L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?
di Alessandro Visalli - 31/08/2023
Fonte: Sinistra in rete
Quello che si è manifestato a Johannesburg appare essere un punto di svolta simile a quello degli anni Settanta[1]. Con l'ingresso nei Brics da gennaio 2014 si completa il passaggio dell'Arabia Saudita in nuove alleanze, preludio per l'annunciata chiusura delle basi americane (a giugno annunciata da Bin Salman[2]) e del consolidamento delle transazioni in altra valuta del petrolio. Insieme al gigante arabo entrano anche altri attori di primo piano come l'Egitto, gli Emirati Arabi e l'Iran, in Sud America l'Argentina. Infine, l’importante, sotto il piano simbolico, Etiopia[3].
Impossibile sottovalutare l'evento, se pure atteso (e che spiega lo sforzo per escludervi Putin incriminandolo[4]): tra le cose più importanti c’è che l'Occidente collettivo (ed in particolare l'Europa) perde ogni residua influenza sull'Opec+[5] e quindi sulla geopolitica dell'energia, aspettiamoci benzina a parecchi euro ed energia a valori stabilmente alti (con buona pace di coloro che si attardano contro il cambiamento climatico 'inventato', senza capire che è questione letteralmente di sopravvivenza e non solo del pianeta[6]); in Africa a questo punto abbiamo, da Nord a Sud, tutte le principali potenze schierate contro l'Occidente imperiale[7], o almeno capaci di rivendicare maggiore indipendenza da questo, nessuno può immaginare anche militarmente di andare in Africa contro Egitto, Algeria e Sud Africa insieme, o in Medio Oriente contro Arabia Saudita, Iran, Emirati, e i relativi alleati (senza considerare che ha fatto domanda anche la Turchia); si saldano due colossi d'ordine come Arabia Saudita e Iran (capolavoro della diplomazia cinese) e con Egitto e Emirati diventano il polo inaggirabile della regione; nel cortile di casa degli Usa si saldano Brasile e Argentina, in pratica il centro del subcontinente ha cambiato collocazione.
Il Messico, con Bolivia, Honduras, Venezuela hanno fatto domanda. In estremo oriente ai due colossi della Cina e dell’India, membri storici, hanno fatto domanda il Bangladesh, l’Indonesia, il Kazakistan, la Tailandia, il Vietnam. Seguiranno altri come il Pakistan.
Figura 1 - Membri attuali e da gennaio 2024
Il primo impatto si avrà sulla dinamica delle materie prime (non a caso nel vertice è stato dichiarato che i paesi africani vogliono usarle per svilupparsi) e quindi sulle ragioni di scambio (il prezzo relativo tra materie prime e prodotti intermedi o finali in uno scambio) che fino ad ora hanno arricchito l'Occidente. In termini medi avremo conseguenze sulla centralità del dollaro (che perde definitivamente l'ancoraggio saudita).
Se consideriamo che la sfida cinese (ma a questo punto in prospettiva anche indiana) e russa non si spendono solo in termini di controllo delle materie prime, ma anche di tecnologie, siamo ad una svolta epocale.
Ma conviene andare più ordinatamente, ed evitare di sovrainterpretare gli eventi. I Brics, (originariamente Bric, quando Jim O’Neil propose nel 2001 di nominare in tale modo i quattro paesi emergenti Brasile, Russia, India, Cina) solo nel 2006, quindici anni fa, a margine di un’assemblea dell’ONU decisero di organizzarsi in un coordinamento diplomatico informale e nel 2009 lo trasformarono in una sorta di club permanente (come il G7) nel Summit di Ekaterinburg. Sin dalla dichiarazione del 2009 lo scopo dell’associazione è di instaurare un più equo ordine mondiale multipolare, nel quale, cioè, sia assente un egemone centrale. Nel 2010 venne ammesso il Sudafrica e progressivamente aumentarono le ambizioni. Mentre in una prima fase si trattava sostanzialmente di coordinare la propria azione nelle organizzazioni multipolari a guida occidentale (Onu, FMI, BM, Wto) progressivamente emerse lo scopo di modificarne gli assetti e/o organizzare autonomi organismi di sostegno allo sviluppo. Passa necessariamente per questa nuova agenda la riduzione del ruolo dominante del dollaro (e quello subordinato dell’euro), la capacità di resistere ai ditkat del Fmi e BM e di resistere al rischio di subitanee fughe di capitali e crisi di liquidità, e alle sanzioni unilaterali. Insomma, resistere alle armi di distruzione finanziaria che l’Occidente spesso usa per disciplinare e minacciare il mondo.
Nel 2014, a questo scopo, i Brics decisero a Fortaleza di creare una propria Banca di Sviluppo che avesse il compito di finanziare le iniziative infrastrutturali comuni. Una Banca, si deve notare, aperta a chiunque e dotata di 50 miliardi per investimenti e 100 di riserva. La Banca è inoltre dotata di uno specifico accordo Swap e della piattaforma “Brics Pay”, per usare la moneta dei cinque paesi membri, anziché il dollaro americano.
Fanno parte dei Brics paesi piuttosto eterogenei, classificabili come del ‘secondo’ o ‘terzo’ mondo secondo la vecchia dizione, con una popolazione molto estesa (il primo e secondo, il settimo, nono, e ventiquattresimo, complessivamente circa tre miliardi e trecento milioni di abitanti su otto), una superficie territoriale che vede il primo, terzo, quadro e sesto paese più grande al mondo, un Pil nominale che vede il secondo, quinto decimo ed undicesimo paese (per complessivi circa 24.000 miliardi su 90.000) e un Pil PPA molto più grande con il primo, terzo, sesto, ottavo paese al mondo (per complessivi 49.000 miliardi su 141.000), enorme dotazione di materie prime. Ma anche paesi classificabili come ‘democrazie’ di stampo occidentale (l’India, il Sudafrica, il Brasile) e ‘democrazie autoritarie’ (la Russia) o ‘democrazie popolari’ a partito unico (la Cina). Paesi, infine, con diversi livelli di accordo con l’Occidente e gli Usa (come l’India, capace di stare in relazione contemporaneamente con la Cina, gli Usa e la Russia) o il Sudafrica e lo stesso Brasile, insieme a paesi in rotta di collisione frontale, come la Russia, o latente, come la Cina.
Cosa, dunque, li tiene insieme? In sostanza la storia del colonialismo e l’esperienza del Novecento. Il percorso di avvicinamento tra i paesi è stato infatti prudente e progressivo fino alla vera e propria esplosione di richiesta di adesione di questi ultimi mesi, con sei nuovi paesi accolti come ‘soci fondatori’ a pieno titolo dal gennaio 2024 (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) ed tanti altri in coda (Afganistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Palestina, Messico, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Senegal, Sudan, Siria, Thailandia, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela, Vietnam, Angola, Congo, Guinea e Zimbabwe). Si parla di paesi che sono dei giganti economici e geopolitici, con dotazioni energetiche e di materie prime di primissimo livello e una popolazione cumulata di oltre un miliardo e seicento milioni di abitanti (cosa che fa superare la metà dell’umanità). Si tratta di un’impressionante accelerazione che è figlia dell’indebolimento relativo dell’Occidente sul piano materiale e, tanto più, su quello dell’autorità morale e della capacità di minaccia.
Quello dei Brics, tuttavia, in particolare se viene ulteriormente allargato (anche se magari non proprio a tutti), non è un controblocco egemonico che possa avere l’ambizione di governare il mondo come un nuovo G50 a trazione cinese. Se lo fosse il ‘Club’ dovrebbe essere più piccolo e non contenere troppi potenziali rivali di potenza simile. Qui starebbero insieme letteralmente i nemici storici: l’India ed il Pakistan, l’Iran e l’Arabia Saudita, Siria e Turchia, o comunque a volte rivali, come Argentina e Brasile, o Messico. L’effetto sarebbe una paralisi geopolitica simile a quella che, sia pure in condizioni diverse, affligge l’Europa.
Ma se non è, e neppure può essere, il nucleo di un blocco egemonico nel senso della logica Occidentale, ovvero di quello che Arrighi chiamava sistema di egemonia, cosa ci mostra (in controluce, se vogliamo) questa improvvisa rottura degli argini ed allargamento? Due cose a mio parere:
- che si tratta essenzialmente di un esercizio di autodifesa, resasi necessaria dalla postura aggressiva dell’egemone anglosassone;
- e che recepisce le tre lezioni che negli ultimi anni esso ha impartito.
In altre parole, l’allargamento dei Brics segna, da una parte, la diluizione della potenza relativa cinese nella compagine, dato che crea le premesse di un nuovo e potente polo Medio Orientale, e rafforza quello africano[8]. Infine, fa da contrappeso alla centralità russo-cinese anche l’ingresso di un paese di lingua spagnola in Sudamerica della grande rilevanza come l’Argentina, preludio forse ad altri allargamenti decisivi nel “cortile di casa” degli Usa[9].
Dall’altra, al contempo, il sistema Brics crea un’area di potenziale scambio commerciale e condivisione finanziaria sempre più ampia ed in grado, con il successivo allargamento a questo punto probabile, di raggiungere o superare la rilevanza dei mercati Occidentali. E, infine, crea un drammatico rafforzamento della capacità di governare i flussi di materie prime energetiche grazie all’ingresso simultaneo del paese con 300 miliardi di barili di riserve (mentre il primo, il Venezuela che è un paese ‘amico’ ne ha 304) e del terzo, l’Iran (156), senza dimenticare gli Emirati Arabi Uniti ed il Kuwait (145) che ha fatto domanda. In sostanza, tra i paesi con maggiori riserve, restano fuori solo il Canada (170), l’Iraq (145), gli USA (69) la Libia (48), il secondo e terzo perché sostanzialmente sotto occupazione. Anche guardando la produzione attuale, ovvero l’impatto immediato, su 80 milioni di barili al giorno, i paesi dei Brics ne controllano ora direttamente 38 milioni, ma con i paesi che hanno fatto domanda salirebbero a 50 circa. Considerando invece i consumi gli Stati Uniti sono in deficit di 8 milioni tra produzione e consumo (11/19 milioni) l’Europa, il Giappone sono in deficit e i paesi del Bric hanno un consumo di ca 30 milioni. In sostanza ora sono in grado di controllare il mercato e di fare il prezzo.
Dunque non è un blocco egemonico coeso ed alternativo all’Occidente a guida Usa. Non è il ‘club’ della Cina. Si tratta di un sistema di autodifesa tendenzialmente orizzontale, fondato sul principio che non si vuole più essere dominati da una potenza egoista (e fintamente universalista). Questo lo rende in questa congiuntura del tutto determinante.
È, del resto, una delle più potenti molle interne dello stesso sviluppo cinese e del ‘mandato del cielo’ del Partito Comunista, ma anche della rinascita russa: la memoria delle umiliazioni (più remote nel primo caso, più recenti nel secondo), che l’Occidente ha fatto subire ai paesi che si sono mostrati deboli. Il ricordo di colonialismo e imperialismo e delle sue meccaniche di estrazione del valore tipiche.
Ricordo che si unisce alle “tre lezioni” che la crisi ucraina sta impartendo proprio ora al mondo:
- la prima, che gli Usa possono ‘rubare’ le riserve ed espropriare in modo del tutto illegale i privati cittadini dei paesi che gli si oppongono;
- la seconda, che, al contempo, le temutissime sanzioni non possono piegare un paese dotato di materie prime, clienti e capacità industriale adeguata;
- infine, la terza, che la grande potenza tecnologica militare dell’Occidente non riesce a fare la differenza mentre la sua industria bellica non è più all’altezza di una guerra ad alto attrito.
Insomma, il re è nudo (ma, contemporaneamente, è più cattivo che mai).
Non è un nuovo polo geopolitico compatto, ma bastano queste tre lezioni, unite alla memoria, per lanciare la sfida: non si vuole più essere dominati e si preferisce tentare una strada di autogestione e governo condiviso, per porre fine finalmente alla ‘grande divergenza’ che sussiste da cinquecento anni.
La sfida consiste quindi nel dare vita ad una sorta di nuovo G11 (e poi G30-50), nel quale compensare i propri commerci e creare le proprie riserve strategiche e investimenti per lo sviluppo, un organismo di coordinamento e cooperazione che faccia leva sul controllo dei mercati dell’energia, della finanza (almeno per sé, anche tramite nuove piattaforme di pagamento[10]), protegga e sviluppi le proprie tecnologie, migliori le ragioni di scambio delle merci in modo da far cessare il neoimperialismo Occidentale sul ‘Sud Globale’.
Lo slogan cinese di una “comunità con un futuro condiviso per l’umanità”[11], ispira un approccio cooperativo e pragmatico, particolarmente concentrato sulle esigenze di base di paesi a reddito pro capite ancora basso o medio, alle infrastrutture essenziali, a schemi di reciproco vantaggio.
La Dichiarazione di Johannesburg[12], con la quale chiudiamo, si avvia con la dichiarazione di tre principi ed obiettivi: il partenariato per una crescita reciprocamente accelerata; lo sviluppo sostenibile; il multilateralismo inclusivo. Uno spirito di rispetto, eguaglianza sovrana, democrazia apertura ed inclusività nel quadro di un ordine internazionale più rappresentativo e giusto.
Nel quadro di una riaffermazione della centralità dell’Onu (sostanzialmente messa da parte dalle potenze egemoni, tra cui gli Usa ma anche la Russia), la Dichiarazione esprime “preoccupazione per l’uso di misure coercitive unilaterali, che sono incompatibili con i principi della Carta delle Nazioni Unite e producono effetti negativi soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Ribadiamo il nostro impegno a potenziare e migliorare la governance globale promuovendo un sistema internazionale e multilaterale più agile, efficace, efficiente, rappresentativo, democratico e responsabile”. Ovviamente tale richiesta passa per la maggiore rappresentanza dei mercati emergenti e dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, la difesa dei diritti umani, ma includendovi anche il Diritto allo Sviluppo (introdotto nella Dichiarazione del 1948 dall’allora Urss[13]) e, soprattutto, “in un contesto non selettivo e non politicizzato”, oltre che “in modo costruttivo e senza doppi standard”.
Quindi, e questo è certamente uno dei centri della rivendicazione: “Sosteniamo una riforma globale delle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di Sicurezza, con l’obiettivo di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente, e di aumentare la rappresentanza dei paesi in via di sviluppo tra i membri del Consiglio in modo che possa rispondere adeguatamente alle sfide globali prevalenti e sostenere le le legittime aspirazioni dei paesi emergenti e in via di sviluppo dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, tra cui Brasile, India e Sud Africa, a svolgere un ruolo maggiore negli affari internazionali, in particolare nelle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di Sicurezza”.
Quindi il sostegno ad un sistema commerciale multilaterale, aperto, trasparente, giusto, prevedibile ed inclusivo, non discriminatorio, fondato sulla OMC e il diritto ad un Trattamento speciale e differenziale (S&DT) per i paesi in sviluppo, e la riforma del sistema commerciale con eliminazione delle sanzioni unilaterali ed illegali (come quelle praticate largamente dagli Usa contro i loro nemici pro tempore).
Viene richiesta al punto 10 una riforma generale delle istituzioni di Bretton Woods (FMI e BM), per garantire un ruolo maggiore ai mercati emergenti e la ridefinizione delle quote di partecipazione al FMI (che ora vedono gli Usa altamente sovrarappresentati).
Oltre a fare cenno alle situazioni in Niger, Libia, Sudan e Yemen, la Dichiarazione si spende per la questione palestinese, auspicando una “soluzione a due Stati, che porti alla creazione di uno Stato di Palestina sovrano, indipendente e vitale”. Per quanto attiene la guerra in Ucraina[14] la Dichiarazione, firmata anche dalla Russia, è necessariamente prudente: “Ricordiamo le nostre posizioni nazionali riguardo al conflitto in Ucraina e nei dintorni, espresse nelle sedi appropriate, tra cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Notiamo con apprezzamento le pertinenti proposte di mediazione e di buoni uffici volti alla risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia, compresa la Missione di pace dei leader africani e il percorso proposto per la pace”.
La sfida è quindi lanciata, per un mondo più grande e più giusto, nel quale finalmente abbia termine l’eredità dell’accumulazione originaria a scala mondiale tramite i genocidi e le stragi del Cinquecento, il commercio di rapina del Seicento e Settecento, con l’estensione progressiva dell’economia schiavista, il colonialismo ottocentesco e l’imperialismo primo novecentesco, seguito dal neocolonialismo e perdurante imperialismo trasformatosi nella decolonizzazione.
È questa la memoria che tiene insieme i Brics e questa è la missione che si danno. Nulla di più, nulla di meno.