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Inclusione o dissoluzione?

di Martin Venator - 02/06/2025

Inclusione o dissoluzione?

Fonte: Martin Venator

Inclusione o dissoluzione? Come il concetto di inclusione ha contribuito ad abbassare il livello della scuola.

Negli ultimi decenni il termine inclusione è diventato parola d’ordine in ogni documento ministeriale, progetto scolastico, formazione docente. L’inclusione è presentata come un principio indiscutibile, un valore assoluto, una conquista civile. E in parte lo è: l’idea che la scuola debba accogliere ogni studente, valorizzare le differenze, garantire pari dignità a tutti rappresenta uno dei capisaldi dell'idea democratica. Ma quando questo principio viene trasformato in ideologia e applicato in modo burocratico e semplificato i suoi effetti possono diventare controproducenti.
In nome dell’inclusione, infatti, si è spesso svuotato il rigore, abbassato il livello di apprendimento, evitata la fatica, sacrificato il merito, fino a trasformare la scuola in una zona franca in cui nessuno deve sentirsi messo in discussione, dove la valutazione è sostituita dalla conferma, e l’ignoranza è scambiata per diversità da tutelare.
Andiamo, al solito, per punti.
1) Inclusione come rifiuto della selezione.
Uno degli assi portanti della retorica inclusiva è l’abolizione di ogni forma di “selezione”, considerata per definizione escludente, discriminatoria, “violenta”. In questa visione chiedere troppo, pretendere rigore, giudicare le prestazioni degli studenti è visto come un atto di sopraffazione. Il risultato è che la scuola ha smesso di porre limiti, obiettivi ambiziosi, traguardi difficili: ha smesso cioè di essere un’istituzione formativa e si è trasformata in un contenitore consolatorio. Si pretende che tutti siano “inclusi”, ma per farlo si abbassa il livello, si semplifica, si toglie ogni ostacolo: non si eleva chi è più fragile, si abbassa la scuola per farlo rientrare.
2) Differenziare tutto per non insegnare a nessuno.
La logica inclusiva ha portato con sé una moltiplicazione di strumenti “compensativi”, “dispensativi”, “personalizzati”: PEI, PDP, PAI, BES, DSA, strumenti extra-ordinari pensati per garantire equità. Ma la proliferazione di percorsi paralleli, adattamenti e semplificazioni ha prodotto una scuola a geometria variabile, dove ogni studente ha il “suo” programma, le “sue” verifiche, la “sua” valutazione. In questo scenario non esiste più un sapere comune, un orizzonte condiviso, un metro uguale per tutti. La scuola perde la sua funzione culturale e si dissolve in una serie di prestazioni soggettive, non comparabili, non esigenti. L’unico criterio che resta è “far stare bene” lo studente. Che poi bisogna vedere se ci sta davvero.

3) Valutare senza giudicare: l’erosione del merito.
Nel nome dell’inclusione, anche il concetto di valutazione è stato svuotato. Si parla oggi di “valutazione formativa”, “narrativa”, “descrittiva”: formule che spesso evitano il confronto col giudizio reale. Valutare troppo severamente può “demotivare”, può “escludere”. Meglio allora premiare l’impegno, il percorso, l’emotività, piuttosto che la preparazione. Così, anche chi non studia, chi non si applica, chi rifiuta le regole, viene promosso. Ma se tutti passano, se tutti hanno diritto al successo, il sapere perde valore, e chi davvero si impegna non trova riconoscimento. L’inclusione, in questa forma distorta, uccide la giustizia, confondendo l’equità con l’appiattimento.
4) Il silenziamento del conflitto come prassi educativa.
La retorica inclusiva tende a rimuovere ogni forma di conflitto. Il conflitto è visto come pericoloso, e va evitato: nessuno deve sentirsi frustrato, nessuno deve provare fatica o insicurezza. Ma imparare è sempre un atto faticoso, conflittuale: con sé stessi, con i limiti, con l’ignoranza. La scuola dovrebbe essere il luogo dove si impara ad attraversare questo conflitto, non a rimuoverlo. Eppure oggi molti insegnanti, per paura di “traumatizzare” gli studenti, evitano di correggere severamente, di interrogare in modo esigente, di affrontare i nodi reali. L’inclusione diventa la scorciatoia per evitare la verità.
5) Una scuola “buonista” in funzione del sistema.
Infine, va notato un paradosso: questa inclusione, apparentemente progressista, è in realtà perfettamente funzionale al modello neoliberale. Una scuola che non giudica, non seleziona, non forma spirito critico, produce individui deboli, adattabili, flessibili: perfetti per un mercato che vuole soggetti obbedienti e precari. L’inclusione non emancipa, ma neutralizza. Fa sparire la dimensione politica e sociale del fallimento scolastico, trasformandolo in problema individuale, da affrontare con strumenti psicologici. Così, la scuola si svuota di ogni conflittualità, si appiattisce su standard minimi, e perde ogni forza trasformatrice.
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In buona sintesi: contro l’inclusione ideologica, per una scuola esigente e giusta.

Non si tratta di negare il valore dell’inclusione, ma di liberarla dalla retorica che l’ha trasformata in un grimaldello per la resa educativa. Una scuola inclusiva non è quella che abbassa il livello per non lasciare indietro nessuno ma quella che fornisce a tutti gli strumenti per elevarsi, anche a costo di fatica, di giudizi severi, di prove difficili. Una scuola giusta è esigente, selettiva nel senso nobile: distingue, riconosce, valorizza le capacità. Solo così può davvero includere, cioè rendere protagonisti anche i più fragili. Altrimenti l’inclusione si riduce a una forma sofisticata di esclusione per cui si partecipa tutti ma si impara poco o nulla.