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Il pensiero forte salvato dalle donne

di Marcello Veneziani - 08/01/2021

Il pensiero forte salvato dalle donne

Fonte: Marcello Veneziani

“Le donne non hanno esistenza né essenza, esse non sono, esse sono nulla”. Con questo inesorabile viatico di Otto Weininger, il pensatore ebreo suicidatosi a ventitré anni nel 1903, ebbe inizio il ventesimo secolo. Erano parole tratte da Sesso e carattere, un’opera che ebbe gran successo, svariate ristampe e traduzioni, fra cui una in Italia a cura di Julius Evola. Figlia di Bachofen e di Schopenhauer, una letteratura ampia e misogina si scatenò nella cultura mitteleuropea del primo ‘900, in concomitanza coi primi segnali di femminismo e di emancipazione delle donne. Da un verso la cultura di estrazione eroico-militare, virile, si riconobbe nella misoginia di Zarathustra (“Vai dalla donna? Non dimenticare la frusta”), dall’altra la convinzione atavica di un’inferiorità ontologica e spirituale della donna, concorrevano a considerare le incursioni femminili nella cultura e nella filosofia, oltre che nella politica, come un’intrusione, una trasgressione indebita.

Eppure il pensiero forte del Novecento, alla fine, fu salvato dalle donne. Mentre gli ultimi pensatori dichiaravano il naufragio della filosofia o il tramonto della civiltà, le donne riprendevano a tessere il pensiero sposato al mondo. L’epifania del pensiero forte è al femminile. Non mi riferisco alle celebri donne che vissero di luce riflessa per i loro ménage intellettuali ed esistenziali. Come Lou-Andreas Salomè, anello di congiunzione vivente tra Nietzsche, Rilke e Freud. O come Simone de Beauvoir, che ha lasciato sì scritti notevoli, ma pur sempre all’ombra del suo sodalizio con Sartre. E nemmeno alle donne in politica o alle leader del movimento femminista.

Dico invece di quelle donne che hanno lasciato un’orma profonda nel pensiero, riconosciuta solo negli ultimi anni. Le donne che abitarono il cuore del Novecento filosofico non furono femministe, atee e radical progressiste; furono intrepidi “cuori pensanti” che si dedicarono alla metafisica, al sacro e alla trascendenza, a volte perfino alla mistica, all’estasi e alla santità. Figure delicate, a volte celestiali, vogliose d’assoluto e cercatrici di luce. Parlo di Simone Weil, l’intelligenza metafisica più pura ed acuta del Novecento, ma anche di Marìa Zambrano, allieva di Ortega y Gasset ma rapita da Heidegger; di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo, che “filosofa” non fu; di Hannah Arendt, che fu tra le più grandi pensatrici non solo etico-politiche del secolo ma anche esistenziali; di Edith Stein e di Etty Hillesum, morte nei campi di sterminio, ebree come Weil, Arendt e come Rachel Bespaloff, potente esegeta dell’Iliade come “poema della forza”. Per certi versi vi fa parte anche Marguerite Yourcenar, che alla sensibilità storico-letteraria unì, a latere, una passione filosofico-alchemica e un’amore per la tradizione. E alle poetesse pervase di pensiero metafisico, come Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. O Antonia Pozzi. O studiose del sacro e del paganesimo come Marie Reimschneider e della “luce del Medioevo” come Régine Pernoud. Ad alcune di loro ha dedicato un libro, Cuori pensanti (l’espressione è di Hetty Hillesum) Laura Boella, ora edito da Chiarelettere.

Di fronte al declinare del pensiero al maschile, perduto tra dichiarazioni di morte della filosofia medesima, agonie e nichilismi, fino all’epilogo del pensiero debole, il pensiero forte è stato rappresentato soprattutto dalle donne, pur considerate quasi straniere nei territori della filosofia, senza permesso di soggiorno. Di fronte all’emorragia del pensiero, furono donne come Simone Weil a riproporre il problema della verità e di Dio, dell’essere e dell’assenza. O come Marìa Zambrano, a ripensare alla metafisica della luce e alla necessità di un pensiero aurorale, luogo d’incontro tra poesia e filosofia. O come Edith Stein, a passare dalla filosofia alla fede religiosa, dall’ebraismo alla conversione cristiana, assumendo da carmelitana in clausura il nome di Teresa Benedetta della Croce. O come Hannah Arendt, che non solo analizzava le origini del totalitarismo e la banalità del male, ma si addentrava anche nella vita della mente, riproponendo l’esigenza di un primato del conoscere sull’agire, della contemplazione sulla prassi. Con il pensiero femminile tornano nel Novecento Platone e Pitagora, il tema dell’immortalità dell’anima e l’orizzonte della trascendenza, la riflessione filosofica sulla religione e sul divino, l’amor fati e il sacro. L’espressione più alta e più pura di questa linea metafisica fu espressa in Italia da Cristina Campo, letterata traduttrice e poetessa, studiosa di saperi tradizionali, liturgici e simbolici. La sua lievità di figura e densità di espressione, lo splendore dei suoi pensieri, la ricerca di Dio con un’attenzione spirituale e una grazia che sembrano provenire da altri mondi a cui comunque si riferiscono. La sua tensione verso la perfezione che costa “vigilie notturne, duri mattutini, voti di castità, obbedienza e povertà”, il suo “distacco quasi totale dai beni di questa terra, la costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza alle forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose”… Cristina Campo esprime una linea scandalosamente divergente dal suo tempo e dal nostro. “Il mondo d’oggi –scrive in una lettera a Mita- ha un fiuto infallibile nel tentar di schiacciare ciò che è inimitabile, inesplicabile, irripetibile, tutto ciò che non gli può somigliare”.

Le donne pensarono la filosofia in rapporto al divino e alla sua assenza, il suo ritirarsi dal mondo. In quello strano secolo da cui proveniamo, a filosofare con il martello e ad assumersi la croce di un pensiero divergente, profondamente antagonista, scandaloso, sono state loro, le donne. Sia benedetto il loro pensiero forte, ben oltre l’astioso rivendicazionismo del gender. Si occuparono della condizione umana, non solo di quella delle donne.