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L’altra Cina: il Taoismo

di Flores Tovo - 10/06/2020

L’altra Cina: il Taoismo

Fonte: Flores Tovo

Durante la storia cinese il Taoismo, tranne sotto alcune dinastie, tra cui quella C’in e Tang, non è mai stato la religione dominante, come invece lo è stata quasi sempre, da circa 2.500 anni, il Confucianesimo. Eppure, nonostante l’apparente subordinazione  rispetto la religione ufficiale, il Taoismo, che poi si è fuso verso il VII sec. con il Buddhismo C’han, ha sempre avuto una fortissima influenza nella società cinese, poiché esso ha cercato di rispondere ai bisogni di salvezza individuale, di salute fisica e di godimento sessuale, bisogni che il Confucianesimo riteneva secondari. Il Confucianesimo è sempre stato dalla parte del potere politico  per favorirne le sue esigenze di ordine sociale: esso si è consolidato con la promozione di una ritualità capillare manifestata attraverso i “li” (riti popolari), con la selezione severa dei dirigenti, con un’etica basata sulla disciplina familiare e sociale e sul rispetto verso l’autorità. Così esso ha prevalso sul soddisfacimento dei bisogni individuali. Del resto le dinastie cinesi, obbligate dalla natura e dal clima ad organizzare poderosi ed enormi lavori idraulici, non potevano che esercitare un potere dispotico sulla massa numerosissima di contadini obbligati a corvèe temporalmente lunghissime per arginare, canalizzare ed accudire i due grandi fiumi, e cioè lo Huang-He (il Fiume Giallo) e lo Yang-Ze-Kiang (il Fiume Azzurro). Il Taoismo perciò è quasi sempre stata la religione nascosta: dei Cinesi si diceva che erano confuciani di giorno e taoisti di notte. Il potere l’ha sempre temuto perché le grandi rivolte che segnavano spesse volte la fine di una dinastia erano organizzate da personalità taoiste. Non ha caso Mao Zedong ha cercato di cancellarlo dalla storia cinese. Tuttavia esso non finirà mai, poiché esso si esprime attraverso una filosofia ed una metafisica perenni. In questo breve saggio cercheremo di spiegare il significato profondo rivelato dal libro che lo rappresenta, ossia il “Tao te ching”, con lo scopo di dimostrare che la civiltà cinese non è così semplice da comprendere, visto che ha 5.000 anni, e che la sua cultura non è solo quella dell’apparente sussiego e della sudditanza, ma anche quella che vive comunque una propria coscienza soggettiva.

 Il “Tao te ching” (o “Daodejing” nella nuova traslitterazione, ma è preferibile la vecchia per consuetudine), che letteralmente significa “Il libro della Via e della Virtù”, è la prima opera dell’antichità (fu scritta circa duemilacinquecento anni fa, ma i filologi sono incerti sulla età) incentrata su di una visione dialettica dei contrari, che ci sia pervenuta nella sua integrità. Essa è composta da 81 capitoli e da cinquemila parole, con detti a volta lunghi a volta brevi senza un piano sistematico. Lo stile è di tipo aforistico che ha l’intento non di dimostrare quello che si afferma, ma di creare una potente suggestione, e proprio per questo il libro è praticamente intraducibile, come affermò il grande sinologo Granet. In realtà ci sono state molte traduzioni di quest’opera, come quelle di Waley, von Strauss, Wilhelm e molte altre considerate oggi inadeguate. Qui viene usata quella del sinologo olandese J.J.L. Duyvendak, che è abbastanza recente, ma che è già considerata un classico, sia per le soluzioni linguistiche, sia anche per i commenti illuminanti. La traduzione italiana poi è stata curata da A. Devoto (1).

L’autore del libro è stato Lao tzu (oggi si scriverebbe Lao zi), sulla cui vita leggendaria si sa molto poco, sebbene quasi tutti gli studiosi siano d’accordo che lo scrittore sia stato l’ unico estensore anche per la convincente connessione fra le varie parti del testo. Di certo il “Tao te ching” esiste e sulla sua lettura è nata una religione ed una filosofia (in sintesi, una metafisica, direbbe Guènon).

Già il primo capitolo rivela la profondità del pensiero di Lao:

La via veramente via non è una via costante. I Termini veramente termini non sono Termini costanti. Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la madre delle diecimila cose. Così è grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini. Questi due, sebbene abbiano un’origine comune, io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi”.

Duyvendak traduce il termine Tao con “Via”. In effetti il senso originario della parola sembra sia “Via”, al quale si aggiunsero poi i significati di “Ordine dell’universo” e di “Azione giusta” dell’uomo singolo che segue questo ordine. Ma si potrebbe anche tradurlo coi termini di “Norma”, “Dio” e si potrebbe pure concepirlo come “Uno” o “Infinito”, in quanto il Tao non è nominabile, cioè è al di là di ogni determinazione.

Il termine Via è comunque il più usato, ma ha un significato molto diverso da quello che si intende per una via comune: questa indica un percorso concreto con un inizio ed una fine, mentre il Tao (Via) indica perpetuo divenire, cioè è la Via che dentro di sé contiene un eterno divenire, ed entro cui, come vedremo, si alternano gli opposti yin-yang.

Il Tao (si veda il cap.32) è “senza-nome “: esso è il Principio Primo di cui nulla si può dire.

La Via è vuota; nonostante l’uso non si riempie mai. Quanto è insondabile, come l’antenata dei diecimila esseri! Quanto è profonda, come permanesse sempre!…” (cap.4).

Il capitolo 1 e il 32 stabiliscono con chiarezza che il Tao non è costante, poiché Esso è innominabile, così come sono indefinibili sia il Non-essere che l’Essere, che sono solo rispetto al Tao principi secondi.

Come si può notare nel cap.1 il Non-essere ha la preminenza sull’Essere in senso dinamico. Ciò significa che il Non-essere è il principio di non-manifestazione entro il quale l’Essere, che è quindi principio di manifestazione, si manifesta.

Questa straordinaria intuizione intellettiva sarà fatta propria più tardi da pensatori occidentali come Cusano, Hegel, Heidegger ed altri (soprattutto alcuni mistici tedeschi), ma che già in Anassimandro ed Eraclito era presente sia pure in forma germinale.

Il Tao può essere allora considerato come la Possibilità totale, ed in effetti, come scrive il grande sinologo francese Granet il valore comune, non esoterico, della parola tao-te…serve a designare la potenza di realizzazione che caratterizza ogni forza religiosa, e, in particolare l’autorità principesca. Il te si riferisce specialmente a questa Potenza quando essa si delega, si particolarizza e si esercita nel dettaglio” (2).

Tradotto in linguaggio filosofico-metafisico il Tao è quindi Possibilità universale, che in sé è vuota ma che tutto contiene e che tutto rende possibile e compossibile.

L’Essere, che è Potenza del finito, è il principio che rende manifesti “i diecimila esseri”, che altro non sono che la rappresentazione generale di tutti gli enti, cioè del molteplice.

Ciò significa come osservò acutamente Guènon che “… l’Essere” comprende “tutte le possibilità di manifestazione, ma soltanto in quanto esse si manifestano” (3) e perciò al di fuori dell’Essere vi è tutto il resto “…cioè tutte le possibilità di non-manifestazione, e inoltre le possibilità di manifestazione allo stato non manifestato” (4).

Paradossalmente essendo l’Essere il principio di tutti gli enti, esso stesso si trova allo stadio della non-manifestazione (il principio non è mai manifesto, poiché non è un ente) e quindi anche per questo va ad essere interdipendente con il Non-essere. Tutto questo ci fa capire perché il Non-essere abbia la preminenza sull’Essere, proprio perché comprende quest’ultimo, più tutto ciò che non è manifesto, ma che è possibile di manifestazione (…il Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra) (cap.1). Illuminanti sono a tal proposito le parole di Heidegger, che è stato l’ultimo grande filosofo occidentale a riflettere sull’Essere e il Niente e che fu, fra l’altro, aiuto-traduttore e commentatore proprio del “Tao te ching”:

L’essenza del niente consiste nel distogliersi dall’ente, nel prendere le distanze da esso. Solo in questo prendere le distanze, l’ente in quanto tale può divenire manifesto: il niente non è la pura negazione dell’ente. Al contrario il niente, nel suo nientificare, ci rinvia all’ente nella sua manifestatività: il nientificare del niente “è” l’essere” (5).

Il Non-essere allora non significa nulla assoluto: esso è in realtà il non-manifesto che, come dice Heidegger, distogliendosi, permette all’Essere, cioè al manifestato, di manifestarsi. Il Non-essere non può quindi essere considerato, come affermerà Hegel, il puro negativo, mentre l’Essere il puro positivo. Il Non-essere in realtà è, poiché solo con la sua attività di nientificazione, cioè di distogliersi in quanto niente, può lasciar presente l’Essere.

A questo punto bisogna però fare delle dovute chiarificazioni. Quando nel cap. 4 viene detto che “la Via è vuota” non si deve far coincidere il Non-essere con il vuoto.

Il Non-essere in quanto tale è strettamente connesso con L’Essere, ed è proprio per questa compenetrazione che essi si limitano e limitandosi sono finiti. Il Tao non può, invece, essere limitato, perché se così fosse sarebbe contenuto e non il contenitore.

Esso è vuoto, non come vuoto assoluto, ma come vuoto infinito che contiene sia il Non-essere che l’Essere: è vuoto proprio perché illimitato. Il cap. 25, secondo capoverso il TTC (forma abbreviata per indicare il libro del Tao) dice che la Via “…tranquilla e immateriale, esiste da sola e non muta…”. Ciò significa che essa è, come Via in sé, assolutamente trascendente, ma che comprende la vita e della morte, poiché essa è la vera coincidentia oppositorum come l’Infinito di Anassimandro o l’Uno di Eraclito.

L’espressione di un noto filosofo orientalista come G. Pasqualotto sul Tao ci sembra oltremodo appropriata:

Il Tao come vuoto è invece condizione di possibilità di questi oggetti e delle loro funzioni, è il loro ”trascendentale” : in tal senso esso è simultaneamente universale-trascendente e individuale-immanente, proprio come l’aria è diffusa, comune, “universale” e contemporaneamente, propria del respiro di ogni essere vivente” (6).

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un paradosso per la nostra ragione. Il Tao che è Vuoto Infinito deve contenere, perché altrimenti sarebbe vuoto assoluto (un vuoto senza enti), sia il Non-essere (che è la condizione affinché l’Essere sia) che l’Essere. Esso è anche per questo immutabile (perché se mutasse sarebbe finito) e mutabile (perché se non contenesse il Non-essere e l’Essere sarebbe vuoto assoluto). Il Tao è allora la Totalità e l’Uno nel cui “interno” si attua il divenire: in effetti la coincidentia oppositorum implica, proprio a causa del conflitto fra i contrari, il divenire. Il Tao è perfetto in quanto Tao ed imperfetto in quanto tao: ci troviamo, in fondo, al di dentro delle “definizioni” di Giordano Bruno quando affermava che Dio è al di sopra delle cose (Il Trascendente innominabile) e al di dentro delle cose (l’immanente conoscibile).

Il libro del “Chuang-tzu” (o Zhuang zi), che con il “Lieh Tzu” e lo stesso “Tao te ching” costituisce la base metafisico-religiosa del Taoismo, accentua ancor più del libro in oggetto la nota sull’unità del Tao, che così viene evocata.

Questa unità, dividendosi, forma gli esseri; e, formando gli esseri, essa distrugge. Così, ogni essere vivente non ha compimento né distruzione, perché viene riassorbito alla fine nell’unità originaria” (7).

Morte (Non-essere) e vita (Essere) sono la trasformazione, il divenire, il tempo: ma la morte e la vita degli enti non sono vera morte o vera vita, poiché, come dirà in Occidente Anassagora, seguace di Eraclito, esse vengono riassorbite nell’Unità eterna, che è, appunto, la coincidenza fra i contrari. Scriverà ancora Zuang-zi:

Il Tao è così grande che non ha fine, e così piccolo che nulla gli sfugge. Per questo è onnipresente in tutti gli esseri. E’ così vasto che non c’è nulla che non contenga; è così profondo che nessuno può sondarlo” (8).

Il Tao non crea, né provvede. Tutto è in Esso da sempre, in cui  tutto è contenuto e mai si riempie. In esso, come si diceva, vi è un indefinito alternarsi di vita e morte e viceversa e nessun rimedio è possibile. In questo senso abbiamo allora espressa in modo compiuto la concezione dell’eterno ritorno degli opposti (già presente implicitamente in Eraclito e in Anassimandro). Nel Tao, a cui nulla sfugge, l’eterno ritorno viene annunciato nel cap. 25 “…grande significa procedere; procedere significa allontanarsi; allontanarsi significa tornare (al proprio contrario)”, poi nel cap.40 “… il ritorno è il movimento della Via”, e 65 “…questa virtù segreta è profonda, è estesa e risale il corso delle cose, sino a raggiungere la grande uniformità”.

Il Tao, come si diceva, è principio primo, fondamento non fondato: Esso dà origine ai principi secondi (primi rispetto al finito) del Non-essere e dell’Essere che producono i contrari per riassorbirli e poi riproporli in una eterna ruota che mai si ferma. Nel Taoismo, a differenza del Cristianesimo o dell’Ebraismo o dell’Islam, non c’è una finalità ultima, una escatologia, e quindi un Sommo Rimedio o Salvezza Finale. Nel Tao tutto si ripete. La ciclicità del Tao è semmai ripresentazione eterna degli opposti che sono, essi sì sempre “uguali” perché la loro essenza non cambia, ma sempre rinnovati perché i protagonisti (gli enti soggetti al conflitto) cambiano continuamente, poiché il Tao è Possibilità totale e la Possibilità totale non ammette uguaglianza fra enti, né nel passato, né nel presente, né nel futuro, perché se un ente si ripetesse qual è, la Possibilità totale non sarebbe più totale, ma limitata da una ripetizione uguale, il che non è possibile.

Nel Tao, come nel Dio nascosto concepito da Cusano, l’universo non ha un centro o una circonferenza, perché il centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, giacchè centro e circonferenza sono il Tao stesso, che è ovunque e in nessun luogo, sempre al di là di ogni spazio e tempo.

Il Non-essere e l’Essere, in quanto sono i due principi secondi che stabiliscono il non-manifestarsi e il manifestarsi degli enti, esplicano con il loro alternarsi una contrarietà di fondo che genera la contrarietà fra gli enti stessi. Infatti ogni ente è determinato (la determinazione comporta una necessità causale), e quindi non è assolutamente libero, proprio nei due principali atti della sua esistenza: la nascita e la morte. Per quanto riguarda la nascita un individuo non è “… libero né nell’accettazione, né nel rifiuto, né nel momento. In quanto alla morte, egli non è libero di sottrarsi ad essa” (9).

Questo significa che gli enti sono perpetuamente determinati dalla contrarietà dei loro due fondamenti finiti, per cui la contrarietà viene a prolungarsi su tutto l’arco della loro esistenza.

Il Tao rappresenta invero le combinazioni e le connessioni possibili (essendo esso Infinito) di tutti gli enti in base ai suoi due principi secondi ma fondamentali (per il finito). La contrarietà va, quindi, a coinvolgere necessariamente tutti gli enti. E poichè essi non possono sottrarsi a questa lotta perpetua si viene a creare quell’Ordine Universale che già Eraclito e Anassimandro avevano profondamente intuito.

Il pensiero umano si sviluppa originariamente secondo una logica che è la dottrina dei contrari. Una logica dialettica trinitaria, presente in tutte le civiltà più antiche, che veniva concepita inizialmente con espressioni religiose che coglievano il rapporto con l’Infinito Dio in una formula che possiamo semplificare come il finito che vive il senso dell’Infinito che vorrebbe tornare a Lui, e che veniva poi incarnata con le rappresentazioni di Divinità come, per esempio, in Egitto, di Iside, Osiride ed Horus e nel mondo indù di Brahma, Visnù e Shiva.

L’avvento della ragione o meglio dell’Autocoscienza, direbbe Hegel, risale a tempi recentissimi, e si attua quando si passa dalla stupefazione bestiale, alla stupefazione intellettiva, che è il coglimento del proprio fondamento che è l’Infinito.

I primi pionieri del pensiero conservavano un potente legame ombelicale con la Madre Terra e col Mondo Celeste e questo consentiva loro di provare situazioni emotive inclini alla magia e all’estasi. Fu sicuramente l’alternanza fra la vita e la morte, del dì e della notte, del chiaro e dello scuro e delle stesse stagioni a far credere che tutta la natura fosse governata da un lògos originario, quello dei contrari, che in Cina, ben prima del “Tao te ching”, fu rivelato dal più antico libro fra tutti, il “I:ching”, ovvero il “Libro dei Mutamenti”.

In questo libro, infatti, si riteneva che l’universo fosse regolato dalla lotta fra due contrari, interdipendenti e complementari, che assumevano i nomi generalissimi, in quanto rappresentavano tutte le opposizioni, di yin e yang.

All’origine essi erano nient’altro che i principi elementari di classificazione del genere femminile e maschile ed anche il lato oscuro (yin) e il lato luminoso (yang) di una montagna. Con il tempo essi divennero entità cosmologiche e poi principi la cui azione concomitante costituiva sia l’ordine naturale che quello umano. Lo spazio fu perciò inteso come il teatro dell’opposizione fra yin e yang e il tempo l’avvicendamento di essi (10).

Nel libro “I:ching”, che come abbiamo detto è molto più remoto dei testi cinesi e di tutta la storia umana, troviamo già la trasformazione dei due principi nel senso testè riportato. Ci basta citare un famoso e bellissimo brano poetico del commento dell’ultimo esagramma (11) dal nome “Ueì ci – ricominciare” nel quale il duca di Chou così scriveva:

Oggi, distrutto ieri / prepara la resa di Domani / così il Buio / s’incunea nella Luce / il ciclo vitale dell’Universo / si contrappone / non opponendosi mai, / si piega violento / il potere assoluto del Tempo / inflessibile / muta e trasforma l’esistere, / inarrestabile / continuo alternarsi / yang-yin, yang-yin / codice binario / del divenire” (12).

 Gli stessi imperatori celesti erano usi ad interrogare, servendosi di bastoncini o monetine, questo libro, per prendere importanti decisioni di governo; un libro in cui yin e yang rappresentavano un vero e proprio codice binario del divenire al di dentro del Tao.

Il significato primordiale di yin e yang assunse poi con l’andare del tempo connotati sempre più complessi, ma anche più precisi.

Per yin si intese oltre che femmina e oscuro, anche tutto ciò che è umido, passivo, freddo, morbido; per yang, oltre a maschio e splendore di sole, tutto ciò che è attività, secco, caldo, duro (13).

Tutti gli aspetti dell’agire umano cominciarono ad essere spiegati facendo propri, da parte dei Cinesi, questi principi. La medicina (specie l’agopuntura), la chirurgia, le scienze in genere, perfino il cibo (si pensi alla macrobiotica), e l’archittetura furono studiate ed esercitate secondo lo yin e lo yang. Ma soprattutto nell’ambito etico e politico il senso dell’alternanza degli opposti penetrò nella coscienza collettiva di tutti i Cinesi, permettendo loro di superare tutte le più terribili avversità storiche, in quanto i momenti tragici vengono vissuti come l’inevitabile corso del destino (ming) scandito dai tempi dello yin e dello yang.

Ad ogni modo, yin e yang sono già definiti nei “I:ching” come i principi costitutivi del Tao. Essi, è necessario chiarire, non sono derivazione del Tao, ma i modi empirici del Tao stesso, come del resto i lati chiaro-scuro della montagna appartengono alla montagna stessa.

Bisogna invero sottolineare che questi due principi o forme dinamiche sono prodotti dai  due attributi primi del Tao e cioè il Non-essere e l’Essere, come tali non definibili, dai  quali discendono appunto lo yin e lo yang, i due opposti che diventano poi i modi con cui la natura e le società si ordinano. Questi, ripetiamo, vengono a definirsi proprio in base ad osservazioni empiriche, come empirico è il loro “uso” ai fini dell’interpretazione della realtà tutta. Il Tao trascendente ed assoluto (Infinito) diventa il tao (finito) immanente delle cose.

Possiamo dire, e questo è un nostro convincimento, che ci troviamo di fronte ad una veduta teopanista (termine usato in primis da Schelling), in cui Dio è tutto, ma non tutto è Dio. Con ciò si intende dire che Dio (il Tao) comprende tutto, il Non-essere e l’Essere, ma la somma dei due principi non dà il Tao, perché la somma di due finiti, o meglio indefiniti, non dà l’Infinito. Tuttavia il tao, che è presente in tutte le cose, conferisce ad esse la Regola dello yin e dello yang.

Il perpetuo divenire viene spiegato chiaramente nel cap. 42 del “Tao te ching”, in cui per la prima volta nel libro viene menzionata l’opposizione yin-yang:

Uno ha prodotto due; due hanno prodotto tre; tre hanno prodotto i diecimila esseri. I diecimila esseri si scostano dall’elemento yin e abbracciano l’elemento yang. Il soffio vuoto ne fa una mescolanza armoniosa…”.

Il soffio vuoto, che è un modo tipico della filosofia orientale di immaginarsi l’Infinito, è il Tao stesso entro cui nascono e muoiono i diecimila esseri (il molteplice) secondo un processo che è lo stesso osservato nel fr. 10 di Eraclito, il frammento della syllàpsis (Rapporti. Intero non intero, concordante discordante, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose).

Riportiamo ora i passi più significativi, non ancora citati che vanno a corroborare tutto quello che finora abbiamo affermato: tali capitoli, dai quali abbiamo estrapolato i brani più significativi, sono, in ordine di successione, il 2, 22, 24, 41, 43, 58 e che mettono in rilievo l’unità e la contrarietà di yin e yang:

Cap.2 : “Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello; in questo modo si ammette il brutto. / Tutti riconoscono il bene come bene; in questo modo si ammette il non-bene. / Difatti: l’Essere e il Non-essere si generano un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro”.

Cap.22 :” Ciò che è piegato diventa intero. / Ciò che è tortuoso diventa diritto / Ciò che è vuoto diventa pieno / Ciò che è consumato diventa nuovo/ Colui che possiede poco acquista / Colui che possiede molto è indotto in errore…”.

Cap. 24 : “Sulla punta dei piedi non si sta ritti. / Con le gambe larghe non si cammina. / Se ci si esibisce non si brilla. / Se ci si afferma, non ci si manifesta. / Se ci si vanta non si riesce. / Se ci si gloria, non si diventa il capo…”.

Cap. 41 : “La Via chiara è come oscura. / La Via progressiva è come retrograda. / La Via unita è come ruvida. / La Virtù somma è come una valle. / Il bianco più immacolato è come contaminato. / La Virtù più larga è come insufficiente. / La Virtù più forte è come impotente. / La realtà più solida è come tarlata. / Il più grande quadrato non ha angoli. / Il più grande vaso è l’ultimo ad essere finito. / La più grande musica ha il suono più sottile. / La più grande immagine non ha forma. / La Via è nascosta e non ha nomi (di categorie). / Difatti, proprio perché sa prestare, la Via sa portare tutto a compimento”.

Cap. 43 : “La cosa più molle al mondo si precipita contro la cosa più dura al mondo. Niente al mondo è più molle e debole dell’acqua; ma nell’avventarsi contro ciò che è duro e forte, niente può superarla. Senza sostanza, essa penetra in ciò che non ha interstizi. La cosa diventa facile per essa grazie a ciò che non esiste…”.

Cap. 58 : “…Disgrazia! Su di essa si fonda la fortuna. Fortuna! In essa si nasconde la disgrazia…”

Ovviamente nel Tao te ching si possono trovare altri brani nei vari capitoli dalla stessa impostazione. E comunque, al di là delle interpretazioni analitiche che si possono compiere attorno alle frasi riportate, poiché ognuna tratta situazioni diverse, dalla lettura di essa si ricavano alcuni aspetti comuni riguardanti il rapporto fra yin e yang, che così riassumiamo: 1) la loro armonia; 2) la loro alternanza; 3) la loro interdipendenza e complementarietà; 4) la loro ciclicità; 5) la loro onnicomprensività ; 6) il loro relativismo.

Per quanto riguarda il primo punto si può osservare che il concetto dell’armonia fra gli opposti è lo stesso che si trova in Eraclito nei fr. 8, 51, 54 e in altri in cui esso è implicito. Anche il Taoismo accetta il destino e la sua necessaria, armonica e fluttuante realtà. Un libro del tredicesimo secolo scritto da un maestro taoista appartenente alla Scuola della Realtà porta il titolo rivelatore de “Il libro dell’equilibrio e dell’armonia” (14) ed è tutto incentrato su quello che si va scrivendo.

Il secondo aspetto, quello dell’alternanza degli opposti e della loro interdipendenza è stato esaminato in precedenza. Semmai possiamo aggiungere un chiarimento ulteriore ponendoci la domanda su come si sviluppa tale connessione. Ebbene si può anche in questo caso rilevare come i due opposti siano entrambi empirici e positivi, in quanto si riferiscono a qualcosa di esistente, e che si pongono all’interno di una loro lotta che non ha mai un fine ultimo, ovvero una soluzione escatologica. Il famoso simbolo del Tao, il T’ai chi tù, ci fornisce di per sé il senso del procedere dialettico. Se infatti lo si interpreta “…non su base geometrica, come un insieme di forme e superfici statiche, ma su base fisica, come campo di forze in azione…” (15) si riscontra all’interno di ciascuna goccia (mogatama) e precisamente nella parte più gonfia un punto del colore del mogatama opposto. In tal senso non solo viene suggerita l’idea di un movimento ondulatorio (e non può non esserlo), ma soprattutto l’idea della complementarietà dei due colori opposti (i colori luminosi e forti sono yang, i colori scuri sono yin).

Il fisico F. Capra riporta con un esempio geometrico l’unità dinamica dello yin e dello yang. Se, egli afferma, si considera un punto che si muove lungo una circonferenza e si proietta il suo movimento su di uno schermo, detto punto diventa una oscillazione fra due punti estremi (yin e yang).

Il punto gira sulla circonferenza con velocità costante, ma nella proiezione rallenta quando raggiunge le estremità, inverte il moto e quindi accelera di nuovo, poi rallenta ancora e così via, in cicli senza fine. In ogni proiezione di questo tipo, il moto circolare apparirà come una oscillazione tra due punti opposti, ma nel movimento stesso gli opposti sono unificati e superati” (16).

Tale immagine ci dà sia il senso della interdipendenza fra i due contrari (punto terzo) e della loro ciclicità (punto quarto). Le oscillazioni del punto sulla circonferenza ci indicano come ci siano varie fasi durante il movimento, fasi in cui un opposto prevale sull’altro e viceversa e che mentre tutto trascorre si toccano i punti estremi. Ma quando un opposto sembra essere giunto al completo dominio sull’altro, ecco che l’opposto apparentemente annientato risale prima lentamente, poi sempre più velocemente la china sino a diventare lui il dominatore, per poi, di nuovo lentamente soccombere e così via in un divenire che non finisce mai.

Questa veduta del tempo fu presente in tutte le culture antiche, ed è presente ancor oggi nel mondo orientale non islamico. Infatti solo le religioni monoteiste di origine semita, tra cui l’Ebraismo e il Cristianesimo, non aderirono a tale dottrina. La spiegazione di ciò è abbastanza semplice: si tratta di religioni fondate sulla fede e sui dogmi, e in cui si crede ad un Dio al di là del finito, creatore e soprattutto provvidenziale, e perciò viene esclusa in modo assoluto a livello teologico e metafisico l’esistenza di un principio autoregolatore insito nella natura stessa, quale appunto l’armonia e il conflitto fra contrari.

La ciclicità è concepita di solito con la veduta temporale delle quattro età che trovano storicamente la prima esplicitazione scritta nelle “Upanishad vediche” e poi nel mondo greco con Esiodo, Empedocle, Platone ed altri. La ripetizione ciclica non deve comunque essere intesa come una ripetizione degli eventi tali e quali essi accadono. L’eterno ritorno dell’uguale sarà la veduta temporale propria degli Stoici e poi di Nietzsche. Ciò che si ripete non sono gli avvenimenti così come sono, bensì le costanti yin-yang che ripropongono perennemente la loro logica binaria ed unitaria, mentre gli accadimenti storici o naturali presentano sempre protagonisti nuovi che comunque si troveranno ad agire all’interno di quella logica. In effetti se il Tao è la Possibilità totale, in cui nulla può ripetersi esattamente come è stato.

La ciclicità del Tao implica poi, e siamo al quinto aspetto, la sua presenza in ogni momento ed in ognuno del “diecimila esseri”. Il succedersi delle stagioni, delle fortune e delle disgrazie, delle paci e delle guerre e così via, altro non sono che la compresenza immanente dello yin e dello yang in ogni dove. Essa consiste nel fatto che “…i qualche cosa e i niente, i dentro e i fuori, i solidi e i vuoti, così come gli svegli e gli addormentati… sono reciprocamente necessari” (17). E in quanto necessità il principio si pone come soluzione-spiegazione di ogni esistenza e non-esistenza. Tale necessità, che è dinamica, è da intendersi come necessità necessitata (riferita agli enti) di tipo relazionale. Se tutto diviene, nessun ente è statico e perciò non è sostanza come viene intesa aristotelicamente (18).

Ogni ente poi, essendo pervaso dal principio dei contrari, è strettamente legato in un rapporto necessario con gli altri e con il mondo, per cui non può sfuggire a tale logica.

La relazionalità e il relativismo sono perciò l’ultima caratteristica essenziale che legano lo yin e lo yang.

A questo punto si comprende come tutti gli aspetti generali della dialettica taoista siano profondamente intersecati fra loro, tanto che si possono giudicare come le tante facce di una stessa Realtà.

Il Taoismo, se analizzato dal punto di vista metafisico, è questo. E’ un pensiero come si può constatare assai simile e forse contemporaneo a quello eracliteo, tanto che si è pensato che attraverso le vie carovaniere ci possa essere stato attraverso i mercanti che portavano con sé libri sapienziali un contatto culturale fra il mondo cinese e quello greco (fatto molto probabile). C’è da dire comunque che il Taoismo non fu solo una filosofia, ma una vera e propria religione, che, in quanto tale, si adottò di un apparato ritualistico che veniva celebrato da un clero monacale. Molti furono i santi e gli eremiti che si allontanavano dal mondo costruendo straordinari e bellissimi monasteri sui cocuzzoli delle montagne. Purtroppo solo quattro dei circa quattromila e cinquecento monasteri sono sopravvissuti intatti alla parossistica e criminale distruzione perpetrata dal cosiddetto grande timoniere Mao Zedong durante la rivoluzione culturale nella seconda metà degli anni Sessanta. C’è da dire comunque che oggi alcuni vengono ricostruiti.

Non è compito di questo lavoro descrivere sugli aspetti pratico-religiosi del Taoismo: come si è anticipato all’inizio di questo saggio diciamo solo che fu, ed è, per quel poco di originale che è rimasto, una religione rivolta alla persona piuttosto che alla collettività, e perciò fu antagonista costante del Confucianesimo; e proprio per questa sua peculiarità fu molto seguita ed esercitata nelle pratiche quotidiane riguardanti la cura del corpo, della sessualità e della alimentazione. Addirittura si riteneva che si potesse raggiungere l’immortalità del proprio fisico se si attuavano precise metodologie.

Importantissima è stata l’influenza che esso ha avuto in campo politico: la pratica del wei-wu-wei (dell’agire non-agendo) fu fondamentale nell’ispirare la condotta politica di moltissimi imperatori. “Il non-agire non è affatto l’inerzia, al contrario, è la pienezza dell’attività, ma un’attività trascendente e tutta interiore, non-manifestata, in unione col principio, dunque al di là di tutte le distinzioni e di tutte le apparenze che il volgo prende a torto per la realtà stessa, mentre non sono che un riflesso più o meno lontano” (19).

Il Taoismo rappresenta quindi un profondo insegnamento non solo filosofico o religioso, ma insegna anche una pratica per la vita quotidiana. Infatti, al di là degli aspetti magici e superstiziosi, esso ammaestra che nulla è separato o a se stante o che è scontato o definitivo, perché nulla è del tutto nero o del tutto chiaro. In tal modo bisogna sempre stare attenti a se stessi e a quello che si fa (…ho indagato me stesso… diceva Eraclito nel fr. 101). Nel contempo, pur accettando il relativismo relazionale dell’esistenza, si va a seguire un principio regolatore col quale si dà un senso a se stessi e al mondo senza cadere nel nichilismo passivo che oggi impera nella nostra società. In questo senso il Taoismo è da ritenersi un pensiero che mai tramonterà, anche perché “lo spirito della valle mai non muore”.

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NOTE

1.      J.J.L.DUYVENDAK, Il Tao te ching, ed. Adelphi, Milano 1973, curata e tradotta in italiano da A. Devoto. Questa opera è considerata ormai un classico per la sua chiarezza e per i suoi commenti.

2.      M.GRANET, La religione dei cinesi, ed. Adelphi, Milano 1973, p.140.

3.      R.GUENON, Gli stati molteplici dell’essere, ed. Luni Editrice, Milano 2003, p.38.

4.      IDEM, p.38.

5.      M.HEIDEGGER, Seminari, ed. Adelphi, Milano 1992, p.132.

6.      G.PASQUALOTTO, Il tao della filosofia, Pratiche Editrice, Parma 1989, 23-24.

7.      ZUANG-ZI, ed. Adelphi, Milano 1982, curata da LIOU KIA-HWAY, p.25.

8.      IDEM, P.128.

9.      R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, p.141.

10.   M.GRANET, La religione, cit., pp. 26-27.

11.  Gli esagrammi sono la composizione di sei linee che possono essere yin o yang e delle loro combinazioni possibili. La linea yin è disegnata con una linea discontinua – – – mentre la linea yang con una continua —. Gli esagrammi sono composti da 2 trigrammi, uno superiore ed uno inferiore, le cui combinazioni sono otto per ciascuno, per cui le combinazioni che si ottengono risultano di 64 esagrammi.

12.  I.CHING, (a cura di E.J.CORDIGLIA) ed. Mediterranee, Roma 1982.

13.  FUNG-YU-LAN, Storia della filosofia cinese, ed. Mondatori, Milano 1990, p.110.

14. Si veda T.CLEARY (a cura di), ”Il libro dell’equilibrio e dell’armonia”, ed. Mondatori, Milano 1991.

15.  G.PASQUALOTTO, Il tao, cit., p.73.

16.  F.CAPRA, Il tao della fisica, ed. Adelphi, Milano 1982, p.168.

17. A.W.WATTS, Il tao. La via dell’acqua che scorre, Ubaldini Editore, Roma 1971, p.44.

18. Il concetto di sostanza deriva dal latino “substantia”, che significa “ciò che sta sotto”, e traduce le parole greche ousìa e tò hypokèimenon. Esso indica il soggetto reale e logico di una proposizione (l’ente). Aristotele la chiamava sinolo, cioè un insieme di materia e forma. La forma costituiva l’essenza stessa della sostanza, la cui caratteristica principale consisteva nella sua permanenza ed immutabilità, che escludeva di fatto la concezione dell’evoluzionismo. Assai differente sarà invece il concetto di sostanza in Hegel, che si avvicina alquanto alla veduta taoista.

19. R.GUENON, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, ed. Adelphi, Milano 1993, p.105.

 

BIBLIOGRAFIA

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