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Gaza, i molti buchi del piano Trump

di Lucio Caracciolo - 19/10/2025

Gaza, i molti buchi del piano Trump

Fonte: La Repubblica

Il piano Trump è come il formaggio svizzero: pieno di buchi che ognuno cercherà di tappare o ignorare a modo suo. Nell’infinita e forse infinibile contesa israelo-palestinese è sempre stato così. Perché né gli israeliani né i palestinesi rinunciano all’idea che lo spazio conteso fra Mediterraneo e Giordano sia casa loro. Tutto. Per entrambi qualsiasi concessione è provvisoria. La catastrofe in corso è l’effetto imprevisto e indesiderato della rinuncia di Israele a considerare il fattore umano nell’equazione di Gaza. La ferocia esplosa il 7 ottobre, che ha sorpreso lo stesso Hamas, era anche figlia di decenni di vessazioni subite dai gaziani costretti in gabbia quali “bestie umane”. Molto di più: esprimeva la rivolta delle masse palestinesi che non ragionano secondo i parametri della diplomazia internazionale ma della propria storia e dei propri sentimenti. Sull’altro fronte, altro che guerra di Netanyahu. Fino agli ultimi mesi, quando l’evidenza del genocidio è parsa innegabile anche a buona parte degli ebrei in patria e in diaspora, la grande maggioranza degli ebrei di Israele ha appoggiato la campagna militare voluta da Bibi anche contro l’opinione di capi dell’Idf e del Mossad. Per i quali una vendetta non è una strategia e può vendicarsi di chi l’azzarda. Decine di migliaia di terroristi, tra cui donne, vecchi e bambini, sono stati uccisi dall’Idf a Gaza, mentre i coloni, protetti dai militari che dovrebbero controllarli, ne hanno profittato per accelerare l’espansione degli insediamenti cisgiordani. Caso mai qualcuno ancora pensasse a uno Stato palestinese. Un sobrio bilancio evidenzia che a oggi Israele ha perso. Ha voluto perdersi. Perché ha accettato la guerra di Hamas, così elevato a marchio globale. Nel sentiero stretto che divide il genocidio dal suicidio, ovvero la guerra esterna contro i civili a Gaza dalla guerra civile fra tribù e poteri israeliani. Non si torna al pre-7 ottobre. La questione palestinese è diventata mondiale in odio a Israele. Trump lo ha detto a Netanyahu: «Bibi, Israele non può combattere il mondo». E il premier israeliano: «Sì, lo capisco». Non ci scommetteremmo. Tre punti sembrano acquisiti. Primo. Hamas, che Bibi prometteva di liquidare sapendo di non poterlo fare, esiste e resiste a Gaza. Né intende disarmare. Perfino Trump ha invitato gli orfani di Sinwar a fungere da provvisori poliziotti nella Striscia. Prossimamente affiancati dai turchi, protettori di Hamas e “alleati” degli americani (ovvero di sé stessi), che dovrebbero avere il privilegio di muoversi nei tunnel tuttora in mano ai miliziani islamisti. Secondo. Israele ha seriamente indebolito “l’asse della resistenza” gestito da Teheran per ritrovarsi alle porte di casa un avversario ben più potente. Altro che il “caro nemico” persiano. I turchi sono a distanza di cannone dalle avanguardie israeliane penetrate in Siria. Dalla moschea damascena degli Omayyadi a Damasco i più disinibiti fra gli artefici del nuovo impero turco guardano alla gerosolimitana al-Aqsa (parola di Bilal Erdogan, figlio del reis). Terzo e decisivo. Israele sta cominciando a pagare il prezzo dell’errore compiuto elevando Hamas a minaccia strategica. Contro ogni logica, Netanyahu ha imposto a sé stesso e alle sue Forze armate di rispondere al 7 ottobre come se fosse un super-Kippur, l’ultima volta che Israele ha davvero rischiato la pelle. Quasi Sinwar potesse conquistare lui al-Aqsa. Quindi mano libera per trucidare tutti i gaziani che capitino a tiro. Così non solo ha compromesso la sua reputazione (sopportabile), ma il vitale sostegno americano (insopportabile). E lo sta pagando caro.