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Il Campo dei santi e la teologia della resa

di Chad Crowley - 09/06/2025

Il Campo dei santi e la teologia della resa

Fonte: Giubbe rosse

Ci sono libri la cui rilevanza svanisce con il tempo, superati dalle mode o resi obsoleti da paure mutevoli. L’Accampamento dei Santi non è uno di questi. Scritto nel 1973 dal romanziere ed esploratore francese Jean Raspail, non si è limitato ad anticipare le crisi migratorie del XXI secolo, ma ne ha illuminato in anticipo i fondamenti morali e psicologici, come guidato da una sorta di tragica preveggenza. Ciò che Raspail ha descritto nel suo romanzo cupo e satirico non è stata semplicemente un’invasione via mare, ma un disfacimento spirituale: una resa giustificata dalla carità, abbellita dal senso di colpa e imposta dalle stesse istituzioni un tempo incaricate di difendere l’Europa.
Che questo romanzo, a lungo denunciato, soppresso e cacciato dalla stampa nel mondo anglofono, torni ora in una nuova traduzione inglese dell’edizione francese definitiva del 2011 non è un evento di poco conto. Vauban Books lo pubblicherà nell’estate del 2025. Segna la ricomparsa di un’opera profetica nel preciso momento della sua rivendicazione. Perché ciò che un tempo era stato liquidato come esagerazione distopica ora assomiglia a un resoconto fattuale: navi di ONG che trasportano migranti attraverso il Mediterraneo, sciami di carovane che attraversano la terraferma, campagne mediatiche che descrivono l’afflusso di massa come una salvezza, élite politiche riluttanti a tracciare confini o a salvaguardare le proprie nazioni. La grottesca sfilata di pagliacci ideologici, castrati spirituali e traditori ipocriti del libro non suona più come un’iperbole. Semmai, il mondo reale ha superato i suoi avvertimenti.
Raspail non era un provocatore; era un patriota nel vero senso della parola. Non fantasticava sulla catastrofe che descriveva; la temeva e sperava di impedirla. Ma a differenza delle sterili evasioni dei commenti ufficiali o del gergo inerte della politica, la sua narrativa drammatizzava la verità essenziale: non che la politica sull’immigrazione potesse fallire, ma che un popolo potesse dimenticare come vivere. I francesi, e per estensione gli europei, venivano ritratti non come vittime dell’invasione, ma come artefici della propria rovina, avendo confuso la pietà con la virtù e abbandonato l’istinto di resistere.
Leggere “L’accampamento dei santi” oggi non significa rifugiarsi nella fantasia; significa esserne scossi. Significa confrontarsi con il costo della pietà umanitaria, dell’umiliazione razziale e del credo universalista che ha svuotato l’Occidente. Questo saggio non è una mera interpretazione del romanzo di Raspail, ma una riflessione su ciò che ha rivelato, su ciò che è accaduto in seguito e su ciò che può ancora essere evitato, se la volontà di difendere può ancora essere riaccesa tra le rovine.
Per comprendere quella visione, bisogna comprendere l’uomo che la vide. Jean Raspail non era semplicemente uno scrittore, ma un uomo plasmato dalla storia, ancorato alla tradizione e animato da una ferrea fedeltà all’anima della Francia. Nato nel 1925, in una nazione ancora segnata dalla Grande Guerra e alle soglie di una ancora più grande, apparteneva all’ultima generazione di francesi in grado di ricordare la vecchia Francia: cattolica, aristocratica, sicura della propria identità e ancora inequivocabilmente propria. La sua scrittura, come la sua vita, rifletteva la convinzione che l’Occidente non fosse semplicemente un luogo su una mappa, ma un’eredità di civiltà, tramandata attraverso il sangue, la lingua e la memoria, non evocata da decreti burocratici o dall’infinito miscuglio di banali e sempre più vuoti cliché progressisti.
Molto prima che “L’accampamento dei santi” gli procurasse sia condanne che acclamazioni, Raspail si era affermato come celebre scrittore di viaggi e romanziere. Attraversò le Americhe, ripercorse i sentieri di popoli dimenticati e seguì le rotte un tempo percorse dai missionari martirizzati della Nuova Francia. I suoi romanzi – “Benvenuti onorevoli visitatori” , “Settentrione” , “Chi ricorderà il popolo ” e “Sire” – possiedono la stessa grandiosità elegiaca di “L’accampamento dei santi” , ritraendo culture sull’orlo dell’estinzione e civiltà troppo nobili, o troppo stanche, per difendersi. La sua visione del mondo era inequivocabilmente plasmata da sensibilità cattolica, lealtà monarchiche e un realismo etnoculturale da tempo escluso dal discorso educato dell’ordine postbellico.
Sfidava ogni facile classificazione all’interno delle categorie politiche moderne. Sebbene gli fosse stata conferita la Legion d’Onore dal governo francese nel 2003, Raspail rimase in contrasto con le ortodossie dominanti della Repubblica. Credeva nelle nazioni come entità organiche, non in costrutti ideologici; in un’appartenenza radicata nella discendenza e nella terra, non in una finzione giuridica. Rifiutava il culto dell’integrazione multiculturale, i dogmi dell’intercambiabilità razziale e la fantasia burocratica secondo cui l’identità può essere fabbricata da moduli e giuramenti. E mentre il futuro che aveva previsto nel 1973 iniziava a materializzarsi, dalle irrequiete banlieue alle flottiglie di migranti al largo di Lampedusa, pronunciò verità che altri non osavano nominare. Nel 2004, quando fu processato da un gruppo antirazzista per aver espresso preoccupazione per il futuro demografico della Francia, rispose con chiarezza: “Vivo in Francia da 1.500 anni”, dichiarò, “e non voglio che cambi”.
Quella dichiarazione è diventata ancora più toccante col tempo. Non era semplicemente un atto di sfida, ma un’affermazione di continuità: un rifiuto di dimenticare ciò che la Francia era stata e di respingere la menzogna secondo cui la sua cancellazione fosse naturale o giusta. Raspail vide ciò che altri non videro e scrisse ciò che ancora meno ebbero il coraggio di dire. Sebbene sia morto nel 2020, a poche settimane dal suo novantacinquesimo compleanno, il suo romanzo più controverso non è svanito. È solo diventato più urgente, mentre il mondo occidentale scivola sempre più verso l’abisso.
La sua premessa è semplice. Il suo significato non lo è. In superficie, L’accampamento dei santi racconta un singolo evento catastrofico: una flottiglia di navi decrepite, con a bordo quasi un milione di migranti poveri provenienti dall’India, salpa verso la costa meridionale della Francia, esigendo l’ingresso. Ma descriverla come una storia di confini e imbarcazioni significa perderne l’intento più profondo. Raspail non si è limitato a immaginare una crisi migratoria; ha composto un’allegoria dell’Occidente moderno, rivelandone la fragilità psicologica, le élite disorientate, le istituzioni paralizzate e la fatale incapacità di distinguere gli amici dai nemici.
Il romanzo inizia con una scena di inquietante immobilità. Un anziano professore, solo nella sua casa ancestrale con vista sul Mediterraneo, osserva l’avanzata dell’armata attraverso un telescopio. Sta calando la notte. Sulla spiaggia, i militari bruciano i cadaveri portati a riva dalle onde. In ogni stazione radio, suona Eine kleine Nachtmusik, una serenata leggera ed elegante composta da Mozart, da sempre emblematica dello spirito classico europeo. La musica non è casuale; è un addio, un canto funebre per un’Europa raffinata e ordinata, i cui echi culturali permarranno anche mentre il suo popolo, accecato dalla vanità morale e immobilizzato dai propri ideali, marcia serenamente verso l’autoestinzione.
Da lì, la narrazione procede non con urgenza o allarme, ma con paralisi. I politici tengono udienze. I vescovi predicano. Gli intellettuali tessono odi agli intrusi. Agli scolari vengono assegnati temi inneggianti agli invasori. Le celebrità organizzano ponti aerei di incenso, sitar, libri erotici e altri simboli di decadenza. Una ricca principessa maltese vola ad abbracciare i “poveri cari”, solo per essere accolta con indifferenza e disprezzo. I migranti, un tempo romanticizzati come rifugiati indifesi, si rivelano conquistatori sprezzanti, divertiti dall’ansia di sottomissione dell’Occidente.
Con l’avvicinarsi della flotta, la maschera cade. I cittadini francesi fuggono silenziosamente. Ciò che affermano in pubblico – uguaglianza, rimorso, solidarietà – lo abbandonano in privato. Ma nessuno osa rompere l’incantesimo del silenzio. La classe dirigente, svuotata da decenni di stanchezza ideologica, non riesce né a parlare apertamente né ad agire con decisione. Ai militari viene ordinato di ritirarsi. L’unica resistenza proviene da un piccolo gruppo di civili armati, rapidamente schiacciati dallo stesso regime che si è rifiutato di affrontare la minaccia. La Francia cade. L’Occidente la segue. Il romanzo si conclude con ondate migratorie che travolgono il continente. Cala la “Notte senza fine”.
Il potere simbolico del romanzo risiede nella sua sistematica inversione di significato. Ogni autorità morale si comporta in modo immorale. Ogni atto di compassione nasconde codardia. Ogni istituzione concepita per proteggere favorisce invece la dissoluzione. I poveri, un tempo soggetti di cura, vengono reinventati come veicoli di conquista. L’intuizione di Raspail è che le democrazie liberali, private della lealtà verso il proprio popolo, si rivoltano contro sé stesse sotto le spoglie della virtù.
Persino il grottesco ha uno scopo preciso. Il capo della migrazione è un reietto che maneggia escrementi di nome “Mangiatore di Merda”, accompagnato dal suo bambino deforme e cadaverico. La loro presenza non è semplicemente sconvolgente; è il disordine spirituale e biologico dell’Occidente moderno reso visibile. L’immagine è oscena perché la verità che allude non può essere detta ad alta voce: l’Occidente non è stato rovesciato, ma ha camminato volontariamente verso la propria rovina, avendo perso la volontà di tracciare linee o affermare l’ordine.
In questo senso, L’accampamento dei santi non è un romanzo incentrato sulla trama, ma un lamento per una civiltà morente. I personaggi sono archetipi, che rappresentano il tradimento, la confusione, il coraggio e la fedeltà. La narrazione non è tanto una progressione di eventi quanto un riflesso del decadimento interno di una civiltà. Il libro pone una domanda che la mente moderna non può tollerare: cosa succederebbe se la morte fosse scelta, non imposta? Cosa succederebbe se il collasso si mascherasse da compassione?
La sua vera offesa, per i critici, non risiede nella sua franchezza razziale, ma nella sua precisione morale. Dimostra che la rovina può essere lenta, progressiva e autogiustificativa. Si dipana attraverso una sequenza di rinunce benintenzionate, ciascuna mascherata dal linguaggio del progresso. E lascia il lettore non con un senso di definitività, ma con un interrogativo inquietante che Raspail pone ripetutamente: “Potrebbe forse essere stata questa una spiegazione?”
L’Accampamento dei Santi non è semplicemente una distopia. È una profezia letteraria di quella che in seguito sarebbe stata chiamata la Grande Rimpiazzatura, termine coniato dal pensatore francese Renaud Camus. Si riferisce alla sostituzione demografica, culturale e spirituale dei popoli nativi dell’Occidente con masse straniere, giustificata da ideologie di colpa e uguaglianza e attuata da una classe dirigente che elogia l’universalità pur rifuggendo da radici, limiti e identità. Raspail non usò mai il termine, non solo perché non era ancora stato coniato, ma perché non ne aveva bisogno. La sua narrazione mette in scena la diseredazione al rallentatore di un continente, non per invasione ma per invito; non per conquista ma per resa.
Quando il romanzo apparve per la prima volta, la trasformazione della Francia era appena iniziata. La guerra d’Algeria era finita un decennio prima. I pieds-noir, i coloni di etnia francese in Algeria, erano fuggiti in massa dal Nord Africa, mentre i migranti dell’ex impero arrivavano sotto le insegne della crescita economica e dell’impegno umanitario. Una nazione un tempo definita da antenati, terra e fede iniziò a ridefinirsi attraverso astrazioni burocratiche. La cittadinanza divenne burocrazia. La francesità fu reinventata come atteggiamento morale. I confini divennero fonte di vergogna. Raspail vide più lontano dei suoi coetanei. Il problema non era solo l’immigrazione. Era una profonda inversione morale, una civiltà a cui era stato insegnato a celebrare la propria scomparsa.
Questo è ciò che distingue “L’accampamento dei santi” dalle rappresentazioni più crude del declino occidentale: opere che barattano la serietà per lo spettacolo e, il più delle volte, sprofondano nella pornografia ideologica. Il romanzo di Raspail è molto più pericoloso perché è molto più onesto. Non ci sono cospirazioni, né oscuri criminali che muovono i fili dietro le quinte. Non c’è alcuna fantasia di vendetta razziale. Ciò che offre, invece, è un resoconto devastante della modernità liberale che divora sé stessa: un mondo così terrorizzato dalla condanna morale da non riuscire nemmeno a scuotersi per difendere i propri giovani.
Al lettore occasionale, la premessa del romanzo può sembrare inverosimile: che una flotta di migranti possa accelerare il collasso di un continente. Ma la sua credibilità non risiede nella logistica militare, bensì nella fragilità psicologica che mette a nudo. Ogni istituzione fa la sua parte. La stampa canonizza gli arrivi. La Chiesa li proclama redentori. Le scuole insegnano ai bambini ad amare la propria cancellazione. I funzionari eletti aspettano che qualcun altro parli per primo, paralizzati dalla paura di essere denunciati.
L’allegoria non si limita alla Francia. L’ammonimento di Raspail si applica a tutto il mondo occidentale, dalla Svezia alla California, dall’Inghilterra al Quebec. I meccanismi sono gli stessi: senso di colpa creato ad arte, tradimento dell’élite, codardia morale e la convinzione che la bontà consista nella sottomissione. L’espressione “campo dei santi”, tratta dal Libro biblico dell’Apocalisse, diventa un simbolo definitivo della civiltà indigena: accerchiata, in inferiorità numerica e tradita dall’interno da coloro che venerano l’atto di aprire le porte.
Nel nuovo ordine globale, un popolo che rifiuta di affermare la propria esistenza viene trattato come illegittimo. L’uomo europeo, in questa visione, non è più uno tra tanti. È l’impedimento da cancellare, il monito da umiliare, la barriera da dissolvere in nome di un’astratta fraternità. Il romanzo di Raspail chiarisce cosa questo significhi: il sacrificio non del dominio, ma della continuità; non la perdita delle colonie, ma la perdita della patria.
Eppure, sotto la sua disperazione, il libro conserva una forma di integrità che l’era moderna cerca di estinguere. Osò porre la domanda proibita: e se il tuo più alto obbligo fosse verso i tuoi cari? E se la salvezza contasse più della lode? E se il rifiuto fosse l’ultimo atto sacro?
Questo è ciò che rende “L’accampamento dei santi” insopportabile per la mentalità liberale. Smaschera l’illusione dell’universalismo, la crudeltà celata nell’umanitarismo e il vuoto spirituale dietro le pietà progressiste. In un mondo governato da dogmi razzisti, Raspail commise un’eresia, e per questo sarà ricordato a lungo anche dopo che i pii lo avranno dimenticato.
Di tutte le istituzioni incriminate ne “Il Campo dei Santi” , forse la più schiacciante non è la stampa o la presidenza, ma la Chiesa. Per Raspail, che rimase un cattolico devoto, seppur disilluso, fino alla fine della sua vita, la trasformazione del cristianesimo non fu semplicemente un sintomo del declino occidentale, ma il suo motore teologico. Un tempo custode dell’ordine sacro europeo, la Chiesa era diventata, alla fine del XX secolo, veicolo di una moralità secolarizzata, che esigeva l’auto-abolizione in nome della compassione. Nella visione di Raspail, la Chiesa non resiste all’invasione; la santifica, benedicendo la dissoluzione dell’Occidente con lo zelo di un convertito e l’autorità di una tradizione che non difende più.
Il Papa fittizio Benedetto XVI – senza alcuna relazione con il reale ex pontefice tedesco dimessosi nel 2013 – è ritratto come un universalista brasiliano, un ecclesiastico sentimentale la cui fedeltà è rivolta all’umanità piuttosto che a Dio. Sotto il suo governo, il Concilio Vaticano III ha sostituito il credo con l’emozione e la dottrina con banalità democratiche. L’Eucaristia diventa un oggetto di scena, brandito da monaci pacifisti che affrontano un mare di invasori con nient’altro che un ostensorio e una preghiera. Il simbolismo di Raspail è preciso: la più venerabile istituzione spirituale dell’Occidente è diventata una parodia di sé stessa, celebrando riti sacri di cui non coglie più il significato e offrendo amore solo a coloro che sono votati alla sua distruzione.
Questa Chiesa non è corrotta nel senso volgare del termine. Non è guidata dal vizio o dall’avidità, ma da una perversione più profonda: il tradimento della propria missione per pietà. Questa non è più la fede di Lepanto o di Carlo Martello. È un vangelo senza confini, una liturgia dell’umiliazione. Non più un baluardo, apre le porte e consegna le chiavi.
Questa non è parodia, ma teologia capovolta. Raspail comprese che nessuna civiltà può durare una volta che le sue più alte istituzioni spirituali abbiano consacrato il proprio smantellamento. Il nuovo Vangelo proclama che i poveri sono santi in virtù del loro bisogno, lo straniero sacro in virtù della sua differenza e il forte colpevole in virtù della sua forza. Quella che un tempo era una gerarchia orientata alla trascendenza diventa un credo di auto-annullamento, una fede di debolezza rivestita del linguaggio dell’amore. Nessuna cultura extraeuropea ha mai predicato una tale dottrina, tanto meno ha tentato di viverla.
Eppure l’accusa di Raspail non è atea. Non deride il sacro; ne piange il tradimento. La sua visione non è nietzschiana ma agostiniana, un riconoscimento dell’amore disordinato, della grazia corrotta e del bisogno di un ordine spirituale radicato nella verità. Dio non esige la dissoluzione dei popoli, né benedice le nazioni che abbandonano i propri figli al caos. Come ci ricorda Raspail, “Dio aiuta chi si aiuta”, e nessuna mano divina interverrà per coloro che non si levano a difendere i propri cari.
Così la Chiesa diventa il simbolo supremo del decadimento della civiltà: la verità sostituita dal sentimento, la gerarchia dall’emotività, l’identità dall’astrazione universale. La “nuova teologia” ne “L’accampamento dei santi” rispecchia il discorso moderno sui diritti umani. È, in fondo, una teologia della resa – ridotta all’essenziale, secolarizzata e brandita non per elevare i fedeli, ma per dissolverli come popolo.
Raspail aveva previsto tutto: ecclesiastici che benedicevano le navi dei migranti, vescovi che denunciavano il controllo delle frontiere, pontefici che piangevano per gli stranieri mentre i loro greggi venivano divorati. Vedeva Cristo riformulato come simbolo del Sud del mondo e la crocifissione dell’Europa elogiata come progresso morale. La Chiesa, un tempo fortezza dell’Occidente, è rappresentata nel suo romanzo come il suo portiere.
La morte del sacro, l’appiattimento della gerarchia morale, è forse la dimensione più tragica della storia di Raspail. Senza il trascendente, non c’è limite, non c’è difesa, non c’è vocazione superiore. C’è solo il sentimento. E come dimostra Raspail, il sentimento da solo non può sostenere una civiltà. Può solo piangerne la scomparsa.
Dietro le immagini delle navi e gli slogan morali sempre più vuoti, L’accampamento dei santi rivela qualcosa di più profondo: la convinzione, ormai interiorizzata, che l’esistenza stessa dell’Occidente sia ingiusta. In sostanza, il romanzo è uno studio sul collasso psicologico. Non si chiede come avvenga l’invasione, ma come un popolo arrivi a credere che la resistenza sia malvagia, che la sopravvivenza sia egoistica e che la dissoluzione sia virtuosa. Per Raspail, la risposta è chiara: colpa.
La malattia non è politica, né demografica. È spirituale. L’Occidente nel suo romanzo non è sopraffatto dalla forza delle armi, ma da un’infezione morale: la convinzione che il potere sia intrinsecamente abusivo, che i confini siano atti di esclusione e che la prosperità sia qualcosa da espiare. Gli invasori non assaltano le porte; vengono accolti. L’occidentale si è già convinto che chiuderle sarebbe un peccato.
Questa condizione non è apparsa ex nihilo (dal nulla). Come suggerisce Raspail, è il risultato tardivo di secoli di deriva ideologica e teologica. Il cristianesimo, un tempo forza animatrice dell’identità europea, nel XX secolo aveva invertito la propria bussola morale. Il Dio che un tempo convocava i crociati ora appare come una presenza spettrale in televisione, piangendo sulle sofferenze del Terzo Mondo. Non è più la compassione a definire l’etica dell’Occidente, ma l’adorazione della debolezza: la convinzione che soffrire significhi essere giusti e prosperare significhi essere colpevoli.
La Chiesa può aver piantato il seme, ma sono state ideologie laiche come il liberalismo, il marxismo e l’umanitarismo a trasfigurare il senso di colpa in politica. Il risultato è un catechismo del declino: multiculturalismo, migrazioni di massa, frontiere aperte, il culto del rifugiato. L’orgoglio per la propria eredità è ora un crimine e la continuità è sospetta. Il desiderio di persistere viene ribattezzato odio.
Raspail lo illustra con una precisione fulminante. Le élite non si limitano a permettere l’invasione; la esaltano. La finanziano, la moralizzano, la erotizzano. Battezzano gli intrusi con un linguaggio messianico, proclamandoli redentori che purificheranno i peccati della bianchezza, del colonialismo e della civiltà stessa. In questo mondo, la carità diventa masochismo e la giustizia diventa vendetta contro i nativi. Difendere i propri cari è essere malvagi.
Le masse, da parte loro, non si ribellano. Spariscono. Mormorano ciò che non osano dire ad alta voce. Aspettano che qualcun altro agisca. Ma nessuno lo fa. La paralisi è reciproca. E nel silenzio, la codardia diventa sistemica.
Questa non è ignoranza. È paura: paura della condanna morale, di essere definiti razzisti, di essere paragonati a fantasmi del passato. Carriere, reputazioni e mezzi di sussistenza sono in bilico. L’intera architettura morale dell’Occidente è stata usata come arma contro il suo stesso popolo. In un mondo del genere, sopravvivere come europei significa rischiare la morte sociale.
Raspail, più di qualsiasi altro autore contemporaneo, ha rivelato la verità fondamentale: il collasso di una civiltà non inizia con un’aggressione esterna, ma con una rinuncia interiore. Una volta che un popolo crede che la sua storia sia malvagia, il suo potere illegittimo e il suo futuro indegno, il resto è burocrazia. Lo spirito abdica e la macchina del declino riempie il vuoto.
Questo è il vero orrore de “L’accampamento dei santi”: non che l’Occidente sia invaso, ma che la menzogna mascherata da cultura moderna aneli alla propria rovina. Non che i suoi nemici siano potenti, ma che i suoi protettori si vergognino. Raspail non offre soluzioni. Sapeva che il male affondava più in profondità della legge o della politica. È un disordine metafisico e richiede una resa dei conti spirituale, un nuovo inizio morale radicato nell’identità, nella memoria e nella rinascita dei limiti sacri.
Fino a quel momento, le navi continueranno ad arrivare. E i cancelli rimarranno aperti, non per costrizione, ma per incredulità.
Questo, Raspail lo aveva capito. Non stava semplicemente documentando il declino; ne stava individuando le radici. Il Campo dei Santi non si chiede perché il Terzo Mondo avanzi sull’Europa. Si chiede perché l’Europa, pienamente consapevole della posta in gioco, si rifiuti di mantenere la propria posizione. Ogni leader occidentale nel romanzo riconosce il futuro – aumento della criminalità, frammentazione sociale, disordini biologici – eppure nessuno agisce. Perché? Perché nessuno vuole essere il primo. Nessuno è disposto a essere odiato. Nessuno crede di poter esercitare l’autorità in difesa dei propri simili.
Raspail chiarisce che la crisi non è di forza, ma di convinzione. La Francia possiede ancora un esercito, una stampa, una classe dirigente e una maggioranza indigena. Eppure, quando l’armata si presenta, queste forze non si uniscono, si neutralizzano a vicenda. Il Presidente si rivolge disperato a un editore nazionalista, implorandolo di dire la verità che la burocrazia non può dire. I militari attendono ordini che non arrivano mai. I vescovi borbottano banalità. I ​​giornalisti si lasciano trasportare dalla brezza culturale. Tutti sono paralizzati. Non dal nemico alle porte, ma dalla paura di essere condannati per averle chiuse.
In questo mondo, il coraggio è isolato e suicida. La maggior parte dei cittadini detesta ciò che sta accadendo, poiché non solo ne vede le conseguenze, ma le sperimenta direttamente. Eppure ognuno spera che qualcun altro agisca per primo. Chi parla viene schiacciato, deriso, cancellato o rovinato. Gli altri capiscono il messaggio e tacciono. Nessuno vuole essere un martire per una causa che nessuno osa nominare. In un simile contesto, la codardia diventa contagiosa. E il tradimento mette radici, non perché la gente approvi, ma perché crede che resistere sia inutile.
Persino la sfida armata si dimostra fragile. Il “campo” che dà il titolo al romanzo non è un esercito, ma una manciata di francesi che oppongono un’ultima resistenza, solo per essere annientati dai loro stessi militari, ora fedeli al regime post-nazionale. Il simbolismo è brutale: l’Occidente eliminerà i suoi ultimi difensori piuttosto che infrangere l’illusione della virtù. La sacra menzogna deve sopravvivere, anche se la verità, e coloro che la portano avanti, devono perire.
Raspail capì che il collasso non è mai spontaneo. La sinistra trionfa non con la forza dell’argomentazione, ma occupando il vuoto lasciato da una destra che si rifiuta di agire. Non c’è un Cesare in agguato, nessun generale con un piano segreto, nessuna liberazione all’ultimo minuto. Ci sono solo un popolo disorientato, un’élite codarda e una manciata di uomini leali rimasti da sacrificare. La sua visione non è semplicemente cupa, ma strutturale. Le buone intenzioni non contano nulla. I mercati non salveranno l’Occidente. La sopravvivenza richiede leadership, e la leadership richiede la volontà di soffrire.
I personaggi de L’Accampamento dei Santi non sono ignoranti. Sono eloquenti, perspicaci e ben informati. Ma la conoscenza non si traduce in azione. L’editore nazionalista Jules Machefer emerge come una figura tragica: uno che vede chiaro, prevede il pericolo, attende il momento decisivo e poi, quando arriva, si ferma. Non per confusione, ma per la convinzione che sia già troppo tardi. Il suo realismo è preciso, ma equivale a una forma finale e lucida di resa.
Qui Raspail smaschera il difetto centrale della destra: la speranza che la storia aspetti. Che le condizioni migliorino. Che qualcun altro dia il permesso. Ma il mondo non si risveglia alla cautela. Ciò che serve non è l’approvazione, ma l’autorità; non la rassicurazione dei sondaggi, ma la chiarezza di visione; non il conforto del consenso, ma la disponibilità ad accettare sacrifici.
La vera tragedia de “L’Accampamento dei Santi” non è che la Francia venga invasa. È che si sottometta. Non con la forza, ma per scelta. Le sue istituzioni finali – chiesa, scuola, media, governo – non vengono conquistate dall’esterno. Marciscono al loro interno, rinunciando alla loro autorità, abdicando al loro dovere e santificando la propria estinzione. E quando pochi uomini si levano per difendere la nazione, è il governo stesso che si muove per schiacciarli, agendo non in nome del popolo, ma al servizio di un’ideologia che non crede più che la nazione debba esistere.
Ciò che rende il romanzo così insopportabile, e così profetico, è che impone uno scontro che la modernità non può sopportare: che la morte della civiltà non sia imposta dall’esterno, ma accolta dall’interno. La flotta salpa non perché il nemico sia forte, ma perché i bastioni sono vuoti. L’invasione ha successo non con la forza, ma con la resa. Non avviene per necessità, ma per vergogna.
Eppure, il solo atto di dare un nome a questo tradimento è un inizio. Per coloro che sono disposti a ricordare chi sono, a rifiutare la menzogna che l’amore significhi cancellazione e ad affermare la bellezza della propria eredità, il futuro non è ancora perduto. L’Europa vive ancora, l’Occidente vive ancora – nel sangue, nella pietra, nella memoria – e ovunque i suoi figli scelgano la fedeltà alla paura, i bastioni si ergono di nuovo.

Chad Crowley, chadcrowley.substack.com  –   Traduzione a cura di Old Hunter