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Il Fascismo e le pensioni agli italiani. La verità storica è più forte delle bufale di Aldo Grasso

di Francesco Severini - 07/11/2018

Il Fascismo e le pensioni agli italiani. La verità storica è più forte delle bufale di Aldo Grasso

Fonte: secolo d'Italia

Sulla prima pagina del Corriere della sera di oggi Aldo Grasso confuta la “bufala” (secondo lui) delle pensioni introdotte dal fascismo in Italia, spiegando ai lettori che tra le “cose positive” che il regime mussoliniano ha introdotto non c’è l’Inps, come alcuni ripetono senza documentarsi a dovere. E scrive che l’Inps nacque invece nel 1898, mentre la pensione sociale arriva solo nel 1969, quando il fascismo era caduto da un pezzo. Una ricostruzione non corretta, fa notare il giornalista e scrittore Gianni Scipione Rossi: “Aldo Grasso – scrive Rossi in una nota su Fb – dimentica la sostanziale differenza tra l’assicurazione pensionistica volontaria per operai e impiegati, nata in Italia nel 1898, e quella obbligatoria, nata nel 1919, dunque prima del governo Mussolini”.
In ogni caso è ingeneroso saltare come fa Grasso dal 1898 al 1969 come se in mezzo nulla fosse avvenuto e come se nessun provvedimento fosse stato adottato in quell’epoca per i lavoratori. Può essere utile allora riportare qui le informazioni contenute nello studio di Stefano Vinci, Il fascismo e la previdenza sociale (Annali della facoltà di Giurisprudenza di Taranto, Cacucci editore, 2011). Vinci cita la legge n. 350 del 17 luglio 1898, che promosse la nascita della Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai, alla quale i cittadini italiani che svolgevano lavori manuali o prestavano servizio ad opera o a giornata potevano iscriversi liberamente e volontariamente. Dà quindi conto del dibattito che si sviluppa agli inizi del ‘900 per “organizzare l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e coordinarla con i servizi di assistenza medica e ospedaliera, di tutela della maternità e con l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e con le esistenti istituzioni di beneficenza e di mutuo soccorso”. Un dibattito dal quale scaturisce la legge 603/1919 che stabilì l’obbligatorietà dell’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia per tutti i lavoratori dipendenti da privati  ed unificò la Cassa nazionale infortuni e la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali nella CNAS (Cassa nazionale per le assicurazioni sociali).
Si giunge quindi all’avvento del fascismo che da subito intende imprimere “una spinta di accelerazione al processo di unificazione degli istituti gestori delle assicurazioni sociali”. Lo stesso Mussolini in un discorso a Torino del 23 ottobre 1932 spiegò che il fascismo nel suo intento di nobilitare il lavoro si era sganciato “dal concetto troppo limitato di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall’assistenza dobbiamo arrivare all’attuazione piena della solidarietà nazionale”.
“Dopo i primi provvedimenti del 1923 – scrive Vinci – con i quali fu stabilito il riordino del Fondo per la disoccupazione involontaria affidato alla CNAS, senza però finanziamenti da parte dello Stato, si assistette nel 1926 ad una forte espansione della «mano pubblica» con l’avvio del monopolio assicurativo attuato attraverso il riordino della Cassa nazionale infortuni (CNI); nel 1927 alla istituzione dell’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi estesa nel 1929 alle malattie per gente di mare; nel 1929 alla previsione dell’assicurazione contro gli infortuni anche per le malattie professionali”.
La Cni venne sostituita nel 1933 dall’Infail  (Istituto nazionale fascista contro gli infortuni sul lavoro) e nello stesso anno viene costituito l’Infps (Istituto nazionale fascista della previdenza sociale). Segue nel 1935 la promulgazione di un testo unico sul Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale  che disciplinò il frammentato sistema previdenziale per l’invalidità e la vecchiaia, la disoccupazione, la tubercolosi e la maternità.  Alcune modifiche al sistema, si legge ancora nello studio,”furono apportate nel 1939, quando fu accolto il principio della reversibilità della pensione ai superstiti, rinviando al ’45 l’erogazione effettiva della prestazione, e fu abbassata l’età del pensionamento a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne, con aggiustamenti nella misura delle prestazioni, adeguate fino al 1943″. In quell’anno si tentò anche di realizzare l’unificazione delle assicurazioni per malattia con l’istituzione dell’Ente Mutualità “che, nei propositi della legge 138/1943 avrebbe dovuto condurre alla completa unificazione degli istituti di assistenza malattia, ma che di fatto non riuscì a realizzare tale intento”.
Un rilievo è d’obbligo: tutti capiscono la differenza tra una Cassa di previdenza cui si aderisce volontariamente e un sistema previdenziale pubblico che comincia di fatto nel 1933 con l’Infps poi divenuto Inps. Ciò non certo per fare apologia delle misure sociali introdotte dal fascismo ma per sottolineare che una bufala è anche raccontare la storia a metà, o manipolarla, o non valutarla con la serena obiettività che dopo 70 anni dovrebbe essere d’obbligo.