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Il nulla e l’Islam

di Claudio Chianese - 14/05/2020

Il nulla e l’Islam

Fonte: L'intellettuale dissidente

Poitiers, Lepanto, Vienna: le battaglie che di norma si evocano come emblema dello scontro di civiltà perpetuo fra Occidente cristiano e Oriente islamico. Tutto sbagliato. Perché uno dei contendenti, l’Europa cristiana di Carlo Martello e Giovanni Sobieski, non è solo storicamente scomparso, ma è anche divenuto impensabile: e, se esistesse ancora, assomiglierebbe più a loro che a noi. C’è, invece, un altro luogo che esemplifica il conflitto attuale: Masada. Nell’anno 73 i Vangeli non sono ancora stati scritti, Maometto abita cinque secoli nel futuro, e un gruppo di ribelli giudei, i sicarii, è asserragliato senza speranza, con mogli e bambini, nella fortezza di Masada. Pur di non cadere prigionieri degli assedianti romani, gli ebrei decidono di uccidere i propri familiari e se stessi – tralasciamo, per amor di brevità, le controversie storiografiche in merito, e prendiamo per buono il resoconto di Giuseppe Flavio: 

Eleazar […] raccolse i più animosi fra i suoi uomini e prese a spronarli con tali parole: “Da gran tempo noi avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori di Dio, perché egli solo è il vero e giusto signore degli uomini; ed ecco che ora è arrivato il momento di confermare con i fatti quei propositi. […]” Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari.

Nella vicenda non compaiono né cristiani né musulmani, eppure il paragone è suggestivo: da una parte c’è l’impero più potente del mondo, tollerante per indifferenza e brutale quando serve, fondato tanto sulla sovranità della legge quanto sul saccheggio sistematico; dall’altra pochi fanatici, terroristi, che oppongono all’invincibilità romana sul piano materiale una risposta trascendente, e quindi assurda – Giuseppe descrive poco dopo l’incredulità dei legionari di fronte alla strage. Questo stupore attraversa la storia, ed emerge ogni volta che un occidentale si trova davanti l’Islam nelle sue declinazioni più radicali.

Alessandro Sallusti lo dichiara esplicitamente, nel suo commento alla conversione di Silvia Romano: “non capisco, non capirò mai” – parole sue. Sgombriamo, innanzitutto, il campo da un equivoco: noi non sappiamo se Silvia Romano si sia convertita liberamente o per forza e, in un certo senso, non può saperlo nemmeno lei. La domanda è ingenua, perché libertà e coercizione non si separano col coltello. Un principio che, ad esempio, la Consulta abbracciava l’anno scorso, sentenziando che la prostituzione non è mai un atto davvero libero: se il diritto positivo ha provato a stabilire, di solito fallendo, fattispecie di plagio e manipolazione psicologica, non c’è comunque modo di quantificare l’enorme potere coercitivo esercitato da pressioni sociali, egemonie culturali, influenze mediatiche. Se Aisha è stata costretta a convertirsi all’Islam dall’esperienza vissuta in Somalia, allo stesso modo Silvia è stata costretta dalle esperienze precedenti al ruolo di ragazza occidentale: un discorso di lana caprina, e per giunta irrispettoso – perché quanto al “guazzabuglio del cuore umano” si possono scrivere romanzi, non certo articoli di opinione politica. 

Ribadire che Sallusti, Sgarbi e affini non sanno o rifiutano di sapere quanto sia complesso l’Islam è ormai un’ovvietà, inutile al dibattito: del resto, potremmo dire lo stesso dei militanti di Daesh o Al Shabaab – rozzi legulei del Corano nemmeno lontani parenti di Mawlana Rumi o Averroè. L’errore di Sallusti, e di tutti gli indignati scopertisi improvvisamente cavalieri crociati, è piuttosto un errore di categoria: la scelta fra le due alternative – fumose, imprecise, approssimative, ma comunque identificabili – che sono Occidente e Islam non è una scelta simmetrica. Semplicemente, perché l’Occidente è un sistema socioculturale e l’Islam è una religione. Altre sono le conversioni simmetriche: il feldmaresciallo Paulus che, tanto per restare nell’ambito evocato da Sallusti, durante la prigionia da nazista diventa filo-sovietico; Vitichindo che, pur costretto dalla spada di Carlomagno, riceve il battesimo. Per la cooperante italiana, invece, l’Islam riempie un vuoto, riguarda la dimensione del sacro che l’Occidente ha prima direttamente combattuto, e infine dimenticato. I segni esteriori – il velo invece dei capelli sciolti, Aisha invece di Silvia – fanno scalpore ma sono inessenziali, e fanno scalpore proprio perché la conversione come evento trascendente, incontro personale con Dio piuttosto che fenomeno sociale, non riusciamo nemmeno a immaginarla. 

Proprio qui si realizza la frattura fra il pensiero di destra e una destra che pensa sempre meno. Delle reazioni che provengono dalle aree progressiste, intendiamoci, non serve parlare: parafrasando Montale, sono sicuramente inutili ma probabilmente innocue – la coppa della sgradevolezza la vince Mentana col suo pasticcio su Hitler cattolico. Che una certa sinistra non afferri il nucleo della questione è ovvio: se, invece, a partire per la tangente è pressoché tutta la destra italiana – con la nobile eccezione di Storace – bisogna farsi qualche domanda. E sono, in fondo, vecchie domande, quelle di Nietzsche: perché, di fronte all’annuncio epocale della morte di Dio, nessuno sembra preoccuparsi? L’Occidente è scristianizzato, e si è scristianizzato da solo – si è convertito al nulla, non all’Islam, e tutte le volte che l’Islam avanza in Occidente sta conquistando trincee già abbandonate: ma la destra non se n’è accorta. Salvini, Meloni, agitano un cattolicesimo kitsch fatto di agnelli pasquali e preghierine, più simile a una tradizione di famiglia che a una fede; Adinolfi, pietra di paragone del politico cattolico moderno, dal basso del suo zero virgola sbraita contro i gay, chiede soldi per le casalinghe con figli e ogni tanto mena qualche fendente alla legge 194. Campanilismo da pranzo della domenica oppure grottesco natalismo: c’è una sottospecie di dottrina sociale, non c’è Dio. Solo che in un mondo senza Dio né il crocifisso in aula, né l’opposizione all’aborto possono avere senso. 

Allo stesso modo, senza Allah il velo di Silvia Romano sarebbe al meglio un vestito di carnevale, al peggio una divisa da terrorista: ci manca, come occidentali, un pezzo della storia, il pezzo centrale. Perciò Sallusti non capisce. Ha capito, invece, Benedetto XVI, che da due decenni denuncia il nichilismo dell’Occidente. Sottomissione, il romanzo, viene sovente citato come profezia che annuncia il pericolo islamico, ma Houellebecq è al suo meglio non mentre delinea la banale ucronia, ma proprio quando descrive il vuoto di senso dei personaggi occidentali, le relazioni senza sentimento e le vite senza ragione:  

Per l’uomo, l’amore non è altro che gratitudine per il piacere dato, e nessuno mi aveva mai dato tanto piacere quanto Myriam. […] Ogni suo pompino avrebbe potuto giustificare in sé la vita di un uomo. […] avevo un po’ di voglia di scopare ma al tempo stesso anche un po’ di voglia di morire, insomma non avevo le idee molto chiare, cominciavo a sentir montare una leggera nausea.

Lo stupore di Sallusti andrebbe ribaltato: è perfettamente comprensibile che Silvia Romano sia diventata musulmana, quello che non si capisce è perché tutti gli altri non si convertano al Cristianesimo, all’Islam, alle religioni orientali, allo spiritismo – insomma qualsiasi cosa, discutibile, ridicola o persino pericolosa, offra una via d’uscita da questo nulla, dalla nausea. L’Occidente contemporaneo è la prima civiltà nella storia a risolversi del tutto in quella che Soren Kierkegaard chiama vita estetica: un sontuoso macchinario di scena che esiste solo per distrarre gli spettatori dall’angoscia. Ma, avverte il teologo danese, chi rifiuta l’infinito è destinato alla disperazione di fronte al dolore e alla morte: “essi si attaccano a questa vita di nulla, diventano un nulla”. Nell’inganno generale anche le destre più identitarie hanno il loro teatrino: quello in cui danzano gli scheletri di Poitiers, Lepanto e Vienna, mentre l’impero è “alla fine della decadenza” da un pezzo.

La battaglia di Lepanto, Giorgio Vasari

La nostra Silvia non è più nostra, quindi. Rimane un enigma perché, da una parte all’altra dello spettro politico, continuiamo a farci le domande sbagliate sull’Islam e sull’Occidente. Rimane un enigma perché dal nuovo nome, Aisha, emerge quell’identità spirituale che non pensiamo riguardi i giovani occidentali. Che servirà mai, a una bella ragazza laureata con una carriera davanti, credere in qualcosa? A destra non capiscono e berciano, a sinistra non capiscono e però festeggiano: nessuna differenza, se non di galateo. Nel mezzo delle batracomiomachie sulle unioni civili e l’interruzione di gravidanza non sembra ci sia tempo per leggere chi racconta la catastrofe: Spengler, Heidegger, Guénon. Soprattutto René Guénon, che si converte all’Islam e diventa Abdel Wahed Yahia – tutt’altra vicenda, sul piano intellettuale, rispetto a quella di Silvia Romano, ma, forse, la stessa storia dello spirito:

Va anzitutto osservato che il disprezzo e la repulsione che gli altri popoli – gli Orientali soprattutto – provano nei confronti degli Occidentali, provengono in gran parte dal fatto che questi ultimi gli appaiono in genere uomini senza tradizione, senza religione, ciò che ai loro occhi è una vera e propria mostruosità. […] Di fatto, si considera ora la religione un semplice fenomeno sociale; […] coloro stessi che credono di essere sinceramente religiosi non hanno per lo più, della religione, che un’idea assai indebolita […]. Praticamente, credenti e non credenti si comportano pressappoco nella stessa maniera.