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Il sapore della castagna

di Marcello Veneziani - 17/11/2025

Il sapore della castagna

Fonte: Marcello Veneziani

Il passato, alle volte, si nasconde dentro il guscio di una castagna. Tornando al paese d’origine, ho visto fiammeggiare al porto un’improvvisata fornace che arrostiva castagne. Mi sono avvicinato con l’avidità di un bambino e ho chiesto un “coppo” (un cartoccio) di caldarroste: me le ha incartate in un giornale, costavano solo un euro, contro i cinque, dieci delle grandi città, dove te le confezionano però in due appositi vani, quello dei frutti e quello per le bucce. Ma in paese è tutto più primitivo e naïve. Erano piccole quelle castagne, non come i marroni delle grandi città, non facevano bella figura; ma avevano il sapore e il profumo verace di un tempo, qualcosa che non ricordavo più da decenni.
Il sapore di una castagna è la versione campestre della madeleine di Marcel Proust: riattiva i ricordi e riannoda i lacci della memoria. Da una piccola porta si accede a un immenso passato.
Un mondo, a lungo dimenticato, si è riaperto d’improvviso mentre sbucciavo le castagne bollenti, inalavo odori di un tempo e addentavo le annerite e indorate delizie. Un’isola d’infanzia in mezzo al mare della senilità.
Ho rivisto allora, morso dopo morso, i banchi di legno grezzo dei primi giorni di scuola, in prima elementare, con i calamai e le sedioline incorporate, piccole e dure. E i nostri grembiuli, col fiocco azzurro e il colletto bianco, ho sentito l’odore del gesso che stride sulla lavagna e ho rivisto il cassino, di cui avevo scordato l’aspetto e pure il nome. La prima poesia che imparammo a memoria nei primi giorni di scuola era dedicata proprio alla castagna, regina dell’autunno. “Cotta, bruciata e ballotta, attenti che scotta”, l’insidia del riccio che la ricopre, il gusto del frutto, la gravidanza del castagnaccio. Fu lei, la castagna, a iniziarci alla poesia, fu il primitivo rudimento di letteratura. Era autunno, e il libro di lettura seguiva in quel tempo il corso naturale delle stagioni.
Poi dopo la scuola tornavo a casa, era pomeriggio e scendeva il buio vespertino, calavano le prime umidità autunnali, e i primi freddi. Era un po’ triste la strada di casa a quell’ora d’autunno, soprattutto quando era bagnata di pioggerelle recenti. Ma quando rientravo a casa c’era aria di festa e calore di vita: i miei avevano tirato fuori quel tegame nero coi buchi, che aveva ai miei occhi un aspetto giocoso, con cui si arrostivano le castagne. La fiamma le abbronzava e si sentiva nell’aria un odore misto a bruciato. Per essere ammesse in padella le castagne erano segnate da una croce che ne spaccava la buccia; mi raccomando il taglio, dicevano, altrimenti scoppiano. Quella breccia nel guscio sarebbe poi diventato l’appiglio per sbucciarle, appena tolte dal fuoco con le dita scottate; l’impazienza di sbucciarle e mangiarle superava il timore di ustionarsi. Alle castagne arrostite, non so perché, ci pensava mio padre, di solito inoperoso in cucina; quando invece le castagne erano bollite in pentola, sia nella versione sbucciata e guarnita col lauro (l’alloro), sia nella versione integrale, non spogliata, era compito di mia madre. Le castagne ne uscivano di tutti i colori: giallo-nere se arrostite, grigio-rosse se bollite senza buccia, bianco-avorio se preservate ancora nella loro buccia marrone. Erano i grandi, prometeici, a tirare le castagne dal fuoco.
Il tempo delle castagne è per me associato a una piccola preistoria domestica, ancora priva di televisore e di altre comodità moderne: da qui l’associazione di idee tra le castagne e il tempo perduto. In alcune case le castagne arrostivano sui bracieri ed erano perciò associate ai primi freddi nell’era antica, che precede i termosifoni e perfino le stufe.
In quel tempo, così come oggi, amavo l’estate con tutta l’anima e il corpo, mi riempiva gli occhi di vita e m’intristiva l’autunno, le giornate più corte e non più vissute all’aperto, i pomeriggi a casa, tra i compiti, i giochi e la tristezza del clima, il mese dei morti e dei vestiti pesanti. L’unica vera, scoppiettante gioia domestica di quella ritirata autunnale erano le castagne sul fuoco; erano la consolazione della stagione. Si creava un’atmosfera speciale in quei momenti e in quella catena di smontaggio famigliare nel passaggio delle castagne dalla padella alle mani bambine e dalle mani alla bocca golosa. Vita semplice, di poche pretese, addolcita da piccole delizie della natura.
Associo quei momenti pomeridiani delle castagne al cerchio di luce disegnato da un abat-jour, circondato dall’ombra della stanza e dall’imbrunire che s’intravedeva dal balcone e dalle finestre. La castagna era un fuori programma, non la mangiavi a pranzo, a cena, a colazione, ma fuori dai pasti; era una piccola festa, una dolce pausa offerta dalla natura, un frutto temprato dal fuoco.
La castagna mi pareva la metafora cristiana della vita: appena raccolta è respingente e può pungerti, ma se riesci a togliere il riccio accedi al frutto, passando però da altre due bucce: quella più dura, color mogano lucido, come un vestito e poi la vestaglia più esile, come una maglieria intima che copre il corpo nudo della castagna. Solo dopo aver sbucciato i tre strati accedi al frutto; sarà il fuoco a renderlo maturo per i nostri appetiti. Nulla ti è dato in natura senza la fatica di raccogliere, di sgusciare senza ferirti e poi sbucciare. Non so se già esiste la castagna ogm, o se l’Intelligenza Artificiale produrrà la Castagna Artificiale. Ma nella castagna vedo occhieggiare la natura e la favola, il mondo arcaico e l’infanzia perduta e ritrovata per poco.