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Israele scheggia impazzita

di Salvo Ardizzone - 20/09/2025

Israele scheggia impazzita

Fonte: Italicum

L’Operazione Fire Summit, lanciata da Israele il 9 settembre contro il Qatar, aveva due obiettivi dichiarati: Khalil al-Hayya e Zaher Jabarin. E che fossero loro lo ha dichiarato il presidente israeliano Isaac Herzog in un’intervista resa al quotidiano Daily Mail. Al-Hayyaproviene da Gaza, storicamente assai vicino alle brigate della Resistenza, è il capo politico di Hamas, succeduto a Yahya Sinwar, a sua volta divenuto capo di Hamas dopo l’uccisione di Haniyeh.Jabarin è il responsabile e coordinatore della Resistenza nella Cisgiordania. Due obiettivi di massimo profilo, che rivelano la totale mancanza di volontà israeliana di trattare un qualsivoglia accordo: se si uccide il decisore politico con cui va intavolata una trattativa, significa che una trattativa non la si vuole, che si punta unicamente sulla forza bruta, a prescindere da ogni altra considerazione. 
L’attacco pare sia stato condotto da 12 velivoli, 8 F-15 e 4 F-35, che dal Mar Rosso hanno lanciato almeno 10 munizioni guidate; i missili hanno sorvolato i cieli dell’Arabia Saudita per colpire un complesso edilizio a disposizione di Hamas nella capitale del Qatar, Doha. Questa è almeno la versione che è emersa. 
I missili hanno centrato il bersaglio, la sala dove abitualmente si riunisce la delegazione di Hamas, ma i delegati non c’erano, pare ci fossero solo i loro cellulari. Essi erano in riunione in un’altra sala vicina, l’ex ufficio di Haniyeh. I morti ci sono tuttavia stati: 6. Fra di essi il figlio di Al-Hayya, Hammad, membro dell’Ufficio Politico del Movimento, e Labbad, capo dell’Ufficio di Al-Hayya, oltre a un membro della sicurezza del Qatar.
E qui si comincia con le tante “stranezze” di un’Operazione che definire opaca è poco. Il raid è stato subito rivendicato con un comunicato congiunto delle IDF e dello ShinBet; un fatto del tutto singolare. Lo ShinBet è il Servizio deputato alla sicurezza interna che non ha alcuna competenza sulle operazioni esterne, che spettano all’Aman, il Servizio militare, con la supervisione del Mossad. 
Sono diverse le possibili motivazioni di questa bizzarria. Una è che l’Aman è al momento in crisi, per non dire in disgrazia. Il Governo, con Netanyahu in testa, ha scaricato primariamente su di lui il fallimento del 7 ottobre, giungendo a ottenere le dimissioni del suo comandante, il generale Aharon Haliva; da allora il suo sostituto, Shlomi Binder, è stato tenuto ai margini delle decisioni sulle operazioni da intraprendere. 
Al contrario, lo Shin Bet, dopo l’allontanamento del suo direttoreRonen Bar, avvenuto al culmine di un feroce scontro con Netanyahu, è ora “normalizzato”, e attende il nuovo capo, il generale David Zini, che, come curriculum, può vantare solo una fede nazional-religiosa spinta al fanatismo e una canina obbedienza a Natanyahu (più in particolare, a Sarah Netanyahu, l’influentissima moglie del Primo Ministro). 
Inoltre, stando a un’indiscrezione pubblicata dal Washington Post, il Direttore del Mossad, David Barnea, si sarebbe rifiutato di usare il suo Servizio per assassinare i leader di Hamas, sia perché lo riteneva un errore clamoroso, sia per non pregiudicarsi i preziosi canali di relazioni che aveva nell’emirato. Con ciò configurando un clamoroso caso d’insubordinazione che mette ancora una volta in mostra la frattura fra il gruppo di potere saldatosi attorno a Netanyahu e l’establishment, soprattutto securitario, che oggi risulta in buona parte smantellato dal Primo Ministro.
Sia come sia, malgrado le smentite, la collaborazione degli USA nel raid è evidente a chiunque conosca appena un poco l’area: in Qatar vi è la base aerea di Al-Udeid, la maggiore del Medio Oriente, e vi sono pure Al-Sayliyya, Um Said, Al-Kirana, le enormi basi logistiche e i magazzini in cui gli americani hanno pre-posizionato i materiali per l’operatività nella regione. Infine, vi è allocata la sede avanzata del CENTCOM. Non vi è nulla che possa volare in quei cieli senza che le imponenti difese aeree americane vengano allertate. Figurarsi che manchino di “vedere” un nutrito squadrone di caccia bombardieri con tutti gli aerei di supporto che necessitano. 
E poi, per le sue azioni a distanza, Israele ha sempre fatto affidamento sugli USA per il rifornimento aereo, l’ISR, il disturbo e la soppressione dei radar, le riprese satellitari, il targeting. Pensare che abbia fatto tutto da solo, in quei cieli, è una frottola colossale. Del resto, nei giorni immediatamente precedenti l’attacco, il circuitare di aerei spia americani e inglesi sull’area è stato continuo. E per inciso: la gran parte di quegli assetti veniva da Sigonella, imprescindibile hub per le imprese americane in Medio Oriente, Africa e anche Ucraina.  
A guardar bene, Fire Summit sembra in tutto e per tutto la riedizione di Rising Lion, l’attacco israeliano all’Iran: l’ennesima proposta negoziale di Witkoff e l’attacco alla delegazione riunita per discuterla, in un gioco di sponda fra USA e Israele. Credere alla ricostruzione fatta dal Wall Street Journal, che gli americani siano stati all’oscuro di tutto, avvisati solo quando i missili erano già in volo e che per questo abbiano informato il Qatar mentre le bombe scoppiavano è francamente troppo.
A far trapelare una tesi assai diversa sono stati gli stessi israeliani che, dopo aver manovrato Trump ora lo svergognano: lunedì 15 settembre l’Agenzia Axios cita ben sette loro funzionari; essi confermano in vario modo che Netanyahu avrebbe informato Trump la mattina dell’attacco, prima del lancio dei missili, con consultazioni a livello sia politico che militare. Se il Presidente USA avesse voluto, avrebbe potuto fermare tutto. Ha semplicemente preferito non farlo e poi fingere di non sapere nulla.  
È una tesi molto, molto più credibile e vicina alla realtà, coerente alla prassi adottata dagli USA, ovvero, che si siano prestati largamente al gioco degli israeliani, e abbiano tentato di scaricarli quando l’operazione è fallita. Del resto, le contraddittorie dichiarazioni di Trump (che ha reputato legittimo l’attacco ai negoziatori di Hamas, ma al contempo non opportuno) e della portavoce della Casa Bianca, dimostrano solo uno stato confusionale non certo una posizione politica. 
Nei fatti, comunque lo si guardi, Fire Summit mina ancora una volta la credibilità americana: se la Casa Bianca sapeva, è complice dell’aggressione a un partner essenziale; se non lo sapeva, non ha il controllo della situazione e va comunque al rimorchio di un alleato sui generis che demolisce gli interessi americani. Non si sa cosa sia peggio. Certo è che, come evidenziato dal Wall Street Journal che riporta uno studio dell’Istituto Internazionale per Studi Strategici, la percezione che Washington sia un partner inaffidabile è stata enormemente rafforzata.  
È ancora il Wall Street Journal a riferire che martedì 9 Trump abbia avuto due telefonate con Netanyahu, la prima molto accesa, la seconda per chiedere i risultati del raid. Secondo il quotidiano Politico, il Presidente USA è frustrato, pare abbia detto che ogni qual volta baleni la possibilità di smorzare le crisi mediorientali Bibi bombardi qualcuno. Ci sarebbe da dire “ben svegliato” se la situazione non fosse drammatica. 
Nei fatti, gli Stati Uniti appaiono a rimorchio delle iniziativeisraeliane, anche le più estemporanee, malgrado ciò sia contro i loro interessi sia regionali che globali. Ciò è frutto di una manifesta incapacità di comprendere la realtà mediorientale, di leggerla correttamente. Esercizio proibitivo per chi pretende che la propria sia l’unica interpretazione possibile e legittima. Incomprensione strutturale aggravata dalla marcata diversità di vedute della gran parte dell’establishment, anche ai livelli più alti. Per esempio, a capo del CENTCOM l’Ammiraglio Brad Cooper ha sostituito il Generale Michael Kurilla – un neocon, sfegatato fan di Israele – ma l’orientamento complessivo del Comando Centrale non è cambiato affatto. 
A seguito di Fire Summit il Qatar è semplicemente furioso: in una dichiarazione ufficiale a commento dell’attacco, il ministro degli Esteri Mohammed al-Thani ha definito Netanyahu una canaglia; giovedì, 11 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, convocato d’urgenza per iniziativa del Qatar, ha condannato l’attacco ma senza fare menzione di Israele, con ciò dimostrando ancora una volta la sua impotenza e, di riflesso, incentivando l’attrattiva di altri Forum come la SCO o i BRICS, meno condizionati da doppi standard. 
Venerdì 12, il primo ministro qatarino, Abdulrahman al-Thani, si è recato a Washington per incontrarsi con Trump, J.D. Vance, Marco Rubio e Witkoff. Stando alle indiscrezioni raccolte dall’Agenzia Axios, il Primo Ministro aveva precedentemente ventilato la possibilità di rivedere la partnership securitaria con gli Stati Uniti, sebbene – a indiscrezioni trapelate – le abbia poi ridimensionate. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha ventilato un nuovo accordo securitario col Qatar: probabile. Ma questo non significa che la crisi sia superata e tutto continui come prima; il Qatar avrà approfittato della situazione per alzare il prezzo, ma la fiducia negli USA è ormai spezzata.
Domenica 14 e lunedì 15 s’è tenuto un vertice arabo-islamico di emergenza a Doha. Stavolta erano presenti i pesi massimi dell’area, da Erdogan a Mohammed Bin Salman, da Mohammed Bin Zayed al presidente iraniano Pezeshkian. Dal vertice non sono scaturite novità dirompenti, non v’era da attendersene, ma il tema della mancanza di affidabilità americana e della concreta minaccia israeliana alla stabilità e alla sicurezza di tutti i paesi della regione è ormai sul tavolo, è dichiaratamente all’ordine del giorno. 
Per la prima volta, e all’unanimità, i vertici delle nazioni islamiche non solo hanno condannato l’attacco senza reticenze né distinguo, ma hanno indicato Israele come la minaccia alla stabilità e alla sicurezza del Medio Oriente. Impensabile fino a poco tempo fa, specie se si pensa che molti di quei gruppi dirigenti appartengono a quella cupola di potere che ha soffocato l’area insieme agli USA e a Israele.Quei paesi hanno preso atto di una situazione irreversibile e si stanno muovendo ormai di conseguenza.
Il segretario di Stato Marco Rubio da domenica 14 è stato inviato nell’area a tentare di mettere una pezza. Assai difficile che ripetere le formule di sempre cancelli l’enormità di ciò che è accaduto. In Israele, ovvia prima tappa del viaggio, il dubbio di Netanyahu è se Trump appoggerà l’annessione della Cisgiordania come risposta al riconoscimento dello stato di Palestina previsto per fine mese da parte di diversi stati. Al di là delle chiacchiere imbarazzate, francamente non me ne stupirei. Ma ciò non muta l’essenza della questione, riassunta dall’israeliano Channel 13: Israele sta affrontando uno tsunami politico e l’isolamento internazionale sta aumentando dopo il fallito attacco in Qatar, tanto da indurre lo stesso Netanyahu a metterlo in conto pubblicamente in una dichiarazione resa lunedì 15. 
In quel discorso, che ha suscitato le veementi critiche della stessa stampa israeliana e il crollo della Borsa, il Premier ha paragonato Israele a Sparta, invocando l’autonomia militare ed economica dell’Entità. Francamente, considerate le caratteristiche di Israele, è stata assai più una farneticazione a beneficio del fanatico gruppo di potere nazional-religioso che un discorso programmatico. 
Fire Summit ha mutato lo scenario con conseguenze enormi, ancora da misurare; in altre parole, si è dimostrato che Israele ha fatto cadere ogni linea rossa, è capace di qualunque azione e gli Stati Uniti gli saranno comunque accanto, a prescindere. Anche in caso di attacco a partner d’antica data e d’impareggiabile valore politico e diplomatico come il Qatar. 
Ovvero, nessuno può ritenersi al sicuro. Con ciò determinando una escalation politica avversa a Israele, entità che s’è fatta paria, distonica agli interessi di tutti, e frantumando quanto resta della credibilità degli USA, che ne escono politicamente fortemente indeboliti. Le ripercussioni all’interno e all’esterno della regione saranno enormi perché, lo si comprenda o no in un Occidente distratto, è una nuova fase che si apre.
Dall’altra parte, spicca che il dibattito israeliano su Fire Summit non verta affatto sulle conseguenze internazionali dell’azione, ma sia schiacciato su tematiche interne come la sorte dei prigionieri nelle mani della Resistenza o l’orgogliosa affermazione di una propria deterrenza, con ciò dimostrando l’egocentrismo, il solipsismo staccato dalla realtà, di un’entità auto confinata in una sorta di mondo parallelo. Di più, in un delirio d’onnipotenza. 
A dirlo chiaramente è stato il Presidente della Knesset, Amir Ohana, secondo cui l’attacco a Doha è un messaggio a tutto il Medio Oriente, a tutto il mondo. E, per dirla tutta, l’alternativa all’attacco a Doha era uno strike contro i dirigenti della Resistenza in Turchia; Israele ha scelto il Qatar perché ha ritenuto che l’Amministrazione Trump potesse gestire le conseguenze con Doha meglio che con la Turchia. Che è come dire rompere i vasi e addossare costi e cocci agli altri.  
Per certi versi, c’è un certo parallelo fra Ucraina e Israele: gli Stati Uniti non sono più in grado di controllare attori che senza di essi crollerebbero all’istante, e ciò perché incapaci di leggere le dinamiche, perché prigionieri di visioni avulse dalla realtà. Dunque, incapaci di visione strategica.
Al di là di tifoserie e preconcetti, questa deriva può portare a una sola cosa: a sbattere, alla rovina dell’egemone e dei suoi partner che si sono posti fuori dal corso della Storia. E, francamente, sarebbe pure tempo. 
Articolo tratto dalla rubrica Il Filo Rosso tenuta dall’Autore sul canale Il Vaso di Pandora.