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La democrazia riservata ai buoni

di Marco Tarchi - 06/05/2025

La democrazia riservata ai buoni

Fonte: Insideover

Che la condanna all’ineleggibilità di Marine Le Pen per cinque anni – con esecuzione immediata anche nel caso, poi concretizzatosi, di un ricorso in appello – avrebbe riattizzato per l’ennesima volta il classico scontro tra destre e sinistre, con le prime a lamentarsi del carattere politico della sentenza contro la candidata data dai sondaggi al 37% al primo turno dell’elezione presidenziale del 2027, e le seconde a ribattere che le sentenze vanno rispettate e che chi commette un reato deve essere punito senza sconti per il suo ruolo politico, era scontato ancora prima che il verdetto venisse pronunciato. E i commenti che si sono ascoltati o letti nei giorni successivi alla sentenza non hanno fatto altro che ribadirlo, con l’aggiunta dei toni comprensibilmente irritati o sconsolati di parte conservatrice e di quelli altrettanto ovviamente gongolanti o irridenti degli esponenti del versante progressista.
C’era anche da aspettarsi che la vicenda, già di per sé clamorosa, desse la stura alla consueta corsa alla delegittimazione reciproca dei due schieramenti, in cui da un lato si è fatto ricorso alla mai spuntata arma della denuncia del complotto – dell’Unione europea, secondo Matteo Salvini – e dall’altro ci si è affidati a comparazioni mistificanti – con il portavoce di Avs Bonelli che ha accostato l’uso di fondi destinati ad assistenti all’Europarlamento e utilizzati per far lavorare costoro a profitto del partito in Francia ai famosi milioni del finanziamento pubblico della Lega finiti nel buco nero del “cerchio magico” bossiano.

Un dilemma lungo un secolo
Quello che in pochi potevano supporre è che l’unica stecca a questo coro venisse dall’avversario più dichiarato e costante della leader del Rassemblement national, Jean-Luc Mélenchon, che non ha avuto remore nel sostenere che “la decisione di destituire un eletto dovrebbe spettare al popolo”, come del resto prevede il progetto di “referendum revocativo”, versione transalpina dell’istituto del recall statunitense, proposto già da anni dal capofila della sinistra radicale francese. Presentata dai media come una sorta di romantico sfogo di nostalgia per un duello sospirato da tempo e mancato sia nel 2017 che nel 2022 per l’intrusione di Macron, questa presa di posizione, anticipata di pochi minuti dal comunicato collegiale de La France Insoumise, in cui si esternava il «rifiuto di principio dell’impossibilità di ricorso per qualsiasi imputato» e quello di “utilizzare un tribunale come strumento di azione per sbarazzarsi del Rassemblement national”, da combattere invece “nelle urne e nelle piazze”, pone invece un problema cruciale per il presente e il futuro della democrazia.
Un dilemma che si manifesta periodicamente sulla scena politica da oltre un secolo (perlomeno dai tempi della Repubblica di Weimar) ed è rimasto sino ad epoca recente confinato negli angusti limiti della discussione accademica fra giuristi: il rapporto fra legalità e legittimità in ambito politico. Con la prima dettata e garantita da un sistema di norme e la seconda dall’unzione popolare testimoniata dai risultati elettorali.
A seguito delle vicende di Tangentopoli, il nocciolo della questione è emerso in Italia da ormai più di trent’anni e ha suscitato un vivace dibattito politico e culturale, tuttora presente nella memoria collettiva. Il caso scoppiato Oltralpe in queste ultime settimane presenta tuttavia un profilo molto diverso da quello che ha caratterizzato l’epico e a volte tragicomico conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani travestiti da “garantisti” e “giustizialisti” e merita di essere analizzato nella sua specifica anomalia, per le conseguenze tutt’altro che trascurabili che rischia di suscitare e per le fin troppo palesi analogie con altre vicende recenti della politica europea, che hanno spinto studiosi di diverso orientamento politico a parlare di ombre sulla corretta applicazione delle regole del gioco democratico.

Lecito evidente, sentenza criticabile
Ci sono innanzitutto un paio di punti da chiarire. Primo: i fatti da cui è scaturita la condanna di Le Pen non hanno nulla a che vedere con vicende di corruzione personale e neppure di finanziamento illegale di un partito. Niente tangenti estorte con accordi di scambio, niente mediazioni affaristiche, nessun pacco di banconote nascoste in cassaforte o sotto il letto. Che al Front National (oggi divenuto Rassemblement National) sia stato utile impiegare nel lavoro quotidiano sul territorio francese un certo numero di propri militanti pagati dall’Europarlamento per fare da assistenti dei deputati all’assemblea di Strasburgo, è sicuro: l’illecito è quindi difficilmente contestabile. E non è giustificabile con il ricorso all’argomento, pur fondato, che «così fan tutti»: la condotta è stata così incauta ed evidente – il partito ha dichiarato l’utilizzo dei fondi in questione nei propri bilanci pubblici annuali, facendo così scattare la procedura giudiziaria – da aggiungere semmai al reato il peccato di ingenuità.
Secondo: è vero che la legge che l’ha messa adesso in questa difficilissima situazione è stata da Marine Le Pen fortemente difesa e sostenuta in più sedi, anche con interventi televisivi oggi riproposti da giornali e social, addirittura proponendo di trasformare la condanna all’ineleggibilità da temporanea a permanente. Ma è altrettanto vero che quella richiesta si riferiva soltanto ai casi in cui il reato commesso avesse comportato un arricchimento personale del condannato o una tangente illegale concessa al partito in cambio di favori.
Stabilito ciò, il dato che rende inequivocabilmente politica la sentenza pronunciata da un tribunale che – si noti – è composto da giudici di una sezione speciale, delegata ad occuparsi esclusivamente di questo genere di imputazioni, è la decisione di rendere immediatamente esecutiva la pena comminata (già di per sé molto elevata: 4 anni di reclusione, di cui 2 con braccialetto elettronico). Il tutto aggravato dalle motivazioni che i tre giudici hanno addotto a sostegno della loro scelta: il “fondato rischio” di una reiterazione del delitto e il “grave rischio di turbativa della vita pubblica” nel caso in cui la condannata fosse rimasta in libertà ed avesse potuto presentarsi alla prossima elezione presidenziale.
Ora, occorre una massiccia dose di faziosità per sottoscrivere entrambe le ragioni addotte. Chi mai potrebbe immaginare che, all’indomani di una condanna così pubblicizzata, la più accreditata candidata alla conquista dell’Eliseo avrebbe continuato a perpetrare l’illecito di cui le si è fatto carico (e che peraltro non si è più verificato a partire dal 2014)? Un sospetto di questo genere è, più ancora che infondato, palesemente risibile. E quanto alla seconda illazione, non è forse vero che a turbare la vita pubblica è semmai l’eliminazione per via giudiziaria di una pretendente alla presidenza della Repubblica che ha già ora dalla sua il sostegno di oltre un terzo dell’elettorato, piuttosto che la sua partecipazione a quell’elezione?

Il confronto con il “caso Bayrou”
Le cose vanno quindi guardate in faccia. Ricorrendo al suo potere discrezionale, la corte parigina ha falsato la corsa elettorale e pregiudicato la libertà di scelta degli elettori francesi. Cosa che non è accaduta in casi analoghi. Per sincerarsene, basta constatare che cos’è accaduto al Mouvement Démocrate dell’attuale primo ministro francese François Bayrou, imputato dello stesso reato: fondi pubblici europei che dovevano essere destinati per pagare gli assistenti parlamentari ma in realtà versati a membri del movimento. Il 5 febbraio 2024, otto di costoro sono stati condannati a pene detentive fra i 10 e i 18 mesi (poi sospese), a multe dai 10.000 ai 50.000 euro, e a 2 anni di ineleggibilità (anch’essa sospesa). E Bayrou è stato assolto sulla base del principio in dubio pro reo, consentendogli così di accedere, 10 mesi più tardi, alla guida del Governo.
Agendo nel modo indicato, la magistratura francese – il cui sindacato ha in più occasioni espresso apertamente la sua ostilità verso “l’estrema destra” (si legga Rassemblement national) e il timore di vederla conquistare la guida del Paese, ed alcuni dei cui esponenti sono arrivati al punto di collocare all’interno di un ufficio giudiziario una bacheca, poeticamente denominata mur des côns, sulla quale affiggere le foto dei politici detestati – ha offerto l’ennesima replica del metodo Al Capone: se non posso metterti fuori gioco in uno scontro frontale, lo farò con un sotterfugio. Negli Usa dell’epoca l’accusa di evasione fiscale, oggi quella di uso disinvolto di fondi pubblici
Questo criterio non è peraltro rimasto circoscritto a questo caso, ma anzi pare essere diventato particolarmente gradito a quei governanti di Paesi nominalmente democratici che si trovano improvvisamente in imbarazzo di fronte al crescente consenso di inattesi outsiders, generalmente bollati dell’etichetta infamante di populismo o addirittura da quella ancora più squalificante di estrema destra.

Romania, la politica che precaria il diritto
Anche se è rapidamente scomparsa dalle pagine dei quotidiani, la vicenda rumena culminata nella messa al bando del candidato “filorusso” Georgescu dalla competizione elettorale per la presidenza della Repubblica che, stando ai sondaggi, avrebbe quasi certamente vinto è emblematico di questa situazione, che ormai non costituisce più un unicum. E anche in questo caso è opportuno chiarire in che modo il risultato desiderato è stato raggiunto.
Nel dicembre dello scorso anno, la Corte Costituzionale della Romania – composta di nove membri tutti nominati dal potere politico, cioè dai presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato – ha annullato, a 48 ore dal ballottaggio fra i due candidati più votati al primo turno la procedura elettorale nel suo complesso. La motivazione della sconcertante sentenza, disponibile in traduzione italiana integrale, è, paragrafo dopo paragrafo, una prova trasparente della prevaricazione degli interessi politici di parte sulla presunta imparzialità del diritto. E tuttavia, ad avviso dell’autorevole giurista italiano che l’ha chiosata, Fulco Lanchester, è giustifica dalla “emergenza democratica” in cui verserebbe la Romania, “derivante dalla attuale situazione del quadro geopolitico e dalla dinamica politico-istituzionale interna”, talché “Le osservazioni operate dalla Corte sulla necessità di garantire il mantenimento di standard di correttezza e veridicità del procedimento elettorale” sarebbero “condivisibili, anche se desta dubbi l’intervento operato in extremis, che favorisce obbiettivamente la posizione del Primo ministro in carica Ion-Marcel Ciolacu, presidente del partito socialdemocratico, arrivato al terzo posto nella competizione del 24 novembre”.
Quanto fondato sia il giudizio del costituzionalista liberale, lo si può appurare scorrendo il testo del giudizio della Corte. Quest’ultima dichiara di aver deliberato sulla base di “note informative del Ministero dell’Interno” del Governo socialdemocratico, basate a loro volta su informazioni dei servizi segreti desecretate all’indomani del voto che aveva messo fuori gioco Ciolacu (il quale, si noti, ad urne chiuse e basandosi sulle previsioni dei sondaggi di pochi giorni prima, che lo davano vincente, aveva parlato di “un’elezione assolutamente trasparente”) e di aver riscontrato tracce di gravi interventi esterni – cioè russi – volti a manipolare l’opinione degli elettori. O, per dirla con le parole stesse contenute nel documento ufficiale, “un uso non trasparente della tecnologia digitale”, dato che “l’esposizione significativa di un candidato ha portato alla riduzione direttamente proporzionale dell’esposizione mediatica online degli altri candidati nel procedimento elettorale”.

Lo Stato come strumento di parte
Persino chi è ormai da trent’anni abituato all’uso della museruola della legge sulla par condicio che Scalfaro riuscì ad imporre per indebolire il detestato Berlusconi non può non rendersi conto delle conseguenze che affermazioni di questo tipo sono destinate a comportare sul futuro di ciò che resta della democrazia nei Paesi occidentali che a parole ne osannano le virtù. Se infatti, in un’epoca in cui cresce di continuo il numero di coloro che, per informarsi, ricorrono alle “reti sociali”, per loro natura pressoché incontrollabili – a meno di non mettere in atto espedienti censori, come accade in paesi autoritari con grande scandalo dei commentatori liberali –, il favore degli influencers per un determinato candidato o partito o l’esponenziale aumento della sua visibilità causato dalla logica virale degli algoritmi dovesse essere considerato un fattore sufficiente a invalidare un’elezione, c’è da scommettere che nei prossimi anni o decenni di competizioni elettorali valide ne avremmo ben poche o nessuna. Con grande soddisfazione di quanti, sempre più numerosi, da tempo vituperano i “voti di pancia” per soggetti politici da loro osteggiati e il comportamento “irrazionale” di elettori a cui si vorrebbero infliggere corsi di formazione e “patentini” per poter esercitare il diritto ad esprimere le proprie preferenze politiche.
Che questo sia un rischio concreto, e non un’affermazione polemica, è la stessa sentenza rumena a chiarirlo, laddove ammette lo scopo pedagogico della decisione assunta dalla Corte, volta – si legge – a “rafforzare la resilienza degli elettori, anche attraverso la sensibilizzazione dell’elettorato all’uso delle tecnologie digitali nelle elezioni, in particolare attraverso la fornitura di informazioni e sostegno adeguati. Pertanto, lo Stato deve far fronte alle sfide e ai rischi generati dalle campagne di disinformazione organizzate”.
Sono frasi che fanno accapponare la pelle a chiunque sia affezionato al concetto di democrazia, cioè di concessione al popolo del diritto di scegliere da chi farsi governare. Chi fornirebbe ai cittadini le informazioni e il sostegno “adeguati” di cui parla la sentenza? Quale “uso delle tecnologie digitali” dovrebbe essere loro imposto? E da chi? La risposta è esplicita: dallo Stato, fatto strumento di parte contro le parti politiche sgradite. Si esplicita così la considerazione della popolazione come una massa di beoti incapaci di discernimento, stregati da TikTok o da Instagram, condotti al suicidio (politico) da influencers in veste di replicanti del pifferaio di Hamelin. Una versione occidentale e soft delle motivazioni con cui i tribunali sovietici, fino a qualche decennio fa, spedivano i dissidenti in ospedali psichiatrici per aiutarli a riconoscere la retta via e curare le loro “deviazioni”. Una sorta di regola del contrappasso che ha di nuovo per protagonista l’orso o orco russo, ieri rappresentato nell’uniforme del Kgb e oggi in quelle del Putin finanziatore presunto, con 381.000 euro, di alcune star dei social scese in campo a favore di Georgescu.

La democrazia riservata ai buoni
Quel che la sentenza peraltro non dice, ma che il giornalista investigativo Lee Fang ha rivelato su Substack, è che le critiche rivolte da Georgescu all’Alleanza Atlantica nel corso della campagna elettorale “hanno allarmato i funzionari statunitensi e della Nato”, dato che “la Romania è il punto di partenza per i programmi di addestramento della Nato destinati ai piloti ucraini e ospita un progetto di costruzione che porterà alla realizzazione della più grande base Nato in Europa”, che sorgerà nei pressi dell’attuale base militare Mihail Kogalniceanu, situata vicino a Costanza, che sarà adeguatamente ampliata. E, alla luce di ciò non è certo un caso che, fra le Ong finanziate dagli Usa che si sono distinte nelle accuse mosse a Georgescu, ci sia Expert Forum, la quale ha ipotizzato che TikTok abbia violato i suoi termini di utilizzo consentendo la diffusione di contenuti pro-Georgescu durante le elezioni. Septimius Pârvu, direttore esecutivo dell’organizzazione, ha dichiarato in un recente webinar che alcuni account TikTok pro-Georgescu erano stati creati nel 2016, sostenendo che ciò provava l’esistenza di una “operazione a lungo termine”. I registri federali mostrano che l’Ambasciata degli Stati Uniti a Bucarest ha fornito un flusso costante di denaro a Expert Forum. L’ultimo contratto assegna al gruppo 79.964 dollari per sviluppare una “soluzione integrata contro il regresso democratico in Romania”.
E non è finita qui. Altre sorprese sono da attendersi in Polonia, dove l’imminente scontro tra il candidato alla Presidenza sponsorizzato dal “volenteroso” Tusk e il suo rivale sovranista sta dando luogo ad una lotta senza esclusione di colpi, con il rifiuto del Governo di riconoscere le sentenze del Tribunale costituzionale (formato da giudici nominati dal precedente esecutivo) e la sospensione dell’erogazione dei fondi previsti dalla legge al PiS in nome di una presunta “giustizia di transizione”. Insomma, come ha fatto notare lo storico Dino Cofrancesco, “c’è democrazia quando vincono i “buoni”, non quando prevalgono le masse gregarie, corrotte e ingannate da “politici filorussi nostalgici del nazismo e da influencer popolari islamisti e fascisti”, per dirla con il direttore del quotidiano liberale Il Foglio.
Se questi comportamenti diverranno la regola, la riduzione della democrazia a pura convenzione lessicale avrà fatto un altro decisivo passo avanti e la stagione di un nuovo autoritarismo, celato sotto il pretesto della lotta del “libero” Occidente contro le minacce “illiberali” potrà dirsi ufficialmente inaugurata.