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Il collasso del Venezuela è una finestra sul tramonto dell’Età del Petrolio

di Nafeez Ahmed - 18/02/2019

Il collasso del Venezuela è una finestra sul tramonto dell’Età del Petrolio

Fonte: Comedonchisciotte

Per alcuni, la crisi in Venezuela è relativa alla corruzione endemica [della politica] di Nicolás Maduro, in continuazione con il lascito tradito dell’esperimento ideologico di Chavez nell’ambito del socialismo, sotto la crescente influenza insidiosa di Putin. Per gli altri, si tratta dell’ingerenza anti-democratica in corso degli Stati Uniti, che da anni vogliono riportare il Venezuela – con le sue enormi riserve di petrolio – nell’orbita del potere americano, e ora stanno interferendo nuovamente per indebolire un leader democraticamente eletto in America Latina.

Nessuna delle due parti comprende veramente la vera forza trainante del crollo del Venezuela: siamo passati al crepuscolo dell’Era del Petrolio.

Quindi, come fa un Paese come il Venezuela, con le maggiori riserve di greggio nel mondo, a finire con l’essere incapace di svilupparle? Mentre vari elementi del socialismo, della corruzione e del capitalismo neoliberista sono tutti implicati in vari modi, ciò di cui nessuno parla – in particolare l’industria petrolifera mondiale – è che nell’ultimo decennio siamo entrati in una nuova era. Il mondo è passato dall’estrarre in gran parte greggio economico e facile al diventare sempre più dipendente da forme non convenzionali di petrolio e gas che sono molto più difficili e costose da produrre.

Il petrolio non sta finendo, anzi è ovunque –ne abbiamo più che abbastanza per friggere il pianeta. Ma dato che il materiale facile [da estrarre] e poco costoso si è stabilizzato, i costi di produzione sono aumentati vertiginosamente. E di conseguenza il petrolio più costoso da produrre è diventato sempre meno redditizio.

In un Paese come il Venezuela, che emerge da una storia di interferenze statunitensi, afflitto da una cattiva gestione economica interna, combinata con l’intensificarsi esterno delle pressioni delle sanzioni statunitensi, questo calo della redditività è diventato fatale.

Dall’elezione di Hugo Chavez nel 1999, gli Stati Uniti hanno continuato a sondare numerosi modi per interferire e indebolire il suo governo socialista. Ciò è coerente con il curriculum dell’interventismo palese e segreto americano in tutta l’America Latina, che ha cercato di rovesciare governi democraticamente eletti che minano gli interessi statunitensi nella regione, ha sostenuto regimi autocratici di destra, e finanziato, addestrato e armato squadroni della morte di estrema destra, complici nel massacro senza ragione di centinaia di migliaia di persone.

Per tutto il trionfante moralismo in parti dei media occidentali, sui fallimenti dell’esperimento socialista del Venezuela, c’è stata poca riflessione sul ruolo di quest’orribile politica estera contro-democratica degli Stati Uniti, nel preparare la strada per una smania populista di alternative nazionaliste e indipendenti al clientelismo sostenuto dagli Stati Uniti.

Prima di Chavez

Il Venezuela era un fantastico alleato degli Stati Uniti, un modello di economia di libero mercato e un importante produttore di petrolio. Con le maggiori riserve di greggio nel mondo, la narrativa convenzionale è che la sua attuale implosione può essere dovuta solo alla colossale cattiva gestione delle sue risorse interne.

Descritta nel 1990 dal New York Times come “una delle democrazie più antiche e stabili dell’America Latina”, il giornale molto letto ha predetto che, grazie alla instabilità geopolitica del Medio Oriente, il Venezuela “è pronto a svolgere di nuovo un ruolo di prominenza sulla scena energetica degli Stati Uniti ben oltre gli anni ’90”. All’epoca, la produzione petrolifera venezuelana stava contribuendo a “compensare la penuria causata dall’embargo del petrolio dall’Iraq e dal Kuwait”, a causa dei prezzi del petrolio più elevati determinati dal conflitto latente.

Ma il New York Times aveva camuffato una crescente crisi economica. Come notato dal principale esperto in America Latina, Javier Corrales, in ReVista: Harvard Review of Latin America, il Venezuela non si era mai ripreso dalle crisi valutarie e dai debiti che aveva patito negli anni ’80. Il caos economico è continuato negli anni ’90, proprio mentre il Times aveva festeggiato l’amicizia dell’economia di mercato con gli Stati Uniti, ha spiegato Corrales: “L’inflazione è rimasta indomita e tra le più alte della regione, la crescita economica ha continuato a essere instabile e dipendente dal petrolio, la crescita pro-capite ristagnava, i tassi di disoccupazione aumentavano e i deficit del settore pubblico perduravano, nonostante i continui tagli della spesa”.

Prima dell’ascesa di Chavez [al potere], il consolidato sistema politico-partitico talmente accolto con favore dagli Stati Uniti e corteggiato da istituzioni internazionali come l’FMI, si stava sostanzialmente sgretolando. “Secondo un recente rapporto di Data Information Resources alla Venezuelan-American Chamber of Commerce, negli ultimi 25 anni la quota di reddito delle famiglie spesa per il cibo dal 28% è aumentata fino al 72%”, ha deplorato il New York Times nel 1996. “La classe media si è ridotta di un terzo. Si stima che il 53% dei posti di lavoro sia ora classificato “informale” – nell’economia sommersa – rispetto al 33% alla fine degli anni ’70”.

Il pezzo del NYT ha addossato, cinicamente, tutta la colpa per l’aggravarsi della crisi sulla “munificenza del governo” e sull’interventismo nell’economia. Ma anche qui, nel sottotesto, l’articolo ha riconosciuto uno sfondo storico di misure coerenti di austerità avallata dall’FMI. Secondo il NYT, persino il Presidente, in apparenza anti-austerità, Rafael Caldera – che aveva promesso più “populismo finanziato dallo Stato” come antidoto agli anni di austerità dell’FMI – ha finito con il “negoziare un prestito di 3 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale”,assieme a “un secondo prestito di dimensioni non divulgate, per alleviare l’impatto sociale di eventuali difficoltà imposte da un accordo dell’FMI”.

Quindi è opportuno che le odierne denunce morali, fragorose e ipocrite, nei confronti di Maduro ignorino il ruolo determinante, svolto dalle iniziative statunitensi per imporre il fondamentalismo di mercato nel seminare scompiglio, economico e sociale, nella società venezuelana. Ovviamente, all’infuori delle camere di risonanza del fanatismo della Casa Bianca di Trump e di quelli del calibro del New York Times, l’impatto devastante delle misure di austerità della Banca Mondiale, sostenuta dagli Stati Uniti, e dal Fondo Monetario Internazionale è ben documentato tra gli economisti importanti.

In un documento per la London School of Economics, il Professor Jonathan Di John development economist dell’UN Research Institute for Social Development, ha riscontrato che la liberalizzazione economica sostenuta dagli Stati Uniti, non solo non ha rilanciato gli investimenti privati e la crescita economica, ma ha anche contribuito a peggiorare la distribuzione fattoriale del reddito, che ha contribuito alla crescente polarizzazione della politica”.

Le riforme neoliberiste hanno ulteriormente aggravato le strutture politiche nepotistiche già esistenti, centralizzate e vulnerabili alla corruzione. Lungi dal rafforzare lo Stato, hanno portato a un collasso nel potere regolativo statale. Gli analisti che si rifanno a un’età dell’oro del libero mercato venezuelano ignorano il fatto che, lungi dal ridurre la corruzione, “la deregolamentazione finanziaria, le privatizzazioni su larga scala e i monopoli privati hanno crea[to] grandi rendite, e quindi opportunità orientate alla rendita e corruzione”.

Invece di portare a riforme economiche significative, la neoliberalizzazione ha ostacolato una vera riforma e ha radicato il potere d’élite. E questo è esattamente il modo in cui l’Occidente ha contribuito a creare il Chavez che ama odiare. Nelle parole di Corrales nell’Harvard Review:

“… il collasso economico e il collasso del sistema dei partiti sono intimamente correlati. Il ripetuto fallimento del Venezuela nel riformare la sua economia ha reso i politici vigenti sempre più impopolari, che a loro volta hanno risposto privilegiando le politiche populiste, invece che le riforme reali. Il risultato è stato un circolo vizioso di decadenza economica e dei partiti politici, che ha aperto la strada all’affermazione di Chavez “.

Petrolio in estinzione

Mentre è ormai di moda addossare il collasso dell’industria petrolifera venezuelana esclusivamente sul socialismo di Chavez, la privatizzazione del settore petrolifero di Caldera non è stata in grado di anticipare il calo della produzione petrolifera, che ha raggiunto il picco nel 1997, a circa 3,5 milioni di barili al giorno. Nel 1999, il primo anno effettivo in carica di Chavez, la produzione era già diminuita drasticamente di circa il 30%.

Uno sguardo più approfondito rivela che le cause dei problemi petroliferi del Venezuela sono leggermente più complicate del meme ” Chávez killedit”. Dall’apice del 1997, la produzione petrolifera venezuelana è diminuita negli ultimi due decenni, ma negli ultimi anni ha registrato una caduta precipitosa. Non c’è dubbio che una grave cattiva gestione nell’industria petrolifera abbia avuto un ruolo in questo declino. Tuttavia, c’è un fattore fondamentale, oltre alla cattiva gestione, che la stampa ha costantemente ignorato, nel riferire sulla crisi attuale di Venezuela: l’economia sempre più inquieta del petrolio.

La gran parte del petrolio venezuelano non è un greggio convenzionale, ma un “petrolio pesante” non convenzionale, un liquido altamente viscoso che richiede tecniche non convenzionali per l’estrazione e il flusso, spesso con il calore del vapore e/o miscelandolo con forme più leggere di greggio nel processo di raffinazione. Il petrolio pesante ha quindi un costo di estrazione più elevato, rispetto al normale greggio e un prezzo di mercato inferiore, a causa delle difficoltà di raffinazione. In teoria, il petrolio pesante può essere prodotto a prezzi al di sotto del pareggio per avere profitto, ma per arrivare a questo punto è ancora necessario un investimento maggiore.

I maggiori costi di estrazione e raffinazione hanno svolto un ruolo chiave nel rendere gli sforzi di produzione petrolifera del Venezuela sempre meno redditizi e sostenibili. Quando i prezzi del petrolio erano al culmine tra il 2005 e il 2008, il Venezuela è stato in grado di resistere alle inefficienze e alla cattiva gestione della sua industria petrolifera, a causa di profitti molto più elevati, grazie ai prezzi tra 100 e 150 dollari al barile. I prezzi globali del petrolio crescevano mentre la produzione globale di greggio convenzionale iniziava a stabilizzarsi, causando un crescente spostamento verso fonti non convenzionali.

Quel cambiamento globale non significava che il petrolio stava per finire, ma che ci stavamo spostando sempre più verso la dipendenza da forme più difficili e costose di petrolio e gas non convenzionali. Il cambiamento può essere meglio compreso, attraverso il concetto di Ritorno [energetico] sull’investimento energetico (EROI), al quale è stato dato inizio principalmente dallo scienziato ambientale, il Professor Charles Hall, presso lo State University of New York, [e si presenta come] un rapporto che misura quanta energia viene utilizzata per estrarre una particolare quantità di energia da qualsiasi risorsa. Hall ha dimostrato che, mentre consumiamo quantità sempre maggiori di energia, stiamo usando sempre più energia per farlo, lasciando alla fine meno “energia in eccesso” a sostegno dell’attività sociale ed economica.

Ciò crea una dinamica contro-intuitiva – anche quando la produzione sale, la qualità dell’energia che stiamo producendo diminuisce, i suoi costi sono più alti, i profitti del settore sono spremuti e l’eccedenza disponibile a sostenere la continua crescita economica diminuisce. Poiché l’eccesso di energia disponibile per sostenere la crescita economica è spremuto, in termini reali si riduce la capacità biofisica dell’economia di continuare ad acquistare lo stesso petrolio che viene prodotto. La recessione economica (in parte indotta dall’era precedente dei picchi del prezzo del petrolio) interagisce con la mancanza di accessibilità economica del petrolio, portando il prezzo di mercato al collasso.

Ciò a sua volta rende i più dispendiosi progetti del petrolio e del gas non convenzionali, potenzialmente non redditizi, a meno che non si riesca a trovare il modo di coprirne le perdite attraverso sussidi esterni di qualche tipo, come sovvenzioni governative o estese linee di credito. E questa è la differenza fondamentale tra Venezuela e Paesi come Stati Uniti e Canada, dove livelli estremamente bassi di EROI per la produzione sono stati sostenuti in gran parte attraverso massicci prestiti multimiliardari – alimentando un boom energetico che probabilmente arriverà a una fine catastrofica, quando il nodo del debito verrà al pettine.

“Tutto ricorda un po’la Bolla delle dot-com della fine degli anni ’90, quando le società di Internet erano valutate in base alle numero di visualizzazioni che attiravano, non ai profitti che avrebbero potuto realizzare”, ha scritto recentemente Bethany McLean (di nuovo sul New York Times), una giornalista statunitense nota per il suo lavoro sul collasso Enron. “Finché gli investitori erano disposti a credere che i profitti stavano arrivando, tutto ha funzionato, finché non è stato più così”.

Un certo numero di scienziati in precedenza ha stimato che l’EROI della produzione di petrolio pesante ammonta a circa 9:1 (con margini di variazione verso l’alto o verso il basso, a seconda di come vengono contabilizzati e calcolati gli input; l’approccio antiquato, ma probabilmente più accurato, sarebbe verso il basso, più vicino a 6:1 se si considerano sia i costi diretti che quelli indiretti dell’energia). Si confronti ciò con l’EROI di circa 20:1 per il greggio convenzionale prima del 2000, il che dà un’indicazione della sfida che il Venezuela ha dovuto affrontare che, a differenza degli Stati Uniti e del Canada, era emerso nell’era di Chavez da una storia di devastazione neoliberale ed espansione del debito che aveva già concesso ulteriori investimenti o sussidi all’industria petrolifera venezuelana.

Il Venezuela, in questo senso, non era pronto ad adattarsi al crollo dei prezzi del petrolio post 2014, in altre forme di petrolio e gas non convenzionali, rispetto ai suoi concorrenti occidentali più ricchi. A dire il vero, quindi, il collasso dell’industria petrolifera venezuelana non può essere ridotto a fattori geologici, sebbene ci possano essere pochi dubbi sul fatto che tali fattori e le loro ramificazioni economiche tendono a essere sottovalutati nelle spiegazioni convenzionali. I fattori di base erano chiaramente un grosso problema in termini di inadeguatezza cronica degli investimenti e il conseguente degrado delle infrastrutture di produzione. Uno scenario equilibrato deve quindi riconoscere che le vaste riserve del Venezuela sono molto più costose e difficili da immettere sul mercato, rispetto al petrolio convenzionale standard; e che le circostanze economiche molto specifiche del Venezuela, sulla scia di decenni di fallita austerità dell’FMI, hanno messo il Paese in una posizione estremamente debole per mantenere in piedi la baracca del petrolio.

Dal 2008, la produzione di petrolio è diminuita di oltre 350.000 barili al giorno, e di oltre 800.000 al giorno dal suo picco nel 1997. Ciò ha causato, dal 1998, il crollo delle esportazioni nette di oltre 1,1 milioni di barili al giorno. Nel frattempo, per sostenere la raffinazione del petrolio pesante, il Venezuela ha sempre più importato il petrolio leggero da miscelare con il petrolio pesante anche per il consumo interno. Attualmente, solo la produzione di petrolio extra-pesante nella Cintura dell’Orinoco ha avuto incremento, mentre la produzione di petrolio convenzionale continua a diminuire rapidamente. Nonostante le significative riserve convenzionali accertate, queste richiedono comunque tecniche di recupero avanzate più costose e investimenti infrastrutturali non disponibili. Ma i margini di profitto derivanti dalle esportazioni di greggio extra-pesante sono molto più ridotti, a causa dei maggiori costi di miscelazione, riqualificazione e trasporto e delle forti riduzioni di prezzo nei mercati internazionali della raffinazione. In sintesi, il Professor Francisco Monaldi, esperto di industria petrolifera presso il Center for Energy and the Environment dell’IESA in Venezuela, conclude:

“…. la produzione di petrolio in Venezuela è composta da petrolio sempre più pesante e quindi meno redditizio, la produzione gestita dal PDVSA sta declinando più rapidamente e la produzione che genera flusso di denaro è quasi la metà della produzione totale. Queste tendenze sono state abbastanza problematiche al picco dei prezzi del petrolio, ma con la caduta dei prezzi si sono molto più accentuate”.

La follia della crescita infinita

Purtroppo, proprio come i suoi predecessori, Chavez non apprezzava le complessità, per non parlare dell’economia biofisica dell’industria petrolifera. Piuttosto, la considerava in modo semplicistico, attraverso l’ottica del breve termine del suo stesso esperimento ideologico-socialista.

Dal 1998 fino alla sua morte nel 2013, l’applicazione di Chavez di quanto ha definito “socialismo” all’industria petrolifera è riuscita a ridurre la povertà dal 55 al 34 percento, ha aiutato 1,5 milioni di adulti a diventare alfabetizzati e ha portato l’assistenza sanitaria con medici cubani al 70 percento della popolazione. Tutto questo progresso apparente è stato reso possibile dalle entrate petrolifere. Ma era un’illusione insostenibile.

Invece di investire nuovamente le entrate petrolifere nella produzione, Chavez le ha spese per i suoi programmi sociali durante il periodo di massimo splendore dei prezzi del petrolio, senza pensare al settore da cui stava attingendo – e nella convinzione errata che i prezzi sarebbero rimasti alti. Quando i prezzi sono crollati, a causa del passaggio globale al petrolio di difficile [raffinazione] descritto in precedenza, che hanno ridotto le entrate statali del Venezuela (il 96% delle quali proviene dal petrolio), Chavez non aveva riserve valutarie su cui poter contare.

Chavez aveva quindi drasticamente aggravato il lascito dei problemi che gli erano stati addossati. Aveva imitato lo stesso errore fatto dall’Occidente, prima del 2008, perseguendo un percorso di “progresso” basato su un consumo insostenibile di risorse, alimentato dal debito e destinato a crollare.

Così, quando ha esaurito i soldi del petrolio, si è comportato in effetti come hanno fatto i governi in tutto il mondo dopo il crollo finanziario del 2008, attraverso il quantitative easing: ha semplicemente stampato denaro.

L’impatto immediato è stato l’aumento dell’inflazione. Allo stesso tempo ha fissato il tasso di cambio in dollari, ha aumentato il salario minimo, mentre imponeva che i prezzi dei prodotti di base, come il pane, rimanessero bassi. Questo naturalmente ha trasformato le aziende che vendono tali prodotti di base o coinvolte in ogni catena della loro produzione in imprese non redditizie, che non potevano più permettersi di pagare i propri dipendenti a causa di livelli di reddito emorragici. Nel frattempo, ha tagliato i sussidi agli agricoltori e ad altre industrie, imponendo al contempo quote per mantenere la produzione. Invece di produrre il risultato desiderato, molte aziende hanno finito per vendere i loro prodotti sul mercato nero, nel tentativo di realizzare profitto.

Con l’aggravarsi della crisi economica e la diminuzione della produzione petrolifera, Chavez ha riposto le sue speranze sulla potenziale trasformazione che potrebbe essere introdotta da massicci investimenti statali in un nuovo tipo di economia basata su industrie nazionalizzate, autonome o gestite in modo cooperativo. Anche quegli investimenti hanno avuto pochi risultati. La Dott.ssa Asa Cusack, esperta del Venezuela alla London School of Economics, sottolinea che “anche se il numero delle cooperative è cresciuto rapidamente, in pratica esse sono state spesso inefficienti, corrotte, nepotistiche e sfruttatrici come il settore privato che avrebbero dovuto sostituire.”

Nel frattempo, con le riserve valutarie esaurite, il governo ha dovuto ridurre dal 2012 le importazioni di oltre il 65%, riducendo contemporaneamente la spesa sociale a livelli ancora inferiori a quelli previsti dalle riforme di austerità del Fondo Monetario Internazionale negli anni ’90. Il “socialismo” determinato dalla crisi Chavista è iniziato con una spesa sociale insostenibile e ora è passato a livelli catastrofici di austerità che rendono il neoliberismo esitante in apparenza.

In questo contesto, l’ascesa del mercato nero e della criminalità organizzata, sfruttata sia dal governo che dall’opposizione, è diventata uno stile di vita mentre l’economia, la produzione alimentare, l’assistenza sanitaria e le infrastrutture di base sono collassate con spaventosa accelerazione e intensità.

Le incognite del clima

Nel mezzo di questa tempesta perfetta, l’incognita degli impatti climatici ha spinto il Venezuela oltre il limite, accelerando una spirale di crisi già vertiginosa. Nel marzo 2018, a seguito dell’iperinflazione e della recessione, il governo ha imposto il razionamento dell’elettricità in sei Stati occidentali. In uno Stato, San Cristobal, i residenti hanno riferito periodi di 14 ore senza energia elettrica, dopo che i livelli dell’acqua nei serbatoi utilizzati per le centrali idroelettriche si erano ridotti a causa della siccità. Una crisi simile si era scatenata due anni prima, quando i livelli dell’acqua nella diga di Guri, che fornisce ben oltre la metà dell’elettricità del Paese, hanno raggiunto i minimi storici.

Il Venezuela genera circa il 65% della sua energia elettrica da energia idroelettrica, al fine di lasciare più petrolio possibile per l’esportazione. Ma questo ha reso le forniture di elettricità sempre più vulnerabili alle siccità indotte dagli impatti dei cambiamenti climatici.

È risaputo che El Niño-Oscillazione Meridionale, la più grande fluttuazione del sistema climatico terrestre che comprende un ciclo di temperature calde e fredde della superficie marina nell’Oceano Pacifico tropicale, sta aumentando di frequenza e intensità a causa dei cambiamenti climatici. Un nuovo studio sull’impatto dei cambiamenti climatici in Venezuela rileva che tra il 1950 e il 2004, 12 di eventi El Niño su 15 hanno coinciso con anni in cui “il flusso annuale medio” di acqua nel bacino del fiume Caroni, che interessa il bacino idrico di Guri e l’energia idroelettrica, era “più ridotto rispetto al punto medio storico”.

Dal 2013 al 2016, un intenso ciclo El Niño ha fatto sì che ci fosse poca pioggia in Venezuela, culminando in un deficit rovinoso nel 2015. È stata la peggiore siccità in quasi mezzo secolo nel Paese, che ha messo a dura prova la rete energetica del Paese,che è gestita malamente e invecchia, con conseguenti blackout programmati.

Secondo il Professor Juan Carlos Sanchez, co-vincitore del Premio Nobel per la Pace del 2007 per il suo lavoro con il Gruppo