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Il passato ha un futuro?

di Roberto Pecchioli - 23/12/2025

Il passato ha un futuro?

Fonte: Ereticamente

Navigare in rete produce inquietudine. Interessati a conoscere qualche rudimento di fisica quantistica, ci siamo imbattuti nelle ricerche di scienziati convinti che passato, presente e futuro non sono entità separate e assolute, ma parti di un’unica struttura, lo spazio-tempo. Senza comprendere il ragionamento controintuitivo della fisica non newtoniana, carichi di dubbi ci siamo rifugiati in territori più rassicuranti. Una ricerca di tutt’altra natura ci ha convinti che buona parte della cultura contemporanea sia in realtà ignoranza specializzata. Nel senso che tende a non conoscere affatto tutto ciò che eccede l’ambito ristretto che studia. Due economisti della Norwegian School of Economics hanno condotto una ricerca tesa a spiegare alcuni comportamenti umani. La sinossi – oggi si chiama abstract – così recita: “La nostra ricerca rivela che le persone sono disposte a imbrogliare se ciò apporta un vantaggio al loro gruppo, anche quando non ne traggono alcun vantaggio personale. La conclusione fondamentale è che il rischio di disonestà nelle organizzazioni non si limita agli atti egoistici dei singoli individui. Esiste un potenziale rischio nascosto nella disonestà a beneficio degli altri, in cui le persone possono infrangere le norme per avvantaggiare la loro equipe o i membri del gruppo”.
Ci stupiamo dello stupore e del sussiegoso tono oracolare dei ricercatori dinanzi a un’ovvietà nota a chiunque abbia esperienza di vita e un minimo di studi. Le istituzioni accademiche spendono denaro e intelligenza (??) per spiegare comportamenti conosciuti da sempre dalla cultura classica. Scriveva Euripide, gigante della tragedia greca, né Le Fenicie: “Devo aiutare i miei amici e odiare i miei nemici: questa è la legge per tutti gli abitanti della terra”. Il verso più citato dell’opera è “se è necessario agire ingiustamente, la cosa migliore è farlo per il potere”. Le scienze tristi del presente, il loro angusto concentrarsi sull’analisi dei dettagli e non sull’insieme delle condotte e dei moventi umani, dimostrano clamorosa chiusura culturale, celebrando come scoperta di arcani meccanismi psicologici ciò che la tragedia greca – immenso laboratorio di miti fondanti che esplorano i grandi temi esistenziali – aveva chiarito venticinque secoli or sono.
La conseguenza è il sistematico oblio della tradizione culturale che trasforma l’ovvio in novità e lo spreco intellettuale in virtù scientifica. La tragedia greca aveva già mostrato, con maggiore profondità e verità, quella che ai sapientoni odierni sembra una scoperta inedita. Però bisogna conoscerla. Ignorare ciò che è accaduto prima che nascessimo significa rimanere bambini per sempre, afferma Cicerone nel De Oratore. L’intera cultura della cancellazione è servita. Naturalmente, anche trascurare le scoperte scientifiche rende ignoranti, come chi scrive dinanzi alle apparenti incongruenze della fisica. Ecco perché, quando si tratta di comportamento della creatura umana, dovremmo ascoltare solo scienziati umanisti o umanisti illuminati. Perché accettiamo, sull’altare del presente e della mitologia del progresso, lo spreco di ignorare la ricchezza di millenni in cui l’umanità, con gli strumenti della filosofia e dell’arte, ha riflettuto su sé stessa? Quanto sarebbero più sapienti i cosiddetti scienziati se, prima di praticare la loro materia d’elezione, conoscessero la tragedia greca, il grande teatro da Shakespeare a Lope de Vega e Schiller, Corneille, e poi Aristotele, i filosofi, giganti come Dante, Cervantes, Dostoevskij, Goethe? Alasdair MacIntyre ammoniva in Dopo la virtù che senza il patrimonio culturale accumulato, tutto ciò che rimane è un groviglio di frammenti morali sconnessi. La forza del nichilismo deriva anche da questo caos senza radici, unica eredità della postmodernità scientista. È esattamente ciò che stiamo vivendo: una società che, nel suo tentativo di cancellare il passato, si ritrova disorientata, ovvero senza direzione. Lo conferma un testo del politologo americano Robert Putnam, Bowling Alone, in italiano Capitale sociale e individualismo. Al centro dell’analisi, quella formidabile risorsa coesiva che è il capitale sociale, di cui sono parte essenziale, con la cultura “alta”, le pratiche comunitarie ereditate. Più esse si erodono più diventiamo isolati ed inclini alla sofferenza psicologica. Ciò che si perde non sono solo la comunità e la prossimità, ma il tessuto connettivo, le ancore di significato, la capacità di credere in ciò che siamo, sostegno dell’orgoglio di appartenenza che permette di avere fiducia nel futuro. Il costo del disprezzo per la tradizione è un’atomizzazione ansiogena e depressiva; chiunque voglia comprendere la crisi della salute psicologica e l’eclissi della conoscenza deve prenderne atto. Rispetto a tutto ciò, lo sforzo inutile degli scienziati sociali norvegesi, degli scientisti e dei tecnofili che scoprono l’acqua calda sembra quasi ingenuo.
Il problema non è solo ciò che accade nel mondo accademico, quanto piuttosto la negazione programmatica (un risibile suprematismo del presente) del corpus di conoscenze esistente, stratificato, che crea più problemi di quanti ne risolva. Da un punto di vista puramente intellettuale, l’idea di ripartire da zero somiglia a una boutade, una battuta scherzosa, ma chi lo fa esercita potere e spesso è consulente privilegiato del potere. Siamo nelle mani di queste persone e di responsabili politici che non sanno quasi nulla. Il livello delle classi dirigenti è ormai clamorosamente basso: chi avrebbe mai pensato di affidare delicatissimi ruoli internazionali a personaggi come Kaja Kallas, l’amazzone guerrafondaia estone?  Il filologo classico Werner Jaeger scrisse che “la cultura non consiste in ciò che viene aggiunto all’essere umano dall’esterno, ma in ciò che risveglia in lui le qualità più elevate e nobili”. La tradizione, in questo senso, non è né un peso né una reliquia, ma il risveglio al reale e allo straordinario.
Viviamo in un’epoca che confonde la tradizione con la superstizione, il passato con un cadavere e l’eredità con un peso. Ne approfittano gli ignoranti e gli opportunisti. La storia è una bufala, dice Mustapha Mond, uno dei Controllori del Mondo nel romanzo distopico Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Quella sciocchezza è diventata senso comune.  Anche il cinema ha talvolta intuito l’importanza di costruire il futuro sulle fondamenta di ciò che si conosce. In Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, la vita e la cultura di un affermato regista cinematografico non raggiunge la pienezza finché non riconcilia il presente con il cinemino fatiscente di paese in cui si è formato.  La bobina di scene censurate che il proiezionista Alfredo – l’amico adulto, mentore della sua infanzia – gli lascia in eredità è molto più di un cimelio impolverato: è un legato interiore. Ciò che si è stati diventa il trampolino per ciò che si può diventare.
Nessuna tecnologia renderà l’Intelligenza Artificiale un successo in termini culturali: dovremo continuare a frequentare il passato. Lo stesso capita nella musica; nell’album Time Out of Mind Bob Dylan confessò di aver cercato di sfuggire al proprio passato, sapendo che è impossibile. L’ unica opzione seria è riconciliarsi con il vissuto personale e collettivo. Una lezione per il culto acritico del progresso fondato su una superiorità indimostrata. Il progresso è una bandiera brandita spesso da miserabili, Non esiste alternativa ragionevole ad avanzare mantenendo ciò che è stato acquisito. L’amore per il passato non ha nulla a che fare con un orientamento politico reazionario, afferma Simone Weil. Secondo il suo amico Gustave Thibon, il filosofo contadino, il vero tradizionalista sa bene che la tradizione non esclude la libertà creativa: la nutre di tutta l’esperienza del passato e dell’eterno e la guida verso la perfezione. La tradizione deve essere vagliata, depurata, esaminata con sguardo critico. Ma da quando la Stella Polare imprigiona i viaggiatori? (G. Thibon). Rifiutare il passato in blocco è infantile e irresponsabile; è pensare di poter nascere ogni giorno senza debiti o eredità come monadi alla deriva. Non c’è nulla di più ingenuo e pericoloso di questa pretesa di tabula rasa: quando il passato viene spazzato via, ciò che emerge non è un mondo felice, ma la tossica ripetizione di errori mascherati da novità.
Chiedersi se il passato abbia un futuro non è un esercizio retorico; è un imperativo di civiltà. È la domanda che decide se saremo eredi o orfani.  Il passato ci nobilita se lo trattiamo come un fiume che va lasciato scorrere incontaminato affinché possa sostenerci verso il futuro. Ancora Simone Weil “Sarebbe inutile voltare le spalle al passato e pensare solo al futuro. Credere che questo sia anche solo una possibilità costruisce un’illusione pericolosa. L’opposizione tra futuro e passato è assurda. Il futuro non ci offre nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto, dargli la nostra stessa vita. Ma per dare, bisogna possedere, e non abbiamo altra vita, altra linfa vitale, se non i tesori ereditati dal passato, e da noi digeriti, assimilati e ricreati. Di tutti i bisogni dell’anima umana, nessuno è più vitale del passato”.