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Gli accelerazionisti: chi sono, cosa vogliono e perché possiamo continuare a ignorarli (o forse no)

di Lorenzo Vitelli - 11/05/2020

Gli accelerazionisti: chi sono, cosa vogliono e perché possiamo continuare a ignorarli (o forse no)

Fonte: L'intellettuale dissidente

Fare una genesi filosofica dell’accelerazionismo, una tendenza che ha fatto della contaminazione dei generi più disparati il suo marchio di fabbrica, è un lavoro quasi impossibile (almeno per chi scrive). L’accelerazionismo di sinistra (L/Acc) concilia Marx con Nietzsche, legge Rimbaud alla luce di Deleuze&Guattari, abbina Lyotard con Lacan e il cyberfemminismo, mentre quello di destra (R/Acc) si avvale dal poker Malthus, Darwin, Spencer e Carlyle, a cui si aggiunge il jolly della statunitense Ayn Rand, divulgatrice di pratiche eugenetiche e teorica del controllo delle nascite; un po’ dappertutto troviamo la fantascienza cosmica di Lovecraft e quella cyberpunk del Neuromancer di Gibson, Blade Runner, la musica techno, la vaporwave (che a destra è divenuta fashwave), l’apocalypse culture, l’esoterismo macchinico e altre perversioni lessicali che fanno di questa tendenza un’ideologia che mira volontariamente all’esclusione. L’accelerazionismo sembra riprodursi nelle zone d’ombra, in una sorta di deepweb o semplicemente di inconscio delle ideologie e dei movimenti tradizionali (quelli i cui leader sono sotto i riflettori televisivi e pubblicano con grandi case editrici per intenderci) ma che adesso sta emergendo dal brodo esoterico-digitale per innestare alcune sue idee in contenitori politicamente più spendibili.

Scritto nel 1984, “Neuromante” di Gibson è considerato il primo romanzo di fantascienza cyberpunk.

Il primo a coniare il termine accelerazionista è stato Benjamin Noys, negli anni ’90, in chiave peggiorativa, per riferirsi alle teorie eccentriche di Nick Land, l’enfant terribile della CCRU, la Cybernetic Culture Researche Unit, un gruppo informale di ricercatori dell’Università di Warwick, in Inghilterra, fondato dalla cyberfemmnista Sadie Plant nel 1995. La CCRU, questo ente semi-clandestino che “non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai” si occupa di science fiction, teoria dei numeri, voodoo, filosofia, antropologia, tettonica del palato, scienze dell’informazione, semiotica, geotraumatica, occultismo e altre conoscenze senza nome. Per quanto riguarda i temi più politici, la CCRU, di cui Land è il guru carismatico, considera il capitalismo come una macchina in costante espansione rivoluzionaria e tecnologica, priva di qualsiasi contenuto ideologico o morale, che non riconosce nessun altro scopo se non il raggiungimento della propria emancipazione. Con le sue crisi perenni il capitalismo si è inoltrato in un processo inevitabile di caotizzazione del mondo, e sacrifica qualsiasi costruzione sociale sull’altare della sua “volontà oscura”, una volontà che si basa (adoperiamo qui una frase che Lovecraft scrive per riferirsi ai suoi racconti), «sulla premessa fondamentale che le leggi, gli interessi e le emozioni umane comuni non hanno validità o significato nel vasto universo».

Per Land l’uomo è destinato a essere sostituito da forme di vita aliene, ibride o replicanti. Nella sua visione della storia sembra che lo Cthulhu lovecraftiano abbia preso il posto dell’Angelus Novus di Walter Benjamin. Le componenti intellettuali e culturali dell’umano, infatti, risultano imperfette e superate rispetto ai sistemi cibernetici a cui sono di intralcio, e perciò l’umanità è avviata verso un’intelligenza artificiale planetaria, la Singolarità: «Il capitale conserva caratteristiche antropologiche solo come sintomo di sottosviluppo, riformattando il comportamento dei primati come inerzia da dissipare in un’artificialità auto-rinforzante. L’uomo è qualcosa che esso deve superare: un problema, una resistenza» (Meltdown). Questa tesi esplicitamente nietzscheana – «l’uomo è un animale che deve essere superato» –, per Land viene realizzata proprio dal movimento spiraliforme del capitalismo. È da qui che nasce l’idea, non priva di un certo pessimismo e di una nota determinista, di intensificare i meccanismi di conflitto, in ogni caso inarrestabili, che il capitalismo mette in atto, e quindi accelerarne gli effetti per non porre ostacoli a tutte le sue potenzialità, superando le componenti umane, troppo umane dell’uomo, ponendo fine così ad un capitalismo che contiene al suo interno i germi della propria dissoluzione. Land è un cantore della fine dell’antropocene, è la musa nera del crepuscolo della civiltà umana.

Cthulhu è la divinità-mostro immaginata dallo scrittore H. P. Lovecraft, una creatura aliena che dorme nella profondità degli abissi in attesa di essere svegliata per soggiogare il mondo.

Altro concetto chiave dell’accelerazionismo di Land è quello di iperstizione: un

elemento di cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo.

Definizione apparentemente astrusa ma che in realtà si può intendere come quella costruzione immaginaria del futuro che opera, in modo retroattivo, sul presente. Ballard la formula in questo modo: ciò che gli scrittori della moderna fantascienza inventano oggi, io e te lo faremo domani. La fantascienza cibernetica (pensiamo a Balde Runner, alle fantasie di Roger Zelazny o dello stesso Ballard), è una macchina testuale che interviene nella realtà presente, intensificando le anticipazioni del suo futuro. E infatti possiamo pensare che molti dei progressi tecnologici che oggi si realizzano avvengono perché qualcuno prima li ha immaginati, e tra l’immaginazione e il suo avverarsi nella prassi tecnoscientifica il tempo di attesa si riduce. Diciamo che tutte le finzioni escatologiche, come i Vangeli o il Manifesto del Partito Comunista, hanno una componente iperstiziale quando enunciano un futuro immaginario (il paradiso in cielo per i primi, quello in terra per il secondo) e producono così eventi veri nel presente. Si tratta di narrazioni dotate di un potere performativo, «una specie di finzione che ambisce a trasformarsi in realtà» (Srnicek e William). Per Land il capitalismo è un potentissimo generatore di iperstitzioni, perché fa di banali “speculazioni” economiche la forza motrice del mondo. Così facendo il capitalismo vive in uno stato di crisi permanente, e tende a ribaltare sempre più velocemente tutte le costruzioni culturali e antropologiche, a “deterritorializzare” (secondo il lessico di Deleuze&Guattari) lo status quo. Allo stesso tempo il capitalismo smonta e poi ribadisce i propri limiti: è un sistema schizofrenico. Quindi mentre la globalizzazione diventa totale, assistiamo al revival degli Stati Nazionali, con la crisi del patriarcato si manifesta anche un ritorno alle gerarchie sociali, con l’internazionalizzazione dei mercati coincide una rinnovata rivendicazione politica dei confini. A questo punto per Land bisogna accelerare tutte queste contraddizioni, e distruggere così le resistenze interne del capitalismo, finché l’essere umano non si rivelerà per quello che è: una “macchina” obsoleta, incapace di risolvere i problemi di un mondo eccessivamente complesso, che per sopravvivere al collasso dovrà inaugurare un processo di meccanizzazione, automazione, ingegnerizzazione del corpo umano.

MacDougald parlerà del periodo di Nick Land alla Warwick, come di «un cocktail inebriante di nichilismo, marxismo cibernetico, teoria della complessità, numerologia, musica della giungla e fantascienza distopica di William Gibson e Blade Runner», forse una sorta di fuga onirica da una realtà che il tatcheriano “there is no alternative” aveva reso piatta e incontrastabile sul finire del millennio. Conclusa nel 1998 questa esperienza, e abbandonati tutti gli impegni universitari, Land si trasferisce a Shanghai. Nonostante i difficili rapporti con la sinistra, di cui ha sempre criticato la tradizione riformista e social-democratica, il passatismo nostalgico e il luddismo di quanti vedevano nell’evoluzione del capitalismo soltanto un nemico, Land si considera comunque un marxista di qualche tipo, sicuramente vicino a quel Marx “accelerazionista” che assegnava alla borghesia e alla techné un ruolo rivoluzionario, consapevole che lo sviluppo dei mezzi di produzione si impone socialmente come un imperativo efficace e irrimediabile per cui: se un capitalista non vuole costruire macchine più intelligenti, un suo competitor lo farà al suo posto e lui sarà surclassato. Per il capitalismo, tutto ciò che è effettivamente pensabile diventa fattibile e tutto ciò che è fattibile viene fatto, senza imposizioni, limiti o normative, etiche o politiche, vincolanti: o ti adatti o muori.

Tuttavia, è proprio con il suo trasferimento in Cina che le cose cambiamo radicalmente, e Land diventa, volente o nolente, uno dei punti di riferimento dell’estrema destra americana. Questo passaggio avviene con la pubblicazione del saggio The Dark Enlightenment, un testo che strizza l’occhio all’eugenetica e ha una vocazione fortemente anti-democratica, sottolineando l’incompatibilità tra democrazia, libertà e progresso. A questi temi si aggiungono l’avvento della Singolarità e del postumanesimo, quindi delle inevitabili contaminazioni tra Intelligenza Artificiale e forma umana, e si pronostica la costruzione di città-stato autonome governate dai CEO (questi nuovi monarca del sapere) in una sorta di neofeudalesimo globale. La democrazia, per Land, si rivela strutturalmente incapace di creare un governo razionale, perché è intrappolata nel breve termine dalle elezioni, si condanna a una politica riformista, riduce le decisioni difficili a slogan e rende la catastrofe sociale accettabile purché la si possa attribuire ai propri avversari politici. La deliberazione democratica è lenta rispetto alla velocità del capitalismo, e il mercato, schumpeterianamente, è in grado di generare sempre nuove innovazioni che distruggono vecchi stili di vita e ne creano di nuovi che attendono una loro giurisdizione, un’attesa che però non può aspettare divagazioni etiche e morali collettive né deliberazioni parlamentari, ma necessità di una politica decisionista tout court.

Negli Usa una parte minoritaria ma comunque influente dell’Alternative Right si è lasciata intrigare dalle considerazioni di Land e attinge confusamente da questo contenitore ideologico: si tratta di tutta la frangia neoreazionaria, a partire da Mencius Moldbug (pseudonimo di Curtis Yarvin), ingegnere informatico tra i principali ideologi dell’Alt-right, fino a Steve Bannon, l’ex consigliere e stratega di Donald Trump durante la campagna elettorale del 2016. Ma ancora Andrew Anglin, fondatore del «The Daily Stormer», uno dei punti di riferimento dell’ala neonazista dell’Altright Americana. Tutti questi esponenti della Neoreazione (Nrx) cercano di conciliare, come scrive Mencius Moldbug su UR, «la moderna mentalità ingegneristica e la grande eredità storica del pensiero pre-democratico antico, classico e vittoriano», quindi il tradizionalismo religioso e l’identitarismo bianco con i progressi tecnologici del capitalismo. È per questo che a destra si guardano positivamente le tesi anti-democratiche di Land, il suo decisionismo, l’idea che lo sviluppo tecno-commerciale del capitalismo darà vita ad etno-stati separati (sul modello di città quali Hong Kong, Singapore, Shanghai) a guida oligarchica. Inoltre il filosofo inglese reputa che l’ascesa di Trump al potere, nonostante sia un indice del collasso occidentale, abbia funzionato da frattura interna al sistema internazionale progressista: «nella misura in cui segna la fine della governance globale sulla base dell’universalismo egualitario evangelico, fa spazio a conversazioni politiche più realistiche, che hanno in particolare iniziato a verificarsi». Questa ascesa non fa che accelerare le contraddizioni del capitalismo social-democratico, le contraddizioni della sinistra progressista in generale, la cosiddetta “Cattedrale”, la Matrix dell’inganno universale, che secondo i Neoreazionari è un sistema di mistificazione che modella ogni aspetto delle nostra vite. La vittoria di Trump ne avrebbe messo in evidenza tutta la carica liberticida, la volontà di portare al collasso la razza bianca, censurandone le idee e le pretese, vietando la vendita di armi, obbligando alla tolleranza. Per i neoreazionari è quindi necessario alimentare il conflitto generalizzato, produrre il caos per scatenare i bisogni di sicurezza e di gerarchia, e quindi dare più potere ad un’oligarchia illuminata che può compiere scelte in un’ottica razionale.

Ma questa attrazione scatenata sugli ambienti cripto-fascisti che dà vita ai deliri sopramenzionati, si muove parallelamente all’influenza che l’illuminismo oscuro di Land ha esercitato sui CEO delle aziende della Silicon Valley (per lo più maschi e bianchi tecno-ottimisti con il portafoglio pieno di Bit-coin). Una visione come quella di Land, dove l’informatica e l’intelligenza umana si compenetrano, dove uomini e macchine sono integrati, dove il potere politico viene limitato per favorire l’autonomia di piccoli stati separatisti, ciascuno governato da un CEO, non poteva lasciare indifferenti i padroni del silicio. Ed infatti è proprio Peter Thiel, il co-fondatore di Paypal, nonché uno dei principali sostenitori di queste teorie, ad ammettere di non credere più alla compatibilità tra democrazia e libertà. Thiel afferma infatti che «una startup è sostanzialmente strutturata come una monarchia». Land è consapevole del fascino che esercita su questi soggetti, quando dice apertamente: «C’è questa convinzione imprenditoriale di essere il padrone dell’universo», e ancora David Golumbia sostiene che vi sia tra questi imprenditori illuminati, «un’adorazione del potere aziendale nella misura in cui il potere aziendale diventa l’unico potere al mondo». Peter Thiel, inoltre, investe quantità ingenti di denaro nei progetti del già summenzionato Curtis Yarvin e nella Seasteading Institute, un’organizzazione fondata da Patri Friedman (l’anarco-capitalista nipote dell’economista Milton) e impegnato nella progettazione di città permanenti dalle tinte lovecraftiane in mare aperto, fuori dalla giurisdizione dei governi democratici. In perfetta continuità con il mito americano della frontiera, anche Eleon Musk, Ceo della Tesla e dell’agenzia aereospaziale SpaceX, si spinge sempre più lontano, fino a dirsi possibilista in merito alla capacità che avremo di colonizzare lo spazio. Musk dichiara inoltre che abbiamo più del 50% di probabilità di poter caricare tutta la nostra coscienza su un computer, vivendo nel futuro in forme non necessariamente organiche.

Progetto di città galleggiante al largo del Pacifico

Se l’accelerazionismo di destra ha questo volto oscuro e tenebroso, a sinistra gli eredi del pensiero del primo Land, quello della CCRU, cercano di illuminare le componenti più esoteriche e settarie per fare dell’accelerazionismo un’ideologia politica spendibile alla luce del sole, pervasa da un ottimismo che a Land era invece estraneo. Si tratta in particolare di due allievi del filosofo inglese, Nick Srnicek e Alex Williams, che lavorano alla costruzione di una strada di sinistra sulle macerie di una tradizione social-democratica incapace di far fronte ai cambiamenti globali perché ancora ostaggio dei retaggi luddisti e umanisti, di una cultura del risentimento verso le innovazioni tecnologiche (in cui si ravvisano nuove forme di “alienazione”), e di una nostalgia verso il lavoro, le tutele, le riforme progressive. Ma Srnicek e Williams non risparmiamo neanche la sinistra rossobruna e neokeynesiana che inneggia all’intervento statale in un mondo in cui le condizioni non sono più le stesse che si conoscevano tra gli anni ’30 e la fine degli anni ’70 e che hanno permesso il buon esito delle politiche inflazionistiche. Srnicek e William sono gli autori del Manifesto Accelerazionista (in Italia pubblicato da Laterza), poi approfondito nel saggio Inventare il futuro (Not). Tra gli altri protagonisti di questa New Left Renaissance troviamo Mark Fisher, il critico culturale morto suicida nel 2017 e autore di Realismo capitalista (Not). Tutti convinti che il processo capitalistico di distruzione creativa sia positivo, questi teorici vogliono traghettare l’accelerazionismo dalla fossa oscurantista, apocalittica, distopica e tanatotropica di Land verso lidi più luminosi e raziocinanti, verso un progetto di sana collaborazione tra uomini e macchine intelligenti che fuoriesca dal deep web, dall’esoterismo e dalle teorie horror. L’obiettivo è quello di rifondare una sinistra iperstiziale, in grado di immaginare e realizzare utopie, nel tentativo di conciliare sviluppo tecnologico e giustizia sociale, e sfruttare il potenziale liberatorio (e inutilizzato) delle Macchine, potenziale viziato dal neoliberismo che invece di ridurre gli sforzi umani riduce i salariati in schiavi. Rispetto ad una destra liberale più a suo agio con le tecnologie, i due autori notano un disagio a sinistra: «Il disagio che la sinistra radicale prova nei confronti della modernità tecnologica, assieme all’incapacità socialdemocratica di immaginare un mondo alternativo, ha fatto sì che il tema del futuro sia stato oggi completamente ceduto alla destra». Nel Manifesto accelerazionista si espongono i punti programmatici di questa ideologia. Tra questi l’idea della piena automazione e quindi della fine del lavoro salariato: «Il punto è che il lavoro umano non sarà eliminato immediatamente o nella sua interezza, ma verrà piuttosto ridotto gradualmente: la piena automazione è una rivendicazione utopica che mira a ridurre il più possibile la quantità di lavoro umano necessario». Srnicek e Williams non si perdono in vaniloqui, criticano aspramente tutti i tentativi folk di sanare localmente i problemi creati dal capitalismo e fanno molta attenzione alla concretezza e alla possibilità applicativa delle loro idee. La piena automazione ad esempio si attuerà progressivamente, riducendo prima l’orario di lavoro, poi la settimana, obbligando così le imprese ad automatizzare il più possibile per non perdere in competitività. All’automazione si aggiungerebbero di pari passo un reddito di base universale, la fine degli Stati nazionali e quindi dei confini, la democrazia partecipativa diretta e una politica globalista. Un mondo meticcio, dove la tecnologia viene finalmente liberata dalla proprietà privata capitalista, e si supera la più grande, e forse ironica, contraddizione del capitalismo: inventare le tecnologie dell’abbondanza per creare ovunque la penuria.

Dopo anni di sbornia punkerista e No Future, tutta rivolta ad una ribellione intimista e esistenziale, la sinistra underground vuole riprendersi il futuro e gli accelerazionisti di sinistra, benché mantengano molte delle componenti estetiche, musicali, teoriche, esoteriche di quell’epoca, stanno uscendo dal cono d’ombra e si stanno strutturando in modo sempre più limpido e programmatico, facendo cartello con i movimenti più disparati quali l’afrofuturismo, i nuovi femminismi, in particolare il cyber e lo xenofemminismo e le teorie queer e neoinsurrezionali. Tra i movimenti più originali infatti troviamo proprio lo xenofemminismo, o femminismo alieno, un prisma ideologico attraverso cui si possono leggere vari aspetti della mentalità e della visione del mondo accelerazionista. Nel Manifesto Cyborg di Donna Haraway leggiamo: «Alla fine del ventesimo secolo […] siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica. […] Il cyborg è una creatura di un mondo post-genere […] che salta il gradino dell’unità originaria, dell’identificazione con la natura in senso occidentale: […] superando la polarità di pubblico e privato, il cyborg definisce una polis tecnologica in parte fondata sulla rivoluzione delle relazioni sociali nell’oikos, l’ambiente domestico». Ancora più in là si spinge invece Helen Hester, esponente del Laboria Cubonics, un collettivo femminista che pretende l’emancipazione biologica partendo da un assunto provocatorio ma suggestivo: «Se la natura è ingiusta, cambiala». Il progetto è quello di recidere qualsiasi subordinazione di valore con l’idea di natura. Niente è sacro, niente è naturale, tutto è liberamente modificabile, e la biologia è un campo di contestazione politica come qualsiasi altro, e quindi è e deve essere soggetto al cambiamento. A questo punto «il corpo spogliato della propria sacralità naturale, diventa qualcosa di hackerabile». Da questo assunto antinaturista, consegue immediatamente la necessità di abolire i generi binari maschio/femmina: «Se la natura non è fondamento essenzializzante per la corporeità o l’ecologia, bensì spazio plastico di conflitto tecnologizzato, allora anche il genere diviene terreno malleabile e assoggettabile a volontarie trasformazioni».

Questa panoramica approssimativa ci porta comunque a sviluppare alcune considerazioni o almeno a sollevare degli interrogativi. L’accelerazionismo, in prima battuta, ci sembra un’ideologia teorizzata da un manipolo di nerd, o di geek (secondo i punti di vista), cresciuti negli anni ’80 con i primi videogame, i comics, la fantascienze e il fanta-horror, con tanto di Robocop, Replicanti, Terminator e cyber-mostri. Questi dispositivi testuali, prima relegati ai margini della cultura, oggi hanno colonizzato l’immaginario collettivo attraverso produzioni cinematografiche, musicali, letterarie, ludiche di massa, divenendo la nuova «prosa del mondo», e l’accelerazionismo può essere considerato la declinazione politica più radicale di questo dispositivo. Una declinazione che non si diffonde su larghi strati della popolazione, e che non riesce ancora (a parte qualche contaminazione sporadica di altre realtà politiche più tradizionali), a trovare una strutturazione organica, ma si limita ad essere un gioco memetico con intenti satirici e provocatori che a destra, come dice Kulesko, ha un ascendente solo sui disadattati del capitalismo (su «incel, neo-monarchici, fanatici religiosi, gamer e cani sciolti»), mentre a sinistra si muove nell’ambito della performance art, degli happening, della musica techno. Però c’è da dire che la mitopoiesi accelerazionista ha contagiato una ristretta élite capitalista che siede ai vertici di un’industria tecnologica affermata su scala planetaria, a partire dal suo primo e più grande centro di irradiazione, la Silicon Valley: vera e propria cittadella del tecno-potere digitale.

Ma cosa c’è dietro questa miotopoiesi – al di là della natura teorica e pratica dei vari accelerazionismi, della loro diffusione, della loro capacità di interpretare il mondo o di innestare idee nuove nel dibattito politico – se non un grande complesso? L’idea di fondo, che sottostà a tutte le sue versioni, di destra e di sinistra, incondizionate o moderate, è quella di una necessaria compenetrazione tra uomo e macchina, è la sensazione che l’uomo non basti, che non sia sufficiente, che vada in qualche modo aggiornato, implementato, completato, perché naturalmente difettoso, e che queste risorse e questi aggiornamenti si possano trovare fuori da noi stessi (nella macchina). Un profondo malessere nei confronti del presente, della realtà, dello stesso corpo umano che ricorda da vicino il malessere covato dai monaci medievali che disprezzavano il mondo e la carne. Che differenza tra l’ascetismo medievale e il tecno-ascetismo? Tra la frustrazione dell’essere imperfetto che si reclude e si percuote (“Io percuoto il mio corpo, e lo faccio mio schiavo”, San Paolo, Lettera ai Corinzi, IX, 23-24) e quella di un nerd che si isola con i visori Oculus in una realtà simulata e prova invidia nei confronti della macchina, del supereroe, dell’ibrido senza sesso che (sogno solipsistico della cyber femminista) si riproduce per partenogenesi, della tecnica in generale che lo mette di fronte a tutta la sua impotenza? «Se esistessero gli dèi, come potrei sopportare di non essere un Dio?» si chiedeva Nietzsche. Sostituiamo gli dèi con i supereroi della Marvel, o gli ibridi di cui parla Donna Haraway, ed ecco spiegato il superomismo nerd: come sopportare di non essere una macchina? Perché questo odio di sé, perché questa ricerca spasmodica di perfezione e immortalità, anche a costo di declinare la vita in forme non organiche, così come i monaci deviavano la vita in forme de-umanizzanti? Per farne cosa, poi, di questa perfezione, di questa immortalità, di questa cyberfuturismo igenico ma privo di eroismo che fa pulizia dell’umano? Una questione che il filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila aveva già esaminato nelle Notas: «Non c’è uomo moderno che si rassegni ad essere ciò che è: da colui che aspira a una grandezza irraggiungibile fino a colui che è ferito ed irritato dalla propria condizione di uomo. Anche l’uomo mediocre attuale, soddisfatto di se stesso, anela al trascendimento della sua condizione umana e spera che il progresso tecnico lo redima, sopprimendo tutte le limitazioni proprie dell’uomo. Stupidità, crudeltà, dolore, vecchiaia, morte, tutto gli sembra contingente e rimediabile, ma al contrario del cristiano non vuole pagare il prezzo della sua redenzione».

Dylan Dog

Ma al di là del lato più filosofico della questione, l’accelerazionismo ci sembra solo un’ulteriore -ismo della storia, che vuole venderci un nuovo paradiso, stavolta artificiale, e un’impossibile soluzione agli insolubili problemi dell’umanità: la paura della morte, l’assurdità dell’esistenza, l’incertezza cosmica che ci riguarda tutti. Un’ennesima chimera ideologica che al grido di «la tecnica salverà il mondo» propinerà al globo, stravolgendo stili di vita, usi e costumi, una nuova e scadente ricetta per un’improbabile salvezza, senza considerare la lezione di Montaigne: «l’umanità non è in grado di guarire se stessa», e se lo fa, lo fa a sua spese. Ed infatti se l’apparato tecno-produttivo è la prima causa dei disequilibri ambientali, come possiamo chiedergli, adesso, di salvarci? E se reputiamo dispotica la soluzione del tecno-mercantilismo dell’Alt-right, allo stesso modo non crediamo affatto nella liberazione tecno-socialista: l’idea di riuscire a irreggimentare la tecnica per metterla al servizio dell’uomo è altrettanto realistica quanto lo fu quella di mettere i mezzi di produzione a disposizione degli operai nell’Ottocento. Se mai dovesse accadere, sarà in piccole isole felici. A livello planetario ci sembra molto più probabile – ahinoi! – la visione landiana di una rete di tecno-città-stato guidate da Ceo in ciabatte Adidas e t-shirt piene di forfora.

Lanciarci in questa corsa sfrenata verso l’abisso, servendoci di una tecnologia che mentre risolve un problema ne genera altri dieci, ha del grottesco. E poi, di quali tecnologie stiamo parlando? Il mondo immaginato da questi pionieri dell’ingegneria informatica è un mondo dominato dalla tecno-stupidità, da un avvicendarsi di inutili “innovazioni” di cui nessuno, finalmente, sentiva il bisogno: frigoriferi intelligenti che riordinano tramite un app i cibi prima che finiscano (e se poi il sushi non mi va più?), app per chiudere la casa o la macchina a distanza (chi si fida realmente di un telefono? Chi darebbe le proprie chiavi di casa a un algoritmo, se non gente che in casa non ha più nulla di suo, se non dei poveracci insomma?…), droni di Amazon che invadono i cieli delle metropoli per consegnare i pacchi (già li vediamo scontrarsi tra loro o consegnare all’indirizzo sbagliato), individui spaesati con i google glass (le lenti appannate appena piove), macchine che si conducono da sole e che sanno già quale sarà il nostro itinerario, app per trovare il partner ideale secondo affinità algoritmiche, e chissà quante altre inutili stramberie ci propineranno questi evangelisti pronti a scrivere i codici html per l’avvento del mondo nuovo. E se la tecnologia si rivelasse stupida? «La cosa triste, a proposito dell’intelligenza artificiale, è che le manca l’artificio e quindi l’intelligenza» diceva Baudrillard. E noi siamo davvero disposti ad abbandonare completamente il controllo delle nostre vite, a mettere tutto in un Cloud per affidarlo a un algoritmo, a svendere migliaia di dati e informazioni personali che riguardano i luoghi che frequentiamo, le persone che amiamo, i gusti che abbiamo? Siamo disposti a lasciare sempre più potere normativo a questi ingegneri informatici, i cui codici virtuali si sostituiscono ai nostri codici giuridici, generando una tensione legislativa che spesso si riduce, come è stato il caso di Uber (che ha fatto causa alla città di New York) a una resa da parte delle nostre istituzioni ormai prone di fronte a questi colossi.

L’invadenza della tecnica nel film “Brazil” di Terry Gilliam

Siamo davvero sicuri che il mondo che ci aspetta non assomiglierà a quello immaginato da Terry Gilliam nel suo film Brazil? Un mondo dove tecnologia e burocrazia formeranno un unico apparato di controllo totalmente demenziale? Nella metropoli immaginata da Gilliam i palazzi oscurano la luce del sole e la città sembra un giardino di cemento intessuto dai tentacoli delle condutture del gas che si intromettono nelle case degli individui, le automobili sono scomode e ridicole, i cibi raccapriccianti, e la tecnoburocrazia che domina ogni aspetto della vita umana si rivela sempre difettosa e disfunzionale. Per sopperire a queste inefficienze bisogna rivolgersi alla Central Service, un mostro amministrativo di moduli e timbri: «Firmi qui. Qui sotto. Grazie. Anche qui. […] – dice l’ufficiale giudiziario – Questa è la ricevuta per suo marito. E questa è la ricevuta per la sua ricevuta». Se quella di Gilliam è una visione ancora esteticamente industriale, grigia, in stile blocco sovietico, dove la burocrazia è un potere forte e apertamente minaccioso, noi vivremo lo stesso incubo in una versione green, minimal, dall’armonia sobria delle linee Apple, non compileremo moduli ma formulari virtuali. L’esito sarà lo stesso, e ci lamenteremo come il rivoluzionario Buttle, interpretato nel film da Robert De Niro: «fra un po’ di tempo grazie al vostro bellissimo sistema non si potrà più aprire un rubinetto senza riempire un 27B/60!». Senza uno smartphone in mano saremo perduti. E più lo spazio di questo tecno-potere si va dilatando, più si contraggono le nostre possibilità di esistenza. Perciò, vale davvero la pena stravolgere l’ordine del mondo per inseguire i “nostri” desideri, che sono poi, in definitiva, i desideri del capitalismo, o meglio i sogni fantascientifici dei padroni del Silicio? Le utopie degli smanettoni della Silicon Valley non sono le nostre. Noi crediamo ancora nell’uomo e accettiamo tutto il peso dei suoi limiti, sappiamo che la morte, la tragedia, l’impotenza, le disgrazie, come la vita, la felicità e la gioia sono irrevocabili. Sappiamo che ogni progresso comporta, nella sua distruzione creatrice, un regresso e un’arretratezza. E se è vera la massima gomezdaviliana che il mondo moderno «distrugge più quando crea che quando distrugge», ciò che cresce con il progresso sono la bruttezza e la volgarità di un mondo che vuole fare degli ingegneri informatici, invece dei poeti, come cantava Shelley, i suoi «legislatori non riconosciuti».