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Il tragico paradosso

di Gabriele Mariani - 01/06/2025

Il tragico paradosso

Fonte: Gabriele Mariani

C'è un paradosso tragico che accompagna l’attuale guerra contro Gaza: se c’è un “merito” — e sia chiaro che lo mettiamo tra molte virgolette — da riconoscere al governo Netanyahu, è quello di aver tolto ogni illusione residua sulla vera natura del progetto sionista. L’assedio prolungato, l’uso sistematico della fame come arma, il bombardamento di scuole e ospedali, le dichiarazioni disumanizzanti di membri dell’esecutivo israeliano: tutto questo ha mostrato al mondo ciò che milioni di palestinesi vivono da generazioni.
Ma guai a cedere alla narrazione secondo cui questa brutalità sarebbe una deviazione recente, frutto dell’estremismo di destra o dell’attuale leadership. Il dramma della Palestina non nasce con Netanyahu. Al contrario, ha radici profonde e strutturali che attraversano l’intera storia dello Stato di Israele, anche nei suoi governi “progressisti”.
La Nakba del 1948, la pulizia etnica sistematica che ha espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro terre, fu condotta sotto il governo di David Ben Gurion, padre fondatore dello Stato e leader del partito laburista Mapai. Poco dopo, la Legge sulla proprietà degli assenti legalizzò l’esproprio delle case e dei villaggi palestinesi, creando una categoria giuridica pensata per cancellare il diritto al ritorno e cristallizzare la spoliazione.
Dal 1948 al 1966, gli arabi palestinesi rimasti all’interno di Israele vissero sotto un regime militare che limitava la libertà di movimento, confiscava terre e imponeva una sorveglianza capillare. Anche questa fase fu gestita da governi laburisti.
La Naksa del 1967, con l’occupazione della Cisgiordania, di Gaza, di Gerusalemme Est e del Golan, fu un altro passo in avanti nel consolidamento dell’ideologia coloniale. I primi insediamenti nei territori occupati non furono voluti da Netanyahu, ma da Levi Eshkol, Golda Meir, Yigal Allon: figure storiche della sinistra israeliana.
E ancora oggi, il regime di apartheid denunciato da organizzazioni come Human Rights Watch, Amnesty International e perfino da giuristi israeliani, è frutto di decenni di politiche trasversali che hanno sempre privilegiato la supremazia ebraica a scapito dei diritti palestinesi.
E vale la pena ricordare che molti dei pilastri dell’attuale sistema di dominazione sono stati costruiti proprio sotto governi considerati “moderati” o “progressisti” agli occhi dell’Occidente. Il partito laburista, che per decenni ha goduto di prestigio internazionale come forza “di pace”, è stato il principale artefice dell’ingegneria etnica, della colonizzazione territoriale e dell’architettura giuridica della disuguaglianza.
Fu il governo Rabin (laburista) che, mentre negoziava gli Accordi di Oslo, aumentava il numero di coloni nei Territori Occupati. Nel 1993 erano 110.000; nel 1996, al termine del processo di pace che avrebbe dovuto portare alla nascita di uno Stato palestinese, erano diventati quasi 150.000. Oslo non fu la premessa della fine dell’occupazione, ma la sua normalizzazione sotto altra forma, con l’Autorità Palestinese ridotta a braccio amministrativo dell’occupazione stessa.
Fu anche sotto governi “centristi” come quello di Ehud Barak (1999–2001) che venne stroncata con il fuoco la Seconda Intifada, causando migliaia di vittime palestinesi. Barak è lo stesso che affermava che “non c’è partner per la pace”, legittimando così il ritorno alla forza bruta.
E ancora: la costruzione del muro di separazione — giudicato illegale dalla Corte internazionale di giustizia — iniziò sotto il governo “centrista” di Ariel Sharon, ex generale, ma sostenuto da ampi settori liberali israeliani e da una comunità internazionale pronta a chiudere un occhio in nome della “lotta al terrorismo”.
L’Occidente ha spesso coccolato questi leader, accogliendoli nei salotti diplomatici e assegnando loro premi per la pace, ignorando che dietro il linguaggio del compromesso si nascondevano politiche di esproprio, apartheid, disumanizzazione e gestione coloniale della popolazione palestinese.
Dunque, sì: Netanyahu ha alzato il livello della violenza, ha fatto precipitare la retorica in forme apertamente genocidarie, ha reso palese ciò che prima era mascherato da “sicurezza” o “processo di pace”. Ma non ha inventato nulla. Il suo governo è la continuazione — più nuda, più brutale, forse più onesta — di un progetto coloniale nato con lo Stato stesso e sostenuto, per decenni, anche da governi che si proclamavano democratici, socialisti, illuminati.
Il mondo oggi vede. E questo non è poco. Ma ora che la verità è sotto gli occhi di tutti, resta la domanda decisiva: abbiamo ancora il coraggio di far finta di niente?