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I manoscritti non bruciano

di Roberto Pecchioli - 06/07/2025

I manoscritti non bruciano

Fonte: Ereticamente

Un amico accanitamente occidentalista mi ingiunge seccato: scrivi qualcosa di destra! Ma sono incapace di aderire alla narrativa dell’Occidente, convinto di non appartenere più a una civilizzazione in marcia contro l’iceberg. La natura alla fine vincerà sul Titanic tecnologico; vada pure a sbattere, non merita di sopravvivere, né lo vuole. La danza macabra finirà, i morti seppelliranno i morti. L’Occidente si riarma per compiacere l’industria declinante e la tecnofinanza padrona, inventa nuovi nemici – tocca alla Russia, potenza di terra invisa da secoli all’anglosfera – gioca con il fuoco e rivela le sue ossessioni suicide, travestite da diritti. I suoi eroi sono immigrati, devianti e innanzitutto trans e omosessuali protagonisti di marce chiamate “orgoglio”, con abbondanza di sponsor, personalità politiche, protagonisti dello showbiz e ogni sorta di esibizionismi.

 L’applauso più scrosciante va al più conformista nella trasgressione obbligatoria, a chi meglio rappresenta l’oscenità e oltrepassa la soglia dell’inversione demoniaca. Brutto modo di morire, ma questo abbiamo scelto. La politica, tra un riarmo, un appello alla società aperta spalancata sul nulla ribattezzato diritti e libertà, lavora alacremente a recidere le fonti della vita, dall’inizio alla fine. Non siamo che un grumo di cellule casualmente poste nel corpo dell’animale femmina della specie. Dunque aborto diritto inalienabile. La società senza futuro distribuisce nuovi diritti e conta il denaro della compravendita di merci, corpi e anime. Durante lo strano interludio detto vita , via libera allo sfruttamento ma anche ai piaceri e ai capricci. Sistema orgiastico mercantile in cui la sinistra dei diritti detta le regole (il progresso) e la destra del denaro abbozza, purché si possa fare mercato. Se Dio non esiste, e neppure la morale se la passa bene, tutto è permesso. La regola è non avere regole, un dramma per Durkheim, la felicità per Foucault, mentore dell’ uomo invertito. Chi non ce la fa, può essere eliminato. Boia in camice bianco padroni della vita, specie se debole , povera, fragile. Ossia inutile. Per i sopravvissuti il premio è la vita artificiale, la macchina ci sostituisce e irrompe nei corpi per conquistare le anime.

 L’altra grande ossessione della nostra civiltà al lumicino – la prova che inconsciamente riconosce la fine ingloriosa – è l’immigrazione, il meticciato etnico e civile da cui saremo prima sostituiti, poi travolti. Sommersi da sensi di colpa immotivati, impauriti da tutto ciò che siamo stati, guardiamo all’Altro come a un paradossale salvatore nel momento in cui la fa finita con noi, sollevati dalla nostra stessa fine. Eutanasia per esaurimento, implosione compiaciuta. Tutto questo – gli uomini ammantano di nobiltà ogni gesto – è chiamato inclusione, tolleranza, diversità, società multiculturale, civiltà. All’amico che esige qualcosa di destra risponde il non credente Heidegger: solo un Dio ci può salvare. L’ occidente dovrebbe essere protetto da se stesso. Manca il perché, non solo il salvatore. La mia generazione ha perso, ecco qualcosa di destra. Ha dissipato una civiltà e indietro non si torna. Il dentifricio non rientra nel tubetto. Non serve a nulla, nell’immediato, levare la voce, simile a quella del Battista che predicava nel deserto. Il deserto contemporaneo è affollato e rumoroso, ma deserto resta.

Tuttavia le idee, i principi, non muoiono se qualcuno li esprime e li offre agli uomini di oggi e di domani, che non avranno lo stesso colore di pelle, penseranno, parleranno, agiranno diversamente da noi, ma ancora uomini saranno, se leveranno in alto lo sguardo e si ribelleranno alla trasformazione della specie in propaggine della macchina. E’ in corso di completamento la trasvalutazione di tutti i valori presagita da Nietzsche, non per annunciare l’Oltreuomo, ma il Non-più-uomo, o l’Uomo Residuo (Valerio Savioli). Per quest’Uomo finora Sapiens, dotato di corpo, anima, spirito, non riusciamo a tacere, armati di una frase iconica del XX secolo: i manoscritti non muoiono. Non la pronuncia un uomo, ma un demone, il personaggio di Woland ne Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov.

 Il Maestro, disperato per la censura del potere, brucia il suo manoscritto – la storia di Gesù vista dal punto di vista di Ponzio Pilato – ma Woland lo recupera con i suoi poteri sovrumani. La frase significa che le idee, la creatività, la tenace volontà di trascendere il tempo, resistono all’oblio, alla persecuzione (il capolavoro di Bulgakov fu pubblicato in URSS con vari tagli quasi trent’anni dopo la morte dell’autore), all’indifferenza degli uomini. Soprattutto questa sconcerta: l’Uomo Residuo non custodisce né conserva in quanto non pensa, o lo fa in modo automatico, un riflesso condizionato, tecnico, artificioso ed artificiale. Si estingue sbadigliando, preparato da tre quarti di secolo ad essere schiavo impassibile, adattivo, della Tecnica padrona. Già questo sbalordisce: un mezzo (“come si fa”) sale al trono al posto dei fini. Segno dei tempi: il giudizio sulla tecnica è una discriminante decisiva del pensiero moderno e della prassi che ne scaturisce. Come il rinnovato successo delle parole della guerra, il conflitto alla maniera postmoderna, estranea allo spirito del guerriero d’ altri tempi, armato di coraggio, devoto al destino.

 Lo capì l’ultimo guerriero, Ernst Jünger, che dedicò riflessioni straordinarie alla guerra alle prime avvisaglie del crepuscolo dell’Europa, contagiata nell’anima, mutilata nel corpo sulle trincee della Prima Guerra Mondiale, titanico scontro di materiali, il primo conflitto compiutamente tecnico, a partire dall’orrore della guerra chimica. Oggi siamo alla guerra-videogioco, hackeraggio elettronico, salvo rientrare nella dura realtà di sangue, morte, distruzione, allorché vediamo – o subiamo sulla carne – i danni, gli effetti reali che nella breve guerra di giugno con l’Iran hanno raggiunto Israele, avamposto dell’ Occidente nel cui calderone ribollente (melting pot) convivono la violenza con la resa, gli ultimi soprassalti di orgoglio con la rotta materiale e morale, la volontà di potenza con il suo opposto.

 Su tutto, il greve materialismo tecnologico, l’artificializzazione tecnocratica che non risparmia la creatura umana. Alain De Benoist, padre nobile della Nuova Destra – ma respinge l’etichetta da decenni – imputa al cristianesimo, millenaria colonna vertebrale della nostra civiltà ora paraplegica, lo strapotere della tecnica. Altri rispondono che è il pensiero greco ad avere piantato il seme di Techne. Liti oziose, disquisizioni bizantine mentre la fortezza – se ancora esiste – brucia. Forse, o forse no, ed è qui che divergono le strade di chi scrive e di molti con cui ha condiviso il cammino. De Benoist, nell’ambito di una recente, sorprendente rivisitazione di Rousseau in chiave comunitaria e anti illuminista – un’operazione che solo un uomo del suo genio può tentare- afferma che il Dio biblico ordinò all’uomo di “sottomettere” la terra, inaugurando “il dispiegamento planetario e incondizionale dell’essenza della tecnica moderna”.

 La tesi è seria, benché gravata da pregiudizio anticristiano. Riempite la terra e soggiogatela; dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (Genesi 1,28). Il cristianesimo sposta l’obiettivo interpretando il versetto alla luce di quello che lo precede: l’uomo è creato a immagine di Dio (Gen 1,27). Lo spirito gli assegna un posto al di sopra degli animali, ma al di sotto di Dio. Il rapporto dell’uomo con la terra non è separato dalla relazione con Dio. La terra è sottomessa all’uomo perché la ragione umana è sottomessa a Dio. L’uomo domina la creazione ma non da sovrano assoluto. Il mondo non gli appartiene, non può disporne come vuole, deve usarlo nell’ordine voluto da Dio, poiché “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” ( Paolo, Colossesi). L’uomo del cristianesimo custodisce il creato. Lungi dal dominio, il dono impone responsabilità e limiti.

 Si può sostenere che il cristianesimo sbagli, non che sia l’origine del dominio sulla natura e sull’uomo della tecnica moderna. Per il pensatore della tecnica, Heidegger, la tecnologia moderna è radicalmente diversa da quella antica. La modernità è caratterizzata da una visione del mondo in cui tutto è disponibile, materia prima sfruttabile. Il suolo è un deposito di minerali da estrarre; il fiume una forza idraulica da impiegare; l’uomo una forza lavoro da mobilitare. Tutto deve essere disponibile senza eccezioni. La tecnologia è mobilitazione generale per il massimo rendimento; tutto è soggetto a previsione, pianificazione e calcolo. L’oggetto tecnico ideale è la macchina. È il prodotto del calcolo, il suo funzionamento è efficiente e prevedibile, integrato nella rete di tutte le altre macchine.

 Viviamo nell’era tecnica non perché ci siano macchine ovunque, ma perché tutto è concepito come una macchina, diventata la realizzazione del principio formulato da Leibniz: nulla è senza ragione. Per la tecnica la realtà deve essere razionale sino alla matematizzazione, oggi compiuta nelle decisioni affidate a modelli aritmetici, gli algoritmi. Tecnica e tecnologia sono metafisica capovolta. La metafisica è il tentativo di comprendere ciò che è (tò on, l’essere) attraverso la ragione (logos); è un’ontologia che cerca di rendere razionale la realtà, in contrapposizione al mito, alla poesia, allo spirito. Secondo alcuni, quando Parmenide inaugura la metafisica affermando l’identità tra essere e logos, avrebbe posto le basi della tecnologia moderna oggi giunta a maturità. La tecnologia moderna sarebbe la realizzazione di un progetto della metafisica: rendere logico, razionale, calcolabile e quindi controllabile, utilizzabile, tutto ciò che è.

 Secondo Heidegger, la tecnologia “equivale alla metafisica consumata”, cosicché “la devastazione della terra è il risultato della metafisica”. La genealogia della macchinazione ci rimanda al momento greco, la tecnica è il compimento del destino della Grecia”. Tesi suggestiva, ma per il greco il peccato massimo è violare il limite, abbandonarsi alla hybris, l’orgogliosa tracotanza gnostica che porta l’uomo a presumere della propria potenza e a ribellarsi contro l’ordine divino e umano, seguita dalla punizione divina ( tísis ). Per l’uomo moderno – cacciato Dio dall’orizzonte – tutto ciò che esiste è una riserva usa e getta infinitamente manipolabile. Quindi diventa schiavo di una macchina planetaria che lo riduce a semplice ingranaggio anonimo, intercambiabile, sino allo scarto per esaurimento.

 E’ la perdita del trascendente – ossia del limite invalicabile – la ragione della prevalenza dell’agire “tecnico”. Non il cristianesimo, non Atene, sono responsabili della deriva dell’uomo residuo, ma il materialismo integrale, il cui lontano ascendente è a Gerusalemme, l’idea della Terra come promessa di dominio fatta da un Dio accigliato agli uomini che egli ha scelto. Pensiero lecito o delitto di lesa maestà? I manoscritti, ossia le idee espresse, non muoiono, assicura Woland al Maestro. Sarà ancora vero al tempo in cui l’uomo viola ogni limite e violenta se stesso, incantato dalla Tecnica, ossia dalla conoscenza delle leggi fisiche, novello albero del Bene e del Male?