Il mistero dell’atomica di Israele: storia di un’arma mai riconosciuta
di Giacomo Gabellini - 29/06/2025
Fonte: Krisis
Dal deserto del Negev alle stanze segrete di Dimona, passando per Parigi, Washington e Hollywood: la nascita del programma atomico israeliano è una storia di complicità nascoste e ambiguità strategiche. Prima puntata del viaggio di Krisis nella storia dell’unica potenza nucleare non dichiarata del Medio Oriente. Lo Stato ebraico non ha mai aderito al Trattato di non proliferazione nucleare e non ha mai confermato ufficialmente il possesso di armi nucleari. Un segreto geopolitico che resiste da oltre 70 anni.
Ascolta l’articolo, letto da Giulio Bellotto:
Nel corso di un’intervista rilasciata al Corriere della sera il 18 giugno scorso, lo storico israeliano Benny Morris ha difeso l’Operazione Rising Lion sferrata dalle forze israeliane con l’obiettivo dichiarato di smantellare definitivamente il programma nucleare iraniano. A suo avviso, l’Iran non ha titolo per dotarsi dell’arma nucleare in quanto «regime fanatico messianico islamico», a differenza di Israele che è «una società democratica occidentale».
Prescindendo dal merito specifico, le esternazioni formulate da Morris sollevano per l’ennesima volta il velo su una realtà ufficiosa perché mai riconosciuta dalle autorità di Tel Aviv, ma data per assodata ormai da decenni: il possesso dell’arma atomica da parte di Israele. La «gestazione» dell’arsenale nucleare israeliano risale al 1952, quando, ad appena quattro anni di distanza dalla nascita dello Stato ebraico, prese avvio il programma nucleare di Tel Aviv.
1952: inizia il programma nucleare
Il compito di svilupparlo era stato affidato a Ernst David Bergmann, scienziato di fama internazionale formatosi presso l’istituto di chimica organica Emil Fischer di Berlino, dove aveva avuto modo di stringere rapporti con professionisti di settore molto vicini a personalità di spicco come Ernest Rutherford e Marie Curie. Suo padre era uno dei più influenti rabbini di tutta la Germania, nonché amico intimo del biochimico Chaim Weizmann, che qualche decennio dopo sarebbe diventato il primo presidente israeliano.
Albert Einstein, al centro a sinistra, e Chaim Weizmann, al centro a destra, a bordo della SS Rotterdam nel 1921. Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente israeliano, reclutò Bergmann per conto dell'Haganah per la messa a punto di una nuova tipologia di esplosivo. Foto Public Domain.
Albert Einstein, al centro a sinistra, e Chaim Weizmann, al centro a destra, a bordo della SS Rotterdam nel 1921. Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente israeliano, reclutò Bergmann per conto dell’Haganah per la messa a punto di una nuova tipologia di esplosivo. Foto Public Domain.
Stando alle ricerche di alcuni studiosi, fu proprio Weizmann a reclutare Bergmann per conto dell’Haganah. Nel 1936 l’organizzazione paramilitare ebraica operante in Palestina durante il mandato britannico lo aveva incaricato di assoldare uno scienziato in grado di fornire supporto tecnico per mettere a punto una nuova tipologia di esplosivo da impiegare per la guerra contro gli arabi e le forze colonialiste britanniche.
In seguito alla fondazione di Israele, Bergmann fu assunto dal Ministero della Difesa e collocato alla direzione della commissione per l’energia atomica creata per volontà del premier David Ben-Gurion e del suo giovane braccio destro Shimon Peres, dopo che Robert Oppenheimer, John Von Neumann ed altri scienziati connessi al Progetto Manhattan avevano declinato la proposta di dedicarsi alla ricerca in Israele.
All’epoca, Ben-Gurion e Peres erano fermamente convinti che il neonato Stato ebraico non sarebbe riuscito a garantire la propria sicurezza in assenza di un formidabile deterrente strategico. Anche Bergmann ne era fortemente convinto, sostenendo che «lo Stato di Israele ha bisogno di un programma di ricerca per l’autodifesa rivolto a impedire che qualcuno ci trasformi nuovamente in agnelli destinati al mattatoio».
Il gruppo di lavoro guidato da Bergmann, di cui facevano parte luminari della scienza del calibro di Niels Bohr, Amos Deshalit e Aharon Katchalsky, fu incaricato dal Ministero della Difesa di Tel Aviv di avviare le prime prospezioni nel deserto del Negev per verificare l’eventuale presenza di uranio. Riuscirono a reperire solo alcuni minerali che lo contenevano in misura variabile, ma risolsero il problema della scarsità mettendo rapidamente a punto uno speciale procedimento chimico di estrazione.
Produzione di acqua pesante
Concepirono simultaneamente un nuovo metodo di produzione dell’acqua pesante (che funge normalmente da stabilizzatore nei reattori nucleari) traendo ispirazione dall’esperienza pregressa maturata in Francia, che li aveva visti collaborare con personale locale per la costruzione di un reattore e di un impianto di trattamento presso Marcoule.
La cooperazione in materia scientifica e la compartecipazione all’operazione militare lanciata a Suez nel 1956 impressero una svolta decisiva alle relazioni franco-israeliane, dissodando il terreno per un’intesa nucleare segreta sottoscritta l’anno successivo nel cui ambito scienziati francesi operarono fianco a fianco con i loro colleghi israeliani per la realizzazione di un reattore da 24 megawatt in un bunker sotterraneo presso Dimona, nel deserto del Negev.
La struttura, composta da ben sei piani, comprendeva anche un impianto di riprocessamento preposto alla produzione di plutonio a uso bellico. La componentistica necessaria alla costruzione del complesso di Dimona fu reperita da personale francese attraverso specifici canali di contrabbando, mentre i funzionari israeliani siglarono un accordo sottobanco con il governo norvegese per l’acquisto di una ventina di tonnellate di acqua pesante utili a raffreddare il reattore, sempre al fine di mantenere l’intero programma nucleare israeliano avvolto in una coltre di mistero.
Ernst David Bergmann, primo presidente della Commissione israeliana per l'energia atomica, parla all'inaugurazione della mostra «Atomi per la pace», presentata in Israele nel 1956. Foto Public Domain.
Ernst David Bergmann, primo presidente della Commissione israeliana per l’energia atomica, parla all’inaugurazione della mostra «Atomi per la pace», presentata in Israele nel 1956. Foto Public Domain.
La segretezza rappresentava un punto fondamentale dell’accordo di collaborazione franco-israeliano, al punto da indurre le autorità di Tel Aviv a incaricare (1957) il funzionario dello Shin Bet Benjamin Blumberg di creare una sezione dei servizi di intelligence apposita. Nacque così il Lekem, un «ufficio per le relazioni scientifiche» preposto all’acquisizione delle tecnologie e dei materiali necessari a fabbricare armi atomiche.
Società milanese di facciata
L’organismo si attenne scrupolosamente al proprio mandato, dapprima ottenendo circa 200 tonnellate di ossido di uranio di origine congolese acquistate in Belgio da una società milanese di facciata, e successivamente sottraendo 266 kg di uranio altamente arricchito (sufficiente a fabbricare 11 ordigni nucleari) dai depositi della Numec. Vale a dire una compagnia statunitense riconducibile a Zalman Shapiro, un chimico ebreo dell’Ohio collocato su posizioni ardentemente sioniste che aveva fornito un contributo cruciale allo sviluppo del primo sottomarino a propulsione nucleare (lo Uss Nautilus).
La Numec fu sottoposta a una serie di indagini dell’Fbi per via dei numerosi ospiti francesi e soprattutto israeliani – tra cui il futuro direttore del Lekem Rafi Eitan e il futuro direttore dello Shin Bet Avraham Bendor – che giungevano a visitarne gli stabilimenti. Il Lekem svolse un ruolo cruciale nel mantenere la classe dirigente di Tel Aviv allineata alla direttiva politica originaria, consistente nell’occultamento sistematico delle ambizioni nucleari israeliane.
I documenti desecretati finora suggeriscono che gli Stati Uniti non avevano accesso al contenuto preciso dell’accordo franco-israeliano. Un rapporto della Cia datato 8 dicembre 1960 afferma che «Israele è impegnato nella costruzione di un complesso di reattori nucleari nel Negev, vicino a Beersheba», ma evidenzia che «esistono diverse interpretazioni circa la funzione di questo complesso, tra cui la ricerca, la produzione di plutonio o di energia elettrica o combinazioni di queste». Eppure, «sulla base di tutte le prove disponibili» si può concludere che «la produzione di plutonio a fini bellici rappresenta almeno uno degli obiettivi principali di questo sforzo».
Da un altro documento recentemente declassificato, datato 2 dicembre 1960 e redatto dal Comitato congiunto di intelligence per l’energia atomica, si evince tuttavia che i funzionari statunitensi avessero maturato una consapevolezza più profonda. Davano praticamente per assodato che a Dimona fosse stato costruito «un impianto di separazione del plutonio» accanto a «un grande reattore». Secondo le stime formulate alla fine del 1960 dall’intelligence statunitense, le due componenti necessarie all’allestimento di un arsenale atomico erano insomma già nella disponibilità di Israele.
Fotografia del cantiere vicino a Dinoma, nel deserto del Negev, per l'allora segreto reattore nucleare israeliano, scattata nel 1960 e conservata negli archivi del Dipartimento di Stato presso gli Archivi nazionali. Foto Public Domain.
Fotografia del cantiere vicino a Dinoma, nel deserto del Negev, per l’allora segreto reattore nucleare israeliano, scattata nel 1960 e conservata negli archivi del Dipartimento di Stato presso gli Archivi nazionali. Foto Public Domain.
Aut aut di De Gaulle
A quel punto, il presidente Charles de Gaulle, all’epoca impegnato nel delicatissimo processo di decolonizzazione poi culminato con l’indipendenza all’Algeria, intimò al primo ministro David Ben Gurion di rivelare pubblicamente l’esistenza del programma nucleare israeliano, pena la sospensione delle forniture del materiale necessario per completare la costruzione del reattore di Dimona e di un impianto di rigenerazione. Ne scaturì una soluzione di compromesso, in base alla quale la Francia accettava di onorare regolarmente i suoi obblighi, mentre Israele si impegnava sia a rivelare urbi et orbi i dettagli relativi al proprio programma nucleare, sia ad arricchire l’uranio a scopi strettamente civili.
Così, in risposta elle pressioni esercitate dagli Stati Uniti che chiedevano conto dell’imponente dispiegamento di mezzi quali escavatori, trivelle e autotreni nel bel mezzo del Negev fotografato da un U-2 statunitense durante una serie di ricognizioni, Ben Gurion dichiarò alla Knesset che si trattava di lavori finalizzati alla costruzione di «un reattore per la ricerca […] che servirà le esigenze dell’industria, dell’agricoltura, della sanità e della scienza». Nel suo discorso, il primo ministro israeliano omise accuratamente di menzionare il decisivo supporto francese, accrescendo i sospetti delle autorità di Washington che da tempo lamentavano la reticenza israeliana.
Di conseguenza, Douglas Dillon, sottosegretario di Stato sotto l’amministrazione Eisenhower, trasmise all’ambasciata statunitense di Tel Aviv un elenco di domande specifiche da porre al premier Ben Gurion e al suo ministro degli Esteri Golda Meir riguardo al funzionamento dell’impianto di Dimona, alle relative misure di sicurezza e alla disponibilità del governo ad accettare ispezioni a opera di «scienziati qualificati dell’Aiea o di altri Paesi amici».
Braccio di ferro Tel Aviv/Washington
Conformemente alle indicazioni ricevute, l’ambasciatore Reid incalzò Ben Gurion, che trovandosi con le spalle al muro tuonò: «Non siamo un satellite dell’America… e non lo saremo mai!». Subito dopo, il primo ministro stigmatizzò la decisione statunitense di sollevare pubblicamente la questione del programma nucleare israeliano, destinata a suo avviso a «deteriorare l’atmosfera in Medio Oriente» in un contesto in cui «se il presidente Nasser vince, ogni ebreo di questo Paese verrà sterminato».
L’estenuante braccio di ferro si risolse con un’intesa in base alla quale Israele accettava di sottoporre l’impianto di Dimona a ispezioni, a condizione che i contestuali controlli venissero affidati solo ed esclusivamente a personale statunitense. L’accordo favorì la successiva sottoscrizione del programma congiunto a scopi civili denominato Atoms for Peace, nel cui ambito l’amministrazione Eisenhower fornì supporto tecnico agli specialisti israeliani per la costruzione di un mini-reattore per la ricerca presso Nahal Soreq, a Sud di Tel Aviv.
Nell’arco di sette anni (1962-1969), gli osservatori statunitensi, tra i più autorevoli esperti in materia a livello mondiale, non si accorsero o finsero di non accorgersi che i siti sottoposti alle loro ispezioni non facevano parte della struttura di Dimona. Erano invece locali dotati di false strumentazioni, allestiti con lo scopo specifico di simulare i processi tipici del nucleare civile e indurre le autorità statunitensi a certificare ufficialmente che l’impianto di Dimona serviva solo ed esclusivamente a scopi pacifici.
Il Centro di ricerca nucleare di Dimona nel 1963. Foto di Willem van de Poll. Foto Public Domain.
Il Centro di ricerca nucleare di Dimona nel 1963. Foto di Willem van de Poll. Foto Public Domain.
La messinscena non si rivelò tuttavia sufficiente a ingannare il presidente John Fitzgerald Kennedy. Quest’ultimo, consapevole che le autorità israeliane – Shimon Peres in primis – stavano nascondendo la reale natura del programma nucleare, informò Ben Gurion del fatto che la Cia aveva scoperto un accordo segreto da 100 milioni di dollari siglato tra Tel Aviv e l’azienda aeronatica francese Dassault per la costruzione di 25 missili a media gittata Jericho-1, in grado di trasportare testate nucleari miniaturizzate a 500 km di distanza.
Dottrina dell’«utile ambiguità»
Posto di fronte all’evidenza, Ben Gurion assunse posizioni ancor più equivoche, conformemente alla dottrina della «utile ambiguità», che consisteva nel non confermare né smentire l’esistenza dell’arsenale nucleare israeliano. Un concetto sintetizzato nella celebre formula coniata da Shimon Peres – e sistematicamente utilizzata da tutti i successivi governi israeliani – per rispondere a Kennedy: «Non saremo i primi a introdurre armi atomiche in Medio Oriente».
Sul piano operativo, le autorità israeliane cercarono di convincere Kennedy ad autorizzare Israele a dotarsi della bomba atomica sulla base di ragioni legate alla difesa del Paese da aggressioni straniere. «Signor presidente, il mio popolo ha il diritto di esistere e questa esistenza è in pericolo» scrisse Ben Gurion in una nota diretta a Kennedy.
Il presidente Usa rimase tuttavia sulla linea della fermezza, spingendosi per un verso a rifiutare la proposta di Ben Gurion di sottoscrivere un trattato di sicurezza con Israele. Per l’altro verso, invitò nella sua tenuta in Florida il ministro degli Esteri Golda Meir in un’ottica di delegittimazione del premier, al quale la Meir era legata da un rapporto altamente conflittuale di cui Kennedy era perfettamente al corrente.
Unitamente a Pinchas Sapir, Golda Meir rappresentava la capofila della fronda interna al partito Mapai – lo stesso di Ben Gurion – collocata su posizioni di ostilità nei confronti del programma nucleare israeliano, considerato il principale fattore d’intralcio nei cruciali rapporti con gli Stati Uniti. È a lei, e non a Ben Gurion, che Kennedy confidò: «Gli Stati Uniti hanno in Medio Oriente una relazione speciale con Israele, paragonabile soltanto a quella intrattenuta con la Gran Bretagna in un ampio ambito di questioni internazionali […]. Penso sia chiaro che, nell’eventualità di una invasione, gli Usa interverrebbero in aiuto di Israele. Ne abbiamo le capacità e le stiamo potenziando».
Si trattava di un’assicurazione che le autorità di Tel Aviv non erano mai riuscite ad ottenere da Eisenhower, e destinata per di più ad acquisire immediata concretezza a seguito del via libera accordato dallo stesso Kennedy alla fornitura a Israele dei missili terra-aria Hawk. Il successo diplomatico capitalizzato da Golda Meir spinse nell’angolo il primo ministro Ben-Gurion, inducendolo a ritirarsi a vita privata.
Manovre del futuro impresario di Hollywood
Nello stesso periodo, Shimon Peres segnalò a Benjamin Blumberg, direttore del Lekem, un giovane rampante di nome Arnon Milchan, il titolare di una piccola impresa specializzata in prodotti chimici che sarebbe divenuto successivamente un famoso produttore di Hollywood. Milchan accettò subito di entrare a far parte del Lekem, per conto del quale mise in piedi una fitta rete di società di copertura attraverso cui furono trafugati svariati progetti delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio dal consorzio europeo Urenco (la stessa cosa che avrebbe fatto, anni dopo, lo scienziato Abdul Qadeer Khan, padre dell’atomica pakistana).
Questo primo impotente successo consentì a Milchan di accreditarsi a intermediario per la vendita di armi a Tsahal, nonché di ottenere lucrose commissioni su conti stranieri che sarebbero state messe quasi subito a disposizione sia del Lekem sia del Mossad. Una volta indossate le vesti di stimato businessman, Milchan ebbe modo di stringere un’alleanza strategica con Richard Kelly Smyth, vicepresidente della società Rockwell (poi confluita nella Boeing), che pose le basi per la fondazione della Milco, una società con sede in California incaricata di acquistare tecnologie da inviare in Israele.
John F. Kennedy era un membro del Congresso quando incontrò per la prima volta il Primo ministro David Ben-Gurion nel 1951. Preoccupato per il potenziale delle armi nucleari, John F. Kennedy spinse per l'ispezione degli impianti nucleari israeliani. Immagine tratta da Geopolitiek in Perspectief. Foto Public Domain.
John F. Kennedy era un membro del Congresso quando incontrò per la prima volta il Primo ministro David Ben-Gurion nel 1951. Preoccupato per il potenziale delle armi nucleari, John F. Kennedy spinse per l’ispezione degli impianti nucleari israeliani. Immagine tratta da Geopolitiek in Perspectief. Foto Public Domain.
La Milco divenne istantaneamente uno dei principali fornitori della Heli Trading, principale compagnia di copertura del Lekem. La penetrazione della Milco nei settori nevralgici dell’industria bellica Usa e nei grandi centri di ricerca militare disseminati in tutto l’Occidente consentì al Lekem di acquisire tecnologie fondamentali per il programma nucleare e missilistico israeliano, tra cui il progetto originale del missile Pershing-2, la cui testata sarebbe stata riprodotta e sviluppata per le versioni più avanzate del missile Jericho.
Parallelamente, il Lekem ebbe modo di acquisire, tramite una società di copertura, una cospicua partita di ossido di uranio (conosciuto come yellowcake) presso la città portuale belga di Anversa, facendo risultare la vendita come una normale transazione tra Italia e Germania. Lo yellowcake fu stipato in contenitori recanti l’etichetta plumbat (un innocuo derivato del piombo) e imbarcato su una nave presa a noleggio da una società liberiana di facciata.
Ossido di uranio dall’Argentina
Secondo alcuni documenti declassificati statunitensi e britannici, in quel periodo (prima metà degli anni Sessanta) Israele avrebbe inoltre ottenuto un secondo carico di ossido di uranio dall’Argentina, nonché istituito un fruttuoso rapporto di collaborazione con Nyman Levin, un brillante fisico ebreo che si era imposto come responsabile di altissimo livello del programma nucleare britannico e che godeva di solidi agganci presso la comunità scientifica che aveva lavorato al Progetto Manhattan.
Stando alla dettagliata ricostruzione di Haaretz, Levin avrebbe passato a Israele una ragguardevole mole di informazioni sensibili circa le tecnologie sviluppate dalla Gran Bretagna e dagli Usa in campo nucleare a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, riuscendo a eludere la sorveglianza degli investigatori dell’Mi5 preoccupati di evitare che si ripetesse un caso analogo a quello di Klaus Fuchs, il dotatissimo fisico teorico tedesco naturalizzato inglese arrestato nel 1950 per aver passato dati cruciali riguardanti il nucleare britannico e statunitense (Fuchs aveva preso parte al Progetto Manhattan) all’Unione Sovietica.
Da alcune piste investigative sono inoltre emerse prove relative a un possibile coinvolgimento in attività spionistiche a favore di Israele di altre grandi personalità della comunità scientifica internazionale. Spicca in particolare il nome del fisico teorico ungherese naturalizzato statunitense Edward Teller, il principale artefice della bomba all’idrogeno che aveva una concezione politica oltranzista e favorevole allo Stato ebraico, nonché dotato di contatti diretti con l’influente scienziato israeliano Yuval Ne’eman – che in seguito avrebbe fondato il partito Tehiya.
Grazie ai suoi ricorrenti viaggi a Tel Aviv, dove risiedeva la sorella, e ai suoi altolocati contatti negli ambienti scientifici e militari israeliani, Teller fu in grado di prevedere già verso la metà degli anni Sessanta che l’arsenale atomico israeliano era ormai un dato di fatto con cui gli Usa avrebbero dovuto fare i conti. Lo confidò al vicedirettore del Dipartimento di Scienza e tecnologia Usa Carl Duckett, il quale dichiarò di averlo visto molto preoccupato per i passi da gigante compiuti dallo Stato ebraico in ambito nucleare.
Osservazione che contrasta palesemente con quanto asserito dallo stesso Ne’eman, secondo cui Teller aveva fornito un contributo tanto entusiastico quanto sostanziale a convincere le autorità Israeliane a non aderire al Trattato di Non Proliferazione nucleare. Il comportamento adottato da Teller in quelle fasi cruciali è ancora fonte di forti sospetti circa la sua lealtà agli Stati Uniti.