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Il sequestro e l’uccisione di Italo Toni e Graziella De Palo: abbattere il muro dei silenzi

di Gian Paolo Pellizzaro - 16/12/2022

Il sequestro e l’uccisione di Italo Toni e Graziella De Palo: abbattere il muro dei silenzi

Fonte: Reggio report

Le date parlano. E nella tragica vicenda di Italo Toni e Graziella De Palo, i giornalisti freelance italiani spariti a Beirut il 2 settembre del 1980 e mai più ritrovati, le date spiegano e raccontano più di mille parole di circostanza. Dopo oltre 42 anni, non solo dei due sfortunati colleghi non sono mai state ritrovate le spoglie, ma – ancor più grave – nessuno ha mai pagato penalmente o civilmente per ciò che accadde alle loro vite.
Nonostante, sul piano giudiziario, siano stati individuati i mandanti del duplice sequestro e omicidio (nell’ordine George Habbash leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il leader dell’OLP Yasser Arafat e soprattutto il suo braccio destro Abu Ayad, il potente capo del Jihaz al-Rasd, il servizio di sicurezza palestinese), restano ignoti gli esecutori materiali del delitto e gli eventuali loro complici anche di parte italiana.
Graziella e Italo, rispettivamente 24 e 50 anni al momento della scomparsa, sono stati inghiottiti da una oscura ragion di Stato che ha visto la saldatura di due diversi interessi inconfessabili: quello dei vertici della resistenza palestinese e quello di alcuni settori dello Stato italiano, simbiotici e subordinati nei confronti delle istanze dell’OLP, in un opaco quadro di accordi segreti finalizzati a “immunizzare” il nostro Paese da eventuali attacchi terroristici di matrice arabo-palestinese. Il prezzo pagato per garantire questo instabile e mutevole quadro di patti extra legem (il compianto presidente emerito Francesco Cossiga, per questo, ha ribattezzato questi accordi col termine Lodo Moro, oggi ampiamente utilizzato in ambito storiografico) è stato enorme, sia in termini di vite umane sia in termini di dignità delle istituzioni democratiche.
Nel nome del Lodo Moro sono state sacrificate le vite di tanti cittadini, italiani e stranieri, ed è stata mortificata e umiliata la ricerca della verità da parte della magistratura.
Nel caso Toni e De Palo, l’attività istruttoria, condotta dall’allora sostituto procuratore, Giancarlo Armati, e dal giudice istruttore del Tribunale di Roma Renato Squillante, è stata sbarrata dall’opposizione del segreto di Stato, sollevato dall’allora colonnello Stefano Giovannone, già capo centro SISMI di Beirut, proprio sui rapporti segreti delle autorità italiane con i vertici delle organizzazioni della resistenza palestinese. Il segreto di Stato venne poi confermato dal presidente del Consiglio pro tempore, Bettino Craxi, il 28 agosto del 1984.
La ragion di Stato alla base degli accordi segreti denominati Lodo Moro venne sigillata con l’opposizione del segreto di Stato e questo servì per sfasciare l’inchiesta sulla sparizione dei due giornalisti in Libano.
Le date parlano, dicevamo.
Nella Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980 (le cui indagini furono gravemente intossicate e deviate proprio dagli stessi soggetti che depistarono l’inchiesta sulla sparizione di Graziella e Italo), da me redatta a quattro mani con il magistrato Lorenzo Matassa per l’allora Commissione parlamentare sul cosiddetto dossier Mitrokhin (è datata 10 febbraio 2006), scrivevamo che Italo Toni e Graziella De Palo «furono sacrificati sull’altare dei “patti inconfessabili” tra entità italiane e terrorismo palestinese» e che, proprio per coprire e tutelare questi “accordi” i vertici del nostro servizio segreto militare (su precise direttive politiche) «furono costretti a creare una vera e propria “pista alias” che, attraverso un gioco di specchi duplicanti, doveva determinare la deviazione dell’inchiesta in un luogo e su contesti opposti e speculari a quelli che costituivano la verità».
Questo è valso «per il caso dei missili di Ortona, per la strage di Bologna e per la sparizione dei due giornalisti in Libano». Sparizione rimasta per tanto (troppo) tempo lontano dalle cronache nazionali. La sorte dei due giornalisti fu segnata da una impietosa strategia del silenzio e dell’attesa. Fu fatto di tutto per separare la loro sparizione a Beirut il 2 settembre (un mese esatto dopo l’attentato alla stazione di Bologna) da altri eventi che ricadevano all’interno del medesimo perimetro dei cosiddetti patti inconfessabili.
Questo torbido disegno passerà alla storia giudiziaria italiana col nome di “pista libanese”.
È sufficiente dire – come ho fatto martedì pomeriggio nel corso del convegno organizzato dalla criminologa Imma Giuliani, dedicato alla vicenda Toni-De Palo, ospitato nella prestigiosa sede della Biblioteca Casanatense in via Sant’Ignazio a Roma – che la prima notizia sulla scomparsa dei due colleghi in Libano fu pubblicata dal “Messaggero” e da “Paese Sera”, in un identico trafiletto relegato in basso nelle pagine interne, soltanto il 5 ottobre del 1980, oltre un mese dopo la loro sparizione.
Dopo di che, il nulla.
Una impenetrabile cortina di silenzio calò sulla loro tragica vicenda. E fra gli aspetti più desolanti c’è il comportamento del quotidiano comunista “Paese Sera”, sovvenzionato da Botteghe Oscure in larga parte anche con fondi occulti che provenivano da Mosca, per il quale aveva collaborato Graziella e che – nella circostanza della notizia della sua scomparsa con Italo Toni in Libano – si limitò a mandare in pagina lo scarno comunicato diffuso dalla nostra ambasciata a Beirut.
Senza aggiungere o approfondire nulla. Come se Graziella fosse stata una perfetta sconosciuta per la loro redazione.
Ad aggravare la già incresciosa circostanza, relativa al non benevolo se non cinico e incomprensibile comportamento tenuto dai colleghi di “Paese Sera”, vi fu perfino il rifiuto dell’allora direttore responsabile Giuseppe Fiori di incontrare i genitori di Graziella, Vincenzo De Palo e Renata Capotorti. Lentamente, ma inesorabilmente intorno alla vicenda dei due giornalisti spariti in Libano veniva creata una sorta di cordone sanitario e di oblio.
L’aver dato la notizia soltanto domenica 5 ottobre 1980 ha dimostrato – fin dalle prime battute – l’esigenza di voler decontestualizzare il fatto, separandolo dal suo contesto naturale, proprio per evitare ogni ipotetico collegamento con il quadro generale degli accordi segreti con le organizzazioni della resistenza palestinese. Coloro che si stavano agitando per depistare le indagini sulla strage di Bologna erano gli stessi che si muoveranno per ostacolare e deviare il corso delle indagini sulla sparizione di Graziella e Italo.
Tutto questo stava per accadere nelle stesse ore nello stesso luogo: a Beirut Ovest, settore della città controllato dai palestinesi e sotto il tallone delle forze siriane.
Dietro le quinte di questa tragedia, si muovevano gli ingranaggi di un macchinario infernale. Graziella e Italo avevano scelto il momento sbagliato per recarsi in Libano. Il 16 giugno 1980 (appena tre giorni dopo la fine dei lavori del vertice del Consiglio europeo di Venezia, al termine del quale venne resa nota la Risoluzione dei 9 sulla Palestina che gelò le aspettative dell’OLP) i due giornalisti avevano chiesto all’ambasciata della Siria a Roma il visto di entrata in quel Paese. Il visto era stato loro concesso a condizione che si mettessero in contatto, immediatamente dopo il loro arrivo a Damasco, con il ministero dell’Informazione.
Il loro viaggio in Libano era stato appoggiato dall’OLP che aveva procurato loro i biglietti d’aereo a tariffa ridotta e agevolazioni per l’alloggio in albergo. Queste apparenti coperture nascondevano, tuttavia, una trappola mortale.
Siamo nella fase più tesa a drammatica delle relazioni tra governo italiano e organizzazioni palestinesi. Nel mese di maggio 1980 si erano intensificate le più gravi minacce di ritorsione da parte del FPLP di George Habbash contro l’Italia per la mancata scarcerazione di Abu Anzeh Saleh, il giordano di origini palestinesi residente a Bologna e capo della rete clandestina del FPLP in Italia. Saleh era stato arrestato il 14 novembre 1979 nell’ambito delle indagini sul trasporti dei lanciamissili di fabbricazione sovietica Sam 7 Strela sequestrati nei pressi del porto di Ortona la notte del 7 novembre 1979 e poi condannato insieme a tre autonomi romani, fra cui Daniele Pifano, leader del collettivo di via dei Volsci, a sette anni di reclusione da Tribunale di Chieti il 25 gennaio del 1980.
La vicenda di Saleh aveva messo in crisi il Lodo Moro e aveva dato vita a un durissimo contenzioso tra dirigenza palestinese e governo italiano. Ad aggravare ulteriormente questa complicata vertenza fu la durissima reazione congiunta siriano-palestinese al tradimento del vertice dei 9 di Venezia: il 17 giugno 1980, infatti, Arafat insieme a George Habbash del FPLP e Nayef Hawatameh, segretario generale del Fronte popolare democratico per la liberazione della Palestina, si erano recati a Damasco per un vertice con il presidente siriano Hafiz al-Assad.
Si erano create le condizioni di una tempesta perfetta.
Al termine dell’incontro, i quattro di Damasco avevano congedato una dichiarazione congiunta, pubblicata il giorno seguente dall’agenzia di stampa palestinese “Wafa”: una vera e propria dichiarazione di guerra contro i 9 leader europei presenti al vertice di Venezia, in particolare contro l’Italia che aveva presieduto il summit e il cui governo guidato da Francesco Cossiga aveva, di fatto, sabotato la risoluzione del 13 giugno.
Graziella e Italo erano all’oscuro di tutto questo.
I due giornalisti partirono da Roma Fiumicino il 22 agosto 1980 con un volo delle linee aeree siriane diretto a Damasco dove giunsero in pari data, ma non risulta che si siano mai messi in contatto con le autorità siriane. Già questo mancato appuntamento potrebbe aver messo in allarme la catena di comando della sicurezza siriana e quindi di quella palestinese.
Il loro rientro in Italia era fissato per il 15 settembre. Quello stesso giorno, proprio a Beirut, Abu Ayad rilasciava le sue dichiarazioni depistanti sulla strage di Bologna che saranno pubblicate sull’edizione del 16 settembre del quotidiano libanese di sinistra in lingua araba, “al-Safir”. Sempre il 16 settembre, l’ambasciatore italiano a Beirut, Stefano D’Andrea, trasmetteva a Roma – Farnesina un telex riservatissimo sulle inquietanti “rivelazioni” di Ayad.
Quel telex fece scattare l’allarme rosso.
Le comunicazioni dell’ambasciatore italiano in Libano erano intercettate dal capo centro del SISMI. Giovannone, infatti, aveva incaricato l’appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all’ufficio cifra dell’ambasciata italiana a Beirut, di decrittare tutti i messaggi criptati di D’Andrea indirizzati a Roma, al ministero degli Esteri. Giovannone temeva che D’Andrea potesse, in qualche modo, interferire o ostacolare i suoi contatti e le sue relazioni con la dirigenza palestinese. D’altra parte, l’ambasciatore italiano era visto dai palestinesi (e di riflesso dallo stesso Giovannone) come un personaggio ostile alla causa palestinese e considerato un sabotatore, una pietra d’inciampo nel quadro dei cosiddetti patti inconfessabili tra autorità italiane e OLP (Lodo Moro).
Tornando a Graziella e Italo, risulta che il 1° settembre 1980 i due giornalisti avevano preso alloggio all’Hotel Triumph (di proprietà dell’OLP e quindi sotto il controllo del servizio segreto palestinese) nel settore Ovest di Beirut. Nel corso delle indagini emerse che la polizia libanese il 18 novembre del 1980 aveva fatto sapere alle autorità italiane (e cioè all’ambasciatore D’Andrea) che Toni e De Palo avevano preso alloggio all’Hotel Triumph il 23 agosto con data di prenotazione fino al 5 settembre.
Il 1° settembre, i due giornalisti si presentavano all’ambasciata italiana di Beirut. Il giorno successivo – il 2 settembre 1980 – i due lasciavano l’Hotel Triumph, informando la direzione dell’albergo (secondo la versione dei palestinesi) della loro intenzione di recarsi a Bagdad e preannunciando il loro ritorno per il successivo 6 settembre, ma l’autista inviato a prelevarli riferì (sempre da parte palestinese) di non averli visti.
Da quel giorno (2 settembre 1980), di Graziella e Italo si persero per sempre le tracce.
Al momento della loro scomparsa, l’ambasciatore D’Andrea era in ferie. Al suo rientro in sede, venne messo al corrente del grave fatto e immediatamente si attivò per capire che fine avessero fatto quei due cittadini italiani. Prese contatto con le autorità legittime libanesi, in particolare con la sureté (la polizia) per coordinare le ricerche e le prime indagini. Questa attività rischiava di scoperchiare il vaso di Pandora degli accordi occulti con i palestinesi e per questo andava, immediatamente, neutralizzata.
L’accertamento della verità venne, fin dalle primissime battute, ostacolato e intralciato proprio a Beirut. Nella sua requisitoria, il pm Giancarlo Armati scriverà: «Poiché deve ritenersi accertato che i due giornalisti furono sequestrati da elementi dell’OLP, interrogati e quindi uccisi “subito o quasi”, non è assolutamente credibile che Giovannone non avesse avuto la possibilità di venire a conoscenza e non avesse in effetti saputo, almeno nei suoi elementi essenziali, come si erano svolti i fatti e qual era stata la sorte toccata ai due giornalisti. Tale osservazione – prosegue Armati – trova una ulteriore, puntuale conferma ove si consideri che proprio il gruppo di Habbash, cui era intimamente legata la Porena, assidua frequentatrice e confidente del Giovannone, è stato l’esecutore materiale del sequestro e dell’omicidio dei due giornalisti».
Rita Porena era la giornalista attiva sulla piazza di Beirut, appunto confidente di Giovannone, collaboratrice dell’ambasciata d’Italia in Libano (curava la rassegna stampa) e, soprattutto, militante del FPLP di George Habbash (era legata sentimentalmente a un alto esponente di questa organizzazione).
Sarà proprio lei, la Porena, a firmare l’intervista ad Abu Ayad pubblicata dal quotidiano svizzero in lingua italiana “Corriere del Ticino” il 19 settembre 1980 in cui venivano ripetute e aggravate le depistanti rivelazioni sulla strage di Bologna e la falsa attribuzione della responsabilità ai falangisti delle destre maronite libanesi, già anticipate tre giorni sul giornale libanese al-Safir.
L’intervista di Rita Porena ad Abu Ayad precipitò sulle indagini relative all’attentato del 2 agosto 1980 come un meteorite, proprio alla vigilia della formalizzazione dell’istruttoria.
La cronologia di quei giorni non lascia scampo alle illazioni:
Le rivelazioni di Abu Ayad pubblicate su al-Safir vennero ribattute dalle agenzie di stampa internazionali il 16 settembre e riprese dai giornali italiani (“Corriere della Sera”, “La Stampa”, “La Repubblica”, “Il Messaggero”, l’Unità” e “l’Avanti”) il giorno seguente, il 17 settembre 1980.
Il braccio destro di Arafat e capo del servizio segreto palestinese aveva affermato che il partito della falange cristiano-maronita libanese Kataeb era coinvolto nell’organizzazione della strage di Bologna e che gruppi di terroristi di estrema destra da tutta Europa (in particolare tedeschi e italiani) erano stati addestrati nei campi paramilitari falangisti in Libano.
Il 17 settembre 1980, il sostituto procuratore di Bologna, Luigi Persico, inoltrava al direttore del SISDE, gen. Giulio Grassini, una richiesta di informazioni segretissima circa l’attività svolta in Libano, nei campi di addestramento paramilitare falangisti, nonché procacciamento di armi ed esplosivi da parte di elementi italiani, in particolare dei NAR.
Il 20 settembre 1980, il giorno seguente la pubblicazione dell’intervista di Rita Porena ad Abu Ayad sul “Corriere del Ticino”, il procuratore capo di Bologna, Ugo Sisti, con una nota riservata, chiedeva assistenza ai servizi di informazione e sicurezza (SISDE, SISMI e CESIS) circa le rivelazioni di Ayad.
Il 21 settembre 1980, il procuratore Sisti trasmetteva il fascicolo dell’inchiesta all’Ufficio istruzione del Tribunale di Bologna per la prosecuzione dell’istruttoria con rito formale.
Pochi giorni dopo, nella prima decade di ottobre 1980, i palestinesi strumentalizzarono e sfruttarono le voci raccolte dal direttore del SISMI, generale Giuseppe Santovito, nel suo breve viaggio in Libano, circa l’esistenza dei cadaveri dei due giornalisti nell’obitorio dell’ospedale americano di Beirut. Il sopralluogo di Santovito e Giovannone presso la morgue dette esito negativo (i corpi non vennero trovati). Ma questo servì comunque alla dirigenza palestinese per organizzare l’ennesimo depistaggio. Arafat affermò che Graziella e Italo erano stati catturati dai falangisti nel settore cristiano-maronita della capitale libanese mentre scattavano fotografie. Mentre Abu Ayad accusò pubblicamente e personalmente Stefano D’Andrea di aver fatto sparire dall’ospedale i corpi dei due giornalisti.
Queste accuse obbligarono l’allora ministro degli Esteri, Emilio Colombo, a sporgere denuncia alla Procura della Repubblica di Roma nei confronti del suo ambasciatore in Libano, non senza rilevare l’assoluta infondatezza delle affermazioni di Ayad.
Dalle intercettazioni abusive ai danni dell’ambasciatore italiano il capo centro del SISMI scoprì che le autorità di polizia libanesi erano in procinto di comunicare ufficialmente a D’Andrea l’esito definitivo delle indagini sulla scomparsa di Graziella e Italo e pertanto – prendendo a pretesto la presunta imminente liberazione dei due ostaggi (o almeno della sola De Palo) – fece pressione sul ministero degli Esteri tanto che la Farnesina il 29 ottobre 1980 ordinò all’ambasciatore D’Andrea di sospendere le indagini sulla sparizione dei due giornalisti in modo da “non turbare” «lo scenario in cui i due dovevano ricomparire».
Inutile dire che si trattava di una messinscena.
Chi, al ministero degli Esteri, accondiscese alle richieste di Giovannone e Santovito ai danni dell’ambasciatore D’Andrea?
Questo – ad oggi – resta ancora un mistero.
«Proprio nel corso di questo breve periodo di sospensione delle indagini – sottolineava Armati nella sua requisitoria – il 1° novembre 1980 si verificò l’incontro di Santovito con Arafat a Beirut, durante il quale Arafat avrebbe detto a Santovito che ove i due non fossero vivi, era opportuno “stendere un velo” sulla vicenda – ammissione di Santovito, questa, estremamente significativa. Infatti, cessata la sospensione delle indagini, l’ambasciatore D’Andrea si trovò di fronte, nei suoi ulteriori contatti, un muro di silenzio. Il periodo successivo vedrà Giovannone ancora impegnato, ciclicamente, nelle sue “indagini”, secondo un sistema collaudato, in attesa che l’interesse per la vicenda dei due giornalisti si estinguesse naturalmente con il decorso del tempo».

La strategia del silenzio e dell’attesa.
Lo scontro frontale tra il colonnello Stefano Giovannone e l’ambasciatore Stefano D’Andrea si risolse a favore del primo, con il trasferimento (leggi allontanamento da Beirut) di D’Andrea ad altra sede diplomatica, in Danimarca, neanche quattro mesi dopo.
Stefano D’Andrea, infatti, lasciò l’incarico di ambasciatore italiano in Libano alla metà di marzo 1981, neanche due settimane dopo la partenza da Beirut della delegazione parlamentare della Commissione Esteri della Camera dei Deputati che aveva incontrato Abu Ayad.
D’Andrea venne trasferito a Copenaghen anche a causa di una falsa minaccia di attentato nei suoi confronti da parte palestinese, riferita al ministero degli Esteri da Stefano Giovannone.
Stefano D’Andrea è stato sentito a verbale il 12 giugno 1981 dai pubblici ministeri Luigi Persico e Guido Marino e dal giudice istruttore di Bologna Giorgio Floridia.
«La direzione e la responsabilità politica dell’attività diplomatica – ha spiegato D’Andrea – della sede estera compete esclusivamente all’ambasciatore quale titolare della sede e unico responsabile verso il governo».
Come abbiamo già detto, nella sede dell’ambasciata d’Italia a Beirut operava il centro SISMI di cui era a capo Giovannone, il quale aveva anche e soprattutto la responsabilità «di taluni contatti, nel suo ambito, con le organizzazioni palestinesi». In tale delicatissima materia, «l’azione del centro SISMI – precisò D’Andrea a verbale – esulava da ogni mio controllo e da ogni mia responsabilità».
Nel corso della sua deposizione davanti ai magistrati bolognesi, l’ex ambasciatore italiano a Beirut non solo confermò agli inquirenti le sue valutazioni già espresse all’epoca dei fatti con una relazione segretissima trasmessa via telex alla Farnesina verso la fine di settembre del 1980 e poi ripetute nella sua citata lettera a Giacomelli del 5 agosto 1981, ma aggiunse anche dell’altro circa le oscure macchinazioni di Abu Ayad:
«Verso la metà del settembre ’80, rientrato in sede dalle ferie, ebbi occasione di leggere che sulla stampa di Beirut, con vario risalto, in vari giorni, su vari giornali, si era pubblicato una sintesi di talune dichiarazioni di Abu Ayad relative al fatto che cittadini tedeschi asseritamente terroristi erano stati catturati dai palestinesi sulla via dell’aeroporto e gli stessi avevano dichiarato ad Abu Ayad che, nel corso di incontri nel campo di addestramento maronita-falangista, avevano conosciuto degli italiani dai quali avevano sentito dire che erano in programma degli attentati ad una “città ‘rossa’ italiana”. Ciò che immediatamente mi soprese nelle dichiarazioni attribuite ad Abu Ayad fu la circostanza che egli dichiarava di aver trasmesso queste dichiarazioni alle Autorità Italiane prima del giorno e del fatto del 2 agosto 80. Non mancai di informare con un messaggio il Ministero di quanto sopra. Ritengo che detta segnalazione possa collocarsi tra il 20 e 25 settembre ’80. Dopo qualche giorno di nuovo segnalai a Roma dichiarazioni di Abu Ayad in materia. Egli, forse edotto del suo errore dall’ampiezza delle ripercussioni sulla stampa, precisò successivamente con interviste sulla stampa:
1) che non aveva potuto compiutamente informare i servizi segreti italiani (indicava espressamente tali organi per la prima volta).
2) che non avrebbe mancato di farlo non appena si fossero creati i rapporti ufficiali con tali servizi […].
«Alla luce di un precedente specifico in materia (riguardante certe dichiarazioni in merito all’affare dei missili di Ortona di cui un gruppo facente capo ad Habbash aveva tentato di far credere edotto in anticipo l’ambasciatore o l’’Ambasciata, mentre ciò non rispondeva a verità, come ampiamente risulta al ministero) io, sotto il profilo politico, opinai che il comportamento di Abu Ayad fosse diretto o a compromettere le autorità italiane o a esercitare una pressione per ottenere un riconoscimento delle organizzazioni palestinesi».
Concludiamo riportando quanto lo stesso ambasciatore Stefano D’Andrea ebbe a scrivere – il 5 agosto del 1981 – in una lettera riservata indirizzata all’allora direttore generale dell’Emigrazione e degli Affari sociali del ministero degli Esteri, Giorgio Giacomelli.
La missiva era allegata al verbale di sommarie informazioni rese da D’Andrea al giudice istruttore del Tribunale di Roma, Renato Squillante, il 27 aprile 1983, nell’ambito dell’inchiesta sulla sparizione di Graziella De Palo e Italo Toni.
Quello che traccia qui di seguito l’ambasciatore D’Andrea non è altro che lo «schema» depistante adottato da Abu Ayad in piena sintonia e di concerto con il FPLP di George Habbash:
[D’Andrea scrive in terza persona] «L’ambasciatore che a Beirut serviva gli interessi dello Stato, nelle forme tradizionali, applicando le istruzioni del Governo, è stato da taluni considerato incomodo. Altre volte si è mirato invece a destabilizzare proprio il Governo.
«Già Habbash aveva cercato di coinvolgere l’ambasciatore in relazione ai missili di Pifano; poi fu Abu Ayad a dare la sua interpretazione della strage di Bologna; quindi fu Abu Sharif ad accusare, sempre l’ambasciatore, di voler organizzare il suo assassinio, d’intesa con agenti italiani ed insieme alla CIA. Finalmente dell’ambasciatore in Libano i palestinesi apparentemente chiesero il richiamo.
«Ad un’analisi anche superficiale dei fatti quali risultano dai tanti elementi costì acquisiti e in primo luogo dall’ampia, minuziosa, quotidiana documentazione delle attività dell’ambasciatore di allora, l’accusa di Abu Ayad appare totalmente priva di fondamento, falsa nelle conclusioni, calunniosa negli intenti».
Alla luce di tutto questo e vista la disponibilità manifestata dal governo, nella persona del presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella sua lettera di risposta all’appello dell’anziana madre di Graziella, la signora Renata che proprio l’altro giorno ha compiuto 99 anni, circa la volontà di liberare dal segreto i documenti dell’ex SISMI ancora classificati e attinenti alla vicenda Toni-De Palo, suggeriamo al governo di estendere la ricerca e l’eventuale attività di declassifica dei documenti (anche ad uso interno) eventualmente conservati negli archivi del ministero degli Esteri e relativi a tutte le corrispondenze e ai messaggi da e per Beirut tra il novembre 1979 e il marzo del 1981, nonché tutti i fondi di archivio attinenti ai rapporti riservati e alle comunicazioni tra SISMI e Farnesina nel medesimo arco temporale e attinenti alle stesse vicende.
D’altra parte, appare evidente che l’attività di Giovannone non fosse l’opera isolata di un uomo solo, ma che fosse inquadrata in un preciso ambito di rapporti di forza e di potere che interessavano gli organi apicali del servizio diretto da Santovito e che la direzione del SISMI godeva del pieno appoggio e delle coperture dei vertici della Farnesina, del governo e quindi di specifici settori della politica.
È giunto il momento di ricostruire questa catena di comando e di spiegare in quale ambito operava il centro SISMI di Beirut e con quali coperture politico-istituzionali nei mesi più tragici della storia italiana del dopoguerra.