Immigrazione e cittadinanza
di Antonio Catalano - 12/06/2025
Fonte: Antonio Catalano
Come si è visto, tra gli stessi partecipanti al voto referendario è consistente (oltre i 5 milioni) il numero di coloro che si sono espressi contro il dimezzamento del numero di anni per ottenere la cittadinanza. Numero che, sommato alla maggioranza che si è astenuta (di certo non favorevole a questo dimezzamento), lascia dedurre che nel Paese è largamente maggioritaria (oltre le appartenenze politiche) la volontà di considerare la cittadinanza un valore da conquistare.
Ma ora intendo affrontare il tema entrando nel merito di alcune questioni che spesso si danno per scontato o, peggio, neanche considerate. È evidente che il tema quasi sempre è affrontato dalle principali forze politiche (sia di destra che di sinistra) a, dir bene, con strumentalità, ognuna delle due parti a solleticare i sentimenti della propria base elettorale. Purtroppo, quasi sempre, a detrimento di un ragionamento che affronti in modo completo e complessivo la complicata questione.
I sostenitori dell’allargamento della cittadinanza, se non proprio dell’accoglienza a prescindere, normalmente fanno riferimento alla sinistra (ogni volta mi tocca ripetere che la dicotomia destra/sinistra oggi è ben altra cosa da come la si intendeva fino agli anni ’70 del secolo scorso) la quale, in virtù di questa propensione ad accogliere, si avverte come più buona, più giusta, insomma più umana. Quelli invece che fanno riferimento alla destra (ed area sovranista) ritengono invece che l’immigrazione vada contenuta, che non si possono accogliere tutti; e, a dimostrazione della nocività dell’immigrazione indiscriminata, portano a testimoniare realtà – specialmente nei centri urbani di medie e grandi dimensioni – di paura diffusa, di aumento della violenza, di scippi, insomma di una realtà sociale in forte stato di degradazione.
Sociologicamente, i primi – prevalentemente – appartengono ai ceti sociali medio-alti, con forte presenza dei ceti cosiddetti cognitivi, quelli comunque beneficiati dai privilegi dell’assetto globale, molta incidenza giovanile studentesca (universitaria, spesso fuori-sede), collocati, o ruotanti, maggioritariamente nelle aree dei grandi centri urbani, in particolare nei centri storici di questi ultimi (il cosiddetto popolo della ztl). Mentre i secondi – sempre prevalentemente – appartengono ai ceti popolari, soprattutto delle aree urbane degradate, con scarsità, se non in assenza, di servizi, con alta presenza di lavoratori la cui condizione lavorativa è sempre più compressa sia sul piano salariale che normativo, i quali vedono nella “concorrenza” degli immigrati la causa principale della propria misera, se non disperata, condizione sociale.
Un dato interessante, che conferma quanto scritto prima, ci viene anche dove è stata elevata la partecipazione al voto, come a Bologna, dove si registrano numeri alti di NO proprio nei quartieri popolari dove incide molto la presenza di stranieri: mentre in centro si tocca anche il 90% in periferia, in particolare in zona Savena, invece, è il 40%.
Il tema è davvero grosso, mi scuso per la lunghezza di questo intervento, ma per trattarlo con un minimo di serietà bisogna lasciar perdere il discorso per slogan, ai quali purtroppo siamo abituati. Una forza politica, è vero, deve sintetizzare al massimo il proprio programma, e spesso ridurre a slogan i vari punti, e specialmente su temi così scottanti come l’immigrazione andare direttamente alla “pancia” (vale sia per la destra che per la sinistra). Ma è pur vero che una forza politica che lavora non solo sull’immediato incasso elettorale, ma si pone in termini di prospettiva, ha il dovere di articolare un ragionamento che scaturisce da un’analisi profonda. Traducendo poi, naturalmente, in sintesi adeguate, e anche con slogan, l’analisi e la conseguente e coerente elaborazione teorica.
Quante volte abbiamo sentito la frase “eh, ma gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare!”? In Germania questo ritornello si sentiva già nei primi anni ’80. Gunter Walraff, giornalista tedesco, in quegli anni si “travestì” da turco per testimoniare “l’inferno degli immigrati”, riportando questa sua grande inchiesta nel libro “Faccia da Turco”.
Ma è vera questa affermazione? Sì, è vera, se consideriamo la necessità del nuovo assetto capitalistico, che si apprestava ad affrontare la competizione alla scala globale, impulsata da un capitale finanziario mirante a superare la vecchia geografia, deciso a scardinare le vecchie frontiere e imporre il suo globalismo (con il mondo sovietico in via di sgretolamento, nell’ ‘89 cadeva il Muro di Berlino). In ragione del quale, si muoveva nella direzione della delegittimazione dello stato-nazione. Poi capiremo meglio perché una certa sinistra ha in odio lo stato-nazione, è “no borders”, per la cittadinanza universale… (cara, per esempio, all’iper liberista Riccardo Magi, segretario di +Europa) e perché sulla base di questi parametri gli avversari di questa concezione non internazionalista, ma cosmopolitista, incredibilmente diventano nazionalisti, xenofobi, fascisti neanche a dirlo… anti umani insomma.)
È vero quindi che un po’ alla volta gli italiani non vogliono più fare certi lavori. Ma perché? Un relativo e diffuso benessere li ha ammollati, svirilizzati? Anche, perché no? Non è che sia bello lavorare in fabbrica, raccogliere i pomodori, entrare nelle cisterne, fare i minatori eccetera. Ma limitarsi a queste considerazioni è fare come quel Catalano che in “Quelli della notte” diceva che è meglio stare bene che male, essere ricchi che poveri e cose del genere, qualcosa cioè di talmente evidente da risultare ovvio e scontato, banale.
Il dato fondamentale è che questi lavori un po’ alla volta sono diventano meno “attrattivi” per gli italiani (autoctoni, in generale) perché sempre più dequalificati, perdendo così sia valore economico che sociale. La produttività degli immigrati, a parità di tempo di lavoro, è molto più alta e, cosa fondamentale, molto meno costosa per il datore di lavoro. Con gli italiani a fare sempre più fatica a star dietro alla competizione con gli immigrati, a fare quei lavori che una volta svolgevano con dignità, e di cui erano fieri. Così, poco alla volta, in tanti settori, il lavoratore italiano è stato letteralmente soppiantato dal lavoro degli immigrati.
Tutti conoscono l’espressione “esercito di riserva industriale”, coniata da Karl Marx. Ma molti non l’hanno capita a fondo. Significa molto semplicemente che il capitale ha a disposizione un surplus di manodopera per cui, secondo la ben nota legge della domanda e dell’offerta, riesce ad imporre il prezzo della forza-lavoro ad esso più conveniente. Gli immigrati, utilizzati in questo modo, svolgono quindi, oggettivamente, il ruolo di competitori a ribasso del lavoro.
C’è poco da fare, è così. A queste condizioni, pertanto, esaltare il ruolo della forza-lavoro immigrata nei fatti significa andare contro gli interessi dei lavoratori autoctoni. Certo, una politica sindacale sana (di classe) avrebbe potuto, e dovuto, contrastare questa tendenza imponendo l’applicazione della normativa contrattuale vigente, privando quindi di vantaggiosità il lavoro immigrato… ma non è andata così, per il ben noto “realismo” del nuovo sindacato concertativo dei “cittadini”, non più dei lavoratori.
I sindacati, e la politica in generale, hanno ritenuto fondamentale misurarsi con i “tempi che cambiano”, accettare quindi che il salario diventasse “variabile dipendente” del mercato (Luciano Lama, segretario generale Cgil, 1977, dopo la famosa svolta dell’Eur), via via eliminando gli automatismi (come la scala mobile), e insistere sul tema che i giovani devono smetterla di pensare al “lavoro stabile e garantito”, che la flessibilità è bella, che basta con le rigidità e menate di questo tipo. Come ho già sostenuto nel mio recente intervento “Perché la sinistra è diventata progressista” – https://www.facebook.com/antonio.catalano.100483/posts/pfbid02TS1jJcKBQBGHNQPWWQQKBsKvL1hcevuKgfZvc664rUxLbc8qCdAgLHX5skJciwB9l – è proprio la sinistra, sia politica che sindacale, a proporsi come il miglior e coerente paladino di questo cambio di “mentalità”.
Evidente che questo cambio di mentalità richiedesse anche un cambio delle regole del gioco, della normativa del lavoro figlia della “stabilità”. E così un po’ alla volta la “rigidità” del lavoro viene smantellata da leggi che tuttora scontiamo (dal “pacchetto Treu” ai “Jobs act”), e sempre con l’avallo di governi in cui la sinistra aveva la maggioranza. A conferma che «in Italia un governo di sinistra è l’unico che possa fare politiche di destra», come ebbe a dire nel 1998 l’avvocato Agnelli.
Veloce richiamo all’attualità: già da questo possiamo capire come sia demagogica la strumentalità di questa sinistra che vorrebbe abrogare alcune norme (da lei in precedenza volute) a difesa dei lavoratori e contemporaneamente estendere la cittadinanza, cosa che, incontestabilmente, non fa che aumentare ulteriormente l’arrivo di immigrati e quindi rendere ancor più consistente il numero dell’esercito industriale di riserva… motivo per cui la stragrande maggioranza del popolo italiano non vuole, non può, accettare questa logica, ma non perché sia razzista o menate del genere.
La difesa dell’immigrazionismo, testimonianza di una presunta superiorità morale su una plebe retrograde e inumana, ruota intorno alla mitica figura del “migrante”. La parola immigrato, ormai da anni, è stata sostituita da quella di migrante. Un cambio semantico che ai più sembra innocuo, che anzi rende il discorso più fluido.
La scelta della parola migrante scaturisce da una visione ideologica, collimante con quella con quella globalista. Migrante è un participio presente, implica un’azione che si svolge nel presente. Il migrante è colui che migra, colui che cammina nell’universo mondo, una sorta di pellegrino permanente senza la meta, però, della Terra santa. Il migrante non è statico per definizione, è colui che si stabilisce altrove.
L’elogio della migranza è l’elogio del mondo globale e globalizzato, del cosiddetto Villaggio Globale, figura retorica coniata dallo studioso McLuhan, di un mondo che deve oltrepassare frontiere e confini, che persegue il fine della mescolanza totale, il famoso melting pot.
Il mondo della politica doveva quindi cambiare pelle, basta con partiti, sindacati, associazioni, corpi intermedi tra istituzioni e stato, largo alle nuove espressioni in cui le differenze di sostanza sociale, di classe, smarriscono le vecchie connotazioni. I nuovi partiti, ormai personalizzati, diventano, ognuno a suo modo, puri racimolatori di consenso per il sostegno alle politiche neoliberiste in cui prevalgono sempre più marcatamente le esigenze del Mercato (“lo vogliono i mercati”, “lo vuole l’Europa”…).
Serviva quindi una società liquida e liquefatta, in cui ogni rivendicazione di identità (sociale, culturale, religiosa, sessuale) andava biasimata e ricondotta al rigurgito dell’eterno fascismo, di un fascismo che diventa la spada di damocle di ogni rivendicazione che non poggi su questi presupposti.
Motivo per cui i cosiddetti progressisti – i più coerenti rappresentanti di questa necessità del mercato globalizzato imperniato sul capitale transnazionale finanziario – diventano la migliore ruota di scorta di questa impalcatura. Con un “destra”, maldestramente a dare un colpo al cerchio uno alla botte e, come la “sinistra”, ormai anni luce lontana dalla vecchia identità storica, costretta permanentemente a presentare credenziali di credibilità (distanza dal fascismo storico in primis).
L’immigrato, non più quindi proletario da considerare nuova forza da unire alla vecchia, costretto amaramente ad abbandonare (spesso solo temporaneamente, in attesa di poter far ritorno alla sua patria, come è accaduto per milioni di nostri immigrati) la sua terra, diventa il migrante (economico, ambientale, sessuale, culturale…) da inserire “perché serve”, innestando così nelle società di destinazioni criticità sempre più crescenti.
Il migrante, in questa visione globalista, è l’opposto dell’immigrato tradizionale. Se il primo non mira ad avere dimora fissa, a non riconoscersi nella nazione di “transito”, l’immigrato, al contrario, pur rimanendo saldo e ancorato alle proprie radici culturali, tende a integrarsi, ad affermare la sua identità nel nuovo contesto nel quale è approdato. Tende cioè a riconoscere, e a rispettare, le radici culturali (e religiose) di chi lo ospita; tende a inserirsi nel tessuto sociale della nuova nazione attraverso la lingua, la formazione, il lavoro, ed è più che giusto che questi diventi, nei tempi necessari all’integrazione armonica nella nuova società, cittadino a pieno titolo, perché a lui sta a cuore lo stato di salute del nuovo corpo sociale nel quale si è inserito.
Il migrante, come detto, non tende quindi a integrarsi, considera il nuovo paese come erogatore di servizi – spesso puramente assistenziali – di cui beneficiare, quasi li pretende. Ma quando si rende conto che la realtà non quella dipinta dai cantori del migrantismo ecco che diventa “nervoso”, si comporta senza nessuna attenzione per le regole sociali del paese di “transito”. Motivo per cui molti migranti diventano aggressivi, spesso violenti, manifestando comportamenti “inspiegabilmente” distruttivi, come di frequente accade specialmente dove le concentrazioni sono maggiori (nei grandi centri urbani, principalmente).
Il Censis registra il dato del 75% degli italiani (81 tra le donne) convinti che passeggiare in strada sia più pericoloso rispetto a cinque anni fa e del 67% delle donne che ha paura a rientrare a casa la sera tardi. Un dato, non spiegabile come percezione frutto della propaganda reazionaria della destra o del Vannacci di turno. Inoltre, non si può negare il dato statistico relativo al fatto che in valore percentuale gli stranieri irregolari commettano molti più reati degli italiani.
Se ragioniamo fuori da questo quadro di riferimento, il discorso della cittadinanza diventa solo il pretesto di formule buone per una politica ridotta a spettacolo. Ma le conseguenze di questo irresponsabile teatrino ricadono per intero non sui ceti “accoglienti”, che vivono tranquillamente al riparo della crudeltà di rapporti sociali del mondo della vita.