L’antifascismo? Polemiche catacombali che esistono solo da noi
di Massimo Fini - 16/11/2025

Fonte: Il Secolo d'Italia
«Ho 80 anni, ma ancora tutti i vizi. L’antifascismo? Polemiche catacombali che esistono solo da noi». Parla Massimo Fini
Colloquio a tutto campo con il giornalista, tra sigarette, vodka, riflessioni sul pensiero europeo e una domanda spiazzante: «Quale poltrona scegli, Iniesta o il Mullah Omar?»
A cura di Lorenzo Cafarchio
Mentre salgo le scale che conducono a casa di Massimo Fini i pensieri rivivono le pagine dei suoi scritti. Libri, articoli di giornale e aforismi. Come sarà l’incontro? Siamo all’alba – li compirà il 19 novembre – dei suoi 82 anni trascorsi in una vita da irregolare della penna. Un termine, forse, desueto e volutamente fuori dagli schemi. Nello zaino i testi che ci hanno accompagnato in questi decenni da Elogio della guerra a Il vizio oscuro dell’Occidente. Il tempo della riflessione, però, finisce. La porta è già aperta. Entro e Fini è in soggiorno. Quadri, volumi ovunque alle pareti e memorabilia in ogni dove. I convenevoli sono rapidi e le sedute sono due. «Quale poltrona scegli?», mi dice, «Iniesta o il Mullah Omar?». Una sullo schienale ha la camiseta del fu numero 8 del Barcellona sull’altra una maglietta in cui campeggia la scritta “Onore al Mullah Omar”. Scegliamo questa. «Posso fumare», chiedo. «Ho 80 anni, ma ancora tutti i vizi. Io le sigarette le succhio ormai», mentre sul tavolo affastellato di riviste compaiono pacchetti di Gauloises e sotto c’è una bottiglia di vodka. Ci torneremo.
Sul balcone campeggia la bandiera dell’Afghanistan, la sua passione per la Nazione asiatica nasce col Mullah Omar?
«Sì, nasce così. Lui si oppone agli americani che vogliono installare su quelle terre una grande azienda petrolifera. È il cappello che gli statunitensi cercano di mettere sull’Afghanistan. Ma il Mullah Omar, che non era antimodernista come lo descrivono, preferì la Bridas proveniente dall’Argentina e guidata da Carlos Bulgheroni. Gli americani non sanno trattare, non conoscono i Paesi in cui vanno. Quelli sono luoghi dove devi stare qualche giorno, devi posizionarti davanti a una tazza di tè e attendere. Per questo motivo scelse Bulgheroni, anche se poi la cosa non si è più fatta».
Questo ci racconta molto di noi. Siamo usciti dalla storia e di fatto non esiste più un pensiero europeo, ma vogliamo imporre agli altri una visione univoca…
«Ogni Paese ha l’autorizzazione dei popoli di evoluire o anche di non evoluire secondo quelle che sono le sue tradizioni. Principio, tra l’altro, sancito a Helsinki nel 1975, dove veniva affermato il concetto della autodeterminazione dei popoli».
Caro a Lenin che lei spesso ha ripreso…
«Le piccole Patrie, in anni più recenti, piacevano pure a Bossi. Parliamo di qualcosa di circoscritto dove ci sono più rapporti sociali e i rapporti umani sono più veri».
Andiamo agli inizi della sua carriera da giornalista. Partita nel 1971, giusto?
«Nel ’71, sì. Nel senso, lavoravo alla Pirelli. E lì in realtà non so bene che cosa avrei dovuto fare. Fatto sta che siccome avevano capito che un po’ di capacità di scrittura l’ho, mi affidarono non la rivista Pirelli che era molto prestigiosa, ma una rivista di camionisti Vado e torno. Per cui ho fatto molti servizi interessanti perché si trattava di seguire i camionisti che da Milano portavano pneumatici giganti a Catania, per esempio. Quindi ho vissuto quella vita. Uno dei grandi vantaggi è che dal camion potevi vedere le gambe delle ragazze. Di quelle poche che guidavano. Ho conosciuto anche molte trattorie. Il camionista deve mangiar bene e spendere poco».
Poi Avanti!…
«A Milano con Ugo Intini. Capocronista comunista e dimafonista fascista, per spiegare l’ambiente. Comunque fu un caso perché io ho fatto il concorso per fare il magistrato. Sono laureato in giurisprudenza con 110 lode con la tesi fatta sul segreto istruttorio e libertà di stampa».
Decisamente attuale…
«Eh, certo. Però questi concorsi che dovevano essere severissimi in realtà erano truccati. Alcuni dei candidati conoscevano già i temi».
Mi accendo un altro sigaretta, mentre chiedo se posso servirmi anch’io un bicchiere di vodka. «La vodka», mi sussurra, «si beve in bicchierini piccoli. Piccoli e senza ghiaccio. Qui sotto casa mia c’è un ristorante a cui sono legato. Gli ho regalato 12 bicchieri da vodka, perché la servisse in modo degno».
Col Fatto e con Travaglio come sono i rapporti?
«Lui pubblica i miei articoli anche quando è assolutamente contrario, al massimo aggiunge due righe di distico. Quindi, cosa puoi pretendere di più da un direttore? Noi abbiamo un rapporto molto stretto e Marco è decisamente riservato. Il problema del Fatto non sono i giornalisti, ma i lettori. Risultano come una specie di setta. I miei problemi li ho con questa congrega di lettori. Sono dei fanatici».
Suo padre è stato direttore del Corriere Lombardo. Un vizio di famiglia il giornalismo?
«Qui sopra (mi indica la parete, ndr) è appeso l’editoriale di addio al giornale di mio padre. Ci tengo però a precisare che detesto l’amichettismo e il fatto che io abbia fatto il giornalista non centra nulla col suo lavoro».
La professione è cambiata totalmente…
«Certo. Una volta si usciva, si andava, si vedeva, si cercava, si ascoltava, cosa importantissima non solo nel giornalismo, ma nella vita. Adesso i giornalisti si alimentano dai database. Così oltretutto il mestiere diventa molto meno interessante. La carta stampata è finita. Tra due anni il New York Times sarà solo online. Gelo sempre, quando vado a fare qualche lezione, i giovani che vogliono intraprendere questa professione. Gli dico che se vogliono fare i giornalisti mancano di fiuto, visto la fine che farà questo mestiere, poi divento un po’ più morbido».
Lei ha scritto una biografia su Nietzsche senza toccarne il pensiero, ma solo scrivendo della vita del filosofo…
«Il motivo è emotivo. Nel senso che Nietzsche in vita non fu praticamente calcolato, poi diventò pazzo e morì. E come allievo ne aveva solo uno: il cretino Peter Gast. È nato postumo, come lui stesso diceva, cioè sarebbe stato capito dopo. Nietzsche è ancora fecondo oggi e lo sarà anche per i decenni a venire».
Ma in sostanza Fini nota solo un deterioramento e basta della società in cui viviamo?
«Questa società collassa su sé stessa. Faccio un esempio. Milano è basata sulle crescite esponenziali. Le crescite esponenziali esistono in matematica, dove puoi sempre aggiungere un numero, ma non succede ugualmente in natura. Noi siamo lontanissimi da questa possibilità, ma continuiamo ancora e ancora a cercare di conquistare territori e risorse. Questo spiega anche l’aggressività dell’Occidente».
Zizek, l’ultimo grande marxista, dice che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo…
«Di marxista c’è anche Canfora. Beh, anzi ritengo che lui sia stalinista».
Il professor Canfora appare molto preoccupato dal ritorno del fascismo…
«Non voglio parlare male del professor Canfora, ci mancherebbe. Ho ottimi rapporti con lui, però questa discrasi in Canfora mi sembra fuor di dubbio».
Tornando a quello che diceva prima ho trovato alcune similitudini col suo pensiero nell’accelerazionismo…
«Credo che stiamo andando a una velocità eccessiva, ci stiamo allontanando progressivamente dalla natura. Ora, quando un Nobel fa una straordinaria invenzione, noi ne vediamo gli aspetti positivi, naturalmente, però non conosciamo le varianti che quest’ultima scoperta può mettere in circolazione. Esempio più facile oggigiorno è l’intelligenza artificiale».
C’è anche la battaglia delle parole. Per esempio conservatorismo è di destra, progressismo di sinistra…
«Cito una frase di Ratzinger. Il Papa quando era cardinale disse che il progresso non ha migliorato né l’uomo né la società. Anzi esso si prospetta come un pericolo mortale per l’avvenire. A me sembrava un’affermazione, detta da un prelato, interessante. Invece è obnubilata assolutamente dal mainstream».
In tutto questo l’antifascismo ci fa vivere fuori dal tempo…
«Queste polemiche catacombali esistono solo da noi. Invece la Germania ha fatto i conti con la sua storia».
Però i tedeschi sono il popolo più impolitico di questo periodo storico e ovunque perdura la criminalizzazione del nemico che Venner, nel volume Il bianco sole dei vinti sulla guerra civile statunitense, descrive perfettamente…
«Questa è una cosa tipicamente americana e noi l’abbiamo introdotta perfettamente. Nell’Africa nera non esiste un concetto simile. Nonostante tra le numerose etnie parliamo di un luogo dove i conflitti sono stati assolutamente trascurabili, anche perché il vinto veniva integrato nella società dei vincitori. Gli africani per contenere la violenza si sono inventati la guerra finta. Oggi, in Italia, viene criminalizzata per esempio nel calcio la discriminazione territoriale. Tu non puoi dire se sei un tifoso del Verona “Forza Vesuvio” e quelli del Napoli non possono rispondere insultando Giulietta. Questi sarebbero strumenti che canalizzano la violenza».
La vitalità è bandita…
«Sintetizzando il discorso di Nietzsche, all’inizio l’uomo è selvaggio e quindi questo produce problemi. Poi arrivano le leggi religiose e le regole. L’uomo non farà il male quando capirà che il male gli si ritorcerà contro».
Un altro tema cardine è il rapporto con la tecnica dell’essere umano. Penso a Heidegger e le sue riflessione. Qual è la sua visione?
«Sì, Heidegger che è stato l’ultimo vero filosofo pone il problema dell’ambiguità della tecnica, cioè che la tecnica può essere positiva, ma può essere negativa. Questo lo scrive negli anni ‘30. Nel mio piccolo affermo che la tecnica si è rivelata molto più negativa che positiva».
Mi ha colpito che in una sua ultima intervista ha asserito di aver provato in tutti i modi a non arrivare a 80 anni…
«Molto dipende dal Dna. E sono assolutamente contrario a quello che chiamo il “terrorismo diagnostico”. Cioè fare esami, esami e esami. Una logica per cui tu dovresti vivere da vecchio quando sei ancora giovane. Ma è ovvio che vivere ci fa morire. Con Elisabetta, la mia assistente, prima leggevamo di questi uomini anziani, non so Trump, non so Putin che hanno la volontà di voler vivere 120, 130 anni. Che poi era anche il desiderio molto umano di Berlusconi».
Le parole fluiscono c’è ancora vodka e una stampa sovietica incorniciata che raffigura Stakhanov affianco alla poltrona di Fini. Dietro di noi un ritratto con lui col corpo fatto a granata. Dirompente. Parliamo infine di donne. «Molti miei amici di 30 anni sono spaventati dall’aggressività femminile». E qual è il segreto, quindi, gli chiedo. «L’audacia». È quasi l’ora di cena e la sua fidanzata lo aspetta. Mentre sistemo i libri, stacco il registratore e spengo l’ultima sigaretta mi rendo conto di aver azzerato la routine, del giornalismo incasellato, per vivere altro. Una dimensione maggiore. Lontani, il tempo di una chiacchiera, dallo scantinato dell’attualità che si crede attico.

