimostrano – prepara il terreno a una stagione di intolleranza, isolamento e discriminazione verso i dissidenti dalla “verità rivelata” dai nuovi padroni del pensiero che poco avrebbe da invidiare alla forma di totalitarismo soft e non dichiarato disegnata da George Orwell nel suo 1984.
Chi segue quanto siamo andati scrivendo su queste colonne nell’ultimo anno e mezzo sa bene che di preoccupazioni per le ricadute del clima emergenziale creatosi attorno all’insorgenza epidemica, in termini di irrobustimento dei connotati della “società della sorveglianza” neocapitalista e liberale, ne abbiamo espresse in quantità. Così come abbiamo deplorato l’incapacità delle classi politiche di governo – di qualunque colore politico – di accettare il rischio come una ineliminabile componente della vita personale e di quella associata, e denunciato le gravi conseguenze che i confinamenti prolungati o intermittenti, gli appelli a tratti isterici al “distanziamento sociale”, le interruzioni forzate del processo produttivo comporteranno, a scoppio ritardato, in tutti i paesi che sono stati investiti da questo inatteso flagello. Ma ci siamo anche rifiutati di seguire le derive demagogiche di quanti, in buona o mala fede, fanno del rifiuto della vaccinazione o del passaporto sanitario una questione di principio in nome della tutela di presunte libertà costituzionali o dei “diritti umani”. Sbraitare contro i controlli che gli Stati impongono attraverso il green pass e nel contempo usare quotidianamente tutti gli strumenti – smartphone, carta di credito, social media, siti internet di qualunque tipo, televisori “intelligenti” e via elencando – grazie ai quali, via cookies e algoritmi, vengono costruite banche dati in grado di schedare minuziosamente il profilo e le abitudini di tutti gli utenti è una prova inequivocabile dell’inettitudine, dell’ingenuità o della palese doppiezza di chi conduce, o ispira, queste campagne di protesta.
Sullo stesso piano si collocano, seppure con una minore incidenza delle intenzioni strumentali, le prese di posizione di chi, nelle file “alternative”, assegna ormai sistematicamente alla Cina il ruolo di nemico principale dell’Europa, dei valori a cui si ispirano le culture che la caratterizzano e dei suoi interessi. Senza minimizzare gli aspetti negativi, e perciò legittimamente criticabili, delle politiche repressive che il governo di Pechino ha messo in atto nei confronti di sue minoranze etniche, religiose o territoriali nello Xinjiang, in Tibet o ad Hong Kong, o dei provvedimenti punitivi adottati verso un certo numero di dissidenti, sposare in toto le campagne anticinesi sponsorizzate apertamente o sottobanco dall’amministrazione statunitense significa combattere un imperialismo rafforzandone un altro. Ovvero, in sostanza, riassumere quel ruolo di truppe ausiliarie di Washington che, nel nome dell’urgenza della lotta al comunismo e alle sue minacce di espansione, gli ambienti neofascisti hanno svolto per oltre quarant’anni – e in più di un caso i loro eredi continuano a svolgere. Bisogna essere ciechi per non scorgere, nelle pieghe dei rapporti e degli articoli che a getto continuo inondano pubblicazioni specialistiche e mezzi d’informazione di massa per mettere in guardia intellettuali e opinione pubblica sui risvolti inquietanti delle iniziative legate al progetto della Via della Seta o dello sfruttamento delle materie prime attraverso gli accordi di cooperazione conclusi fra la Cina e vari Stati africani, o negli allarmi crescenti su una possibile imminente invasione di Taiwan, il disegno degli Stati Uniti d’America, da qualunque presidente o partito governati, di usare lo spauracchio della potenza asiatica come lo strumento privilegiato per rendere ancora più stringente il proprio dominio sugli “alleati” e negare loro, Europa in primo luogo, ogni prospettiva di conseguire un’autentica indipendenza. E se per i liberali avallare questo disegno, che Joe Biden ha ripetutamente ribadito, non è altro che un segno di coerenza, l’esatto opposto è, o dovrebbe essere, per chi sino a ieri si è fatto alfiere del terzaforzismo del Vecchio continente e sino al 1989 metteva sul banco degli imputati il “condominio bipolare” degli assetti planetari. Ma pare che molti, in quel campo, lo abbiano dimenticato.
Così facendo, si rischia di sottovalutare, se non addirittura di disertare, il vero fronte di lotta su cui tutti i veri non conformisti dovrebbero oggi convergere: quello di un deciso, coraggioso e argomentato contrasto all’avanzata del progetto di egemonia ideologica che, sotto le insegne della politicai correctness, vuole liquidare, irridendola, la nozione di ordine naturale e, conseguentemente, cancellare ogni forma di identità – culturale, religiosa, sessuale – seppellendola sotto la coltre di un’omogeneizzazione che fa dell’individualismo e dell’illimitatezza dei desideri di ciascun singolo soggetto, promossi allo status ingannevole di “diritti” ed estesi ai più svariati campi, i suoi cardini. Teoria del genere, denuncia del “privilegio bianco” o del “dominio maschile”, negazione del concetto di normalità ed esaltazione di ogni forma di sua trasgressione, rifiuto delle frontiere, cancel culture con annessa epurazione selettiva della memoria, retorica sui “benefici” dell’immigrazione e demonizzazione della critica dei suoi effetti negativi, istigazione al meticciato come nuovo stadio di sviluppo del Progresso, svilimento delle funzioni genitoriali e riduzione della maternità a funzione appagabile e commerciabile sono solo alcuni degli aspetti in cui questa gigantesca operazione di sradicamento si articola. E molti e poderosi sono gli strumenti dei quali dispongono i suoi ispiratori, animatori e beneficiari: dalle strutture educative di ogni grado (il veicolo più insidioso di tutti) alla letteratura, dal cinema alla musica, dalla fitta rete di associazioni “civiche” attive nei più vari campi fino al ceto dei politici di professione.
Potrebbe sembrare impossibile contrastare questa formidabile macchina da guerra. Ma, come sempre, ogni macchinario, pur in apparenza perfetto, può avere delle falle in cui l’inserimento anche solo di un granello di polvere può avere effetti devastanti. Cercare e trovare questi interstizi, penetrarvi e svolgere un’azione di sabotaggio culturale è il dovere di chi intenda combattere sul serio l’odierno establishment. Per riuscirci, il primo passo è smettere – subito – di inseguire bersagli sbagliati.
(Il Punto, in Diorama Letterario, n. 364, novembre-dicembre 2021, pp. 1-2)