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Il medagliere

di Alessandro Casu - 02/03/2022

Fonte: Alessandro Casu

Al netto del profluvio di scemenze e del clima di isteria colletiva ormai instauratosi nel giro di pochi giorni, una cosa sicuramente deprecabile è la volontà di coinvolgere lo sport (e quindi gli sportivi) nello scontro politico-militare in corso, trasformandolo da naturale elemento di unione, in strumento di discriminazione coatta su base nazionale.
Seguendo questo principio (gli atleti con il passaporto del paese aggressore devono subire l'esclusione da tutti i circuiti sportivi internazionali) nell'arco degli ultimi 20 anni non avremmo dovuto assistere alla partecipazione di tutti gli atleti statunitensi e di gran parte di quelli europei [considerati gli interventi militari in Iraq, Libia e Siria, tutti fuori dai dettami del diritto internazionale, la Brown University ha calcolato che in vent'anni di "guerra al terrore" occidentale i morti sono stati 800mila e i conflitti iniziati o partecipati dagli Stati Uniti in otto paesi (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia e Filippine) hanno provocato almeno 37 milioni tra rifugiati e sfollati interni]. Senza contare esempi minori, come per esempio l'ipotetica esclusione degli atleti sauditi in relazione al conflitto in Yemen.