L'illusione della democrazia
di Chad Crowley - 08/06/2025
Fonte: Giubbe rosse
Nell’Occidente moderno, la democrazia è esaltata con una riverenza un tempo riservata all’autorità dei re o al giudizio degli dei. Non è più considerata un mero sistema politico, ma un credo sacro, recitato da leader, esperti dei media e burocrati come se la sua legittimità fosse indiscutibile. L’espressione “la nostra democrazia” è diventata una sorta di invocazione morale, usata per santificare lo status quo, deviare le critiche e dipingere l’obbedienza ideologica come virtù civica. Non si è semplicemente a favore o contro una politica; si è o fedeli alla democrazia o colpevoli di eresia.
Eppure, se la parola conserva ancora un qualche significato, ci si deve chiedere perché sia gli Stati Uniti, garante imperiale mondiale del “liberalismo globale”, sia la Repubblica Democratica del Congo, un’entità postcoloniale frammentata afflitta da guerre tribali, nepotismo etnico e disfunzioni permanenti, rivendichino lo stesso titolo politico.
Cosa si dice della “democrazia” quando viene usata per descrivere regimi così diversi come la Svizzera e l’Iraq, l’Islanda e l’India, il Botswana e il Brasile? La parola non identifica più una forma concreta di governo, ma funge piuttosto da significante fluttuante, utilizzato selettivamente per legittimare o condannare a seconda delle circostanze. Esiste meno come sistema che come simbolo, meno come metodo che come sentimento sempre più privo di significato.
Per chiarezza, definisco la democrazia come la convinzione che il potere politico debba essere attribuito a “molti”. Non a tutti, perché nessuna società affida l’arte dello stato a bambini, malati di mente o criminali, ma a una maggioranza numerica che supera qualsiasi minoranza, comunque definita.
In teoria, questo principio è descritto come governo “del popolo”. In pratica, funziona più spesso come una facciata teatrale, che maschera l’influenza di oligarchi, burocrati, reti mediatiche e capitale transnazionale. Le elezioni offrono l’illusione di scelta, mentre interessi permanenti plasmano i risultati dietro le quinte. I rituali rimangono, ma la sostanza si svuota. Ciò solleva una domanda fondamentale: un sistema del genere è davvero il meglio a cui possiamo aspirare?
La democrazia, così come esiste oggi, è al servizio del bene comune? Ovvero, del benessere a lungo termine dell’intera società. Oppure è diventata un meccanismo di evasione collettiva, in cui gli oneri di responsabilità vengono diluiti tra la moltitudine e gli interessi a lungo termine vengono sacrificati agli appetiti del momento?
Molti dei più grandi pensatori politici, da Platone e Aristotele a De Maistre e Tocqueville, si sono confrontati con questo interrogativo. Nessuno ha trovato una risposta facile. Perché, sebbene la democrazia prometta partecipazione ed equità, i suoi difetti diventano evidenti se confrontati con la realtà piuttosto che con la teoria. La forma ideale di governo non è quella più lusinghiera per il sentimento pubblico, ma quella che meglio armonizza giustizia, saggezza e ordine e, così facendo, soddisfa il criterio stesso con cui tutti i regimi devono essere giudicati: il bene comune.

Prima di poter valutare la democrazia così come esiste oggi, dobbiamo innanzitutto distinguerla da due concetti correlati ma distinti che spesso vengono confusi con essa: il populismo e il regime misto.
Il populismo si riferisce all’affermazione della “sovranità popolare” come forza correttiva, mobilitata in nome del bene pubblico. Emerge quando il popolo, avvertendo tradimento o negligenza, si ribella a una classe dirigente percepita come corrotta, isolata o ostile ai propri interessi. Sebbene adotti spesso un linguaggio e meccanismi democratici, il populismo non è intrinsecamente democratico. Può emergere all’interno di monarchie, repubbliche o imperi. Ciò che lo definisce non è la forma procedurale, ma la sua pretesa di incarnare la volontà morale della nazione e di ripristinare la legittimità attraverso la “voce del popolo”.
Aristotele, scrivendo in Politica, offre una tassonomia precisa dei regimi. Classifica le forme politiche lungo due assi: chi governa e a beneficio di chi. Il governo di uno solo, per il bene comune, è monarchia; il governo di uno solo per guadagno personale è tirannia. Il governo di pochi, per il bene comune, è aristocrazia; il governo di pochi per interesse privato è oligarchia. Il governo di molti, quando orientato al bene comune, è chiamato sistema politico. Quando quel governo degenera nel perseguimento dell’interesse privato, diventa democrazia.
Non adula la democrazia. Quando il potere è affidato senza limiti alla moltitudine, raramente essa persegue il bene di tutti. Le masse sono inclini all’invidia, facilmente influenzabili dalla retorica e vulnerabili ai demagoghi che promettono molto e mantengono poco. Lungi dall’essere la forma politica più elevata, la democrazia è, in questa prospettiva, una corruzione del governo popolare: l’immagine speculare della tirannia dal basso.
La politica, il governo dei molti orientato alla giustizia e all’ordine, è presentata come l’ideale più raggiungibile e assume la forma di un regime misto. Eppure, anche questo richiede moderazione, educazione e la coltivazione della virtù: fondamenti difficili da stabilire e ancora più difficili da preservare.
Come insegnava Aristotele, un regime può essere popolare senza essere giusto. La partecipazione di massa non offre alcuna garanzia di una sana governance. Presumere il contrario significa confondere la procedura con il risultato e la quantità con la saggezza.
Un governo che serva veramente il benessere di tutti non ha bisogno di essere democratico in senso moderno. La convinzione che la legittimità derivi esclusivamente dal consenso numerico è una superstizione dell’epoca. Il vero test di un regime non è come distribuisce il potere, ma come lo esercita. La politica ideale è quella in cui l’autorità è affidata a coloro che sono più capaci di governare con saggezza, giustizia e lungimiranza. Ciò che conta non è chi detiene il potere, ma come questo potere viene diretto. Un cattivo governo di molti non è migliore di un cattivo governo di pochi, e il bene comune non è un prodotto dell’aritmetica.
L’alternativa classica alla democrazia moderna è il regime misto, che Aristotele considerava la forma di governo più stabile e giusta. In questo modello, l’autorità è condivisa tra uno, pochi e molti, tipicamente rappresentati dalla monarchia, dall’aristocrazia e dal popolo. Anziché concentrare il potere in una singola classe, il regime misto lo distribuisce tra ordini distinti, ciascuno con il compito di controllare e bilanciare gli altri. Riconosce che tutti i gruppi sociali hanno interessi e che nessun singolo elemento dovrebbe governare senza freni. Se opportunamente ordinato, un tale regime tempera le fazioni, sostiene l’equilibrio e orienta la vita politica verso la giustizia e l’interesse pubblico.

Diversi stati moderni furono fondati sui principi del regime misto, sebbene pochi ne abbiano mantenuto l’equilibrio. La prima repubblica americana, ad esempio, fu deliberatamente strutturata in modo da riflettere l’equilibrio classico: la presidenza incarnava il potere esecutivo della monarchia, il Senato si ispirava al modello patrizio dell’aristocrazia romana, con membri nominati e successivamente eletti indirettamente, e la Camera dei Rappresentanti dava voce al cittadino comune attraverso l’elezione diretta. Questo sistema tripartito aveva lo scopo di limitare il fazionismo e garantire un governo deliberativo. Tuttavia, col tempo, la struttura si è erosa. Il diciassettesimo emendamento, ad esempio, trasformò il Senato in un organo eletto dal popolo, indebolendone la funzione aristocratica. I controlli vacillarono, l’armonia cedette e ciò che rimase fu l’apparenza di una democrazia priva del suo fondamento originario.
Anche in un regime misto ben funzionante, il pericolo del governo di massa persiste. L’ammonimento di Aristotele rimane attuale: le virtù necessarie per un governo giusto – prudenza, moderazione e lungimiranza – non sono distribuite equamente tra i cittadini. I molti non sono intrinsecamente incapaci, ma sono più facilmente spinti dalla passione che guidati dalla ragione. Quando una società affida le sue decisioni più gravi agli impulsi mutevoli della moltitudine, si apre all’instabilità e alla demagogia. I Greci lo capirono: l’assemblea ateniese, libera da ogni freno, oscillava spesso tra caos e tirannia, facendo apparire il dispotismo un sollievo dal tumulto di una libertà senza governo.
Il fallimento più profondo della democrazia risiede nell’illusione che alimenta. Promette il governo del popolo, eppure, in pratica, tutte le società sono governate da élite. Ciò che conta è se queste élite siano virtuose amministratrici o manipolatrici egoiste. Nei regimi democratici, il potere non si disperde tra la folla, ma viene rivendicato da coloro che sono più abili a farne appello. In assenza di una leadership nobile, la maggioranza segue coloro che riflettono le sue paure e ne alimentano gli appetiti. Il risultato non è un governo radicato nella saggezza, ma nello spettacolo, nella visione a breve termine e nella gratificazione emotiva. Laddove un tempo gli statisti guidavano con la visione, i politici di oggi governano con i risultati, nascondendo il decadimento dietro il linguaggio del progresso.
Questo pericolo non è più confinato alla teoria. L’Occidente moderno offre la prova che l’esperimento democratico non può sopravvivere una volta distrutte le fondamenta della coesione sociale. La discendenza condivisa, la memoria culturale e la visione comune che un tempo rendevano concepibile l’autogoverno collettivo sono state deliberatamente erose, minate dall’ingegneria demografica e dal dogma del pluralismo imposto. Ciò che rimane non è un demos unificato, ma una massa frammentata di fazioni in competizione, divise per origine, religione, indole e mete finali. Gli antichi prevedevano questo pericolo. Aristotele avvertì che una polis composta da troppi elementi dissimili avrebbe cessato di essere una polis, poiché senza una natura e un carattere condivisi, nessuna concordia duratura o amicizia civica potrebbe durare.
Questa intuizione classica trova una conferma moderna nell’opera di J. Philippe Rushton, la cui teoria della similarità genetica rivela che le persone sono più propense a fidarsi, a sacrificarsi e a cooperare con coloro che sono geneticamente vicini a loro. Una volta recisi questi legami, la comunità politica si dissolve. Ciò che ne consegue non è un governo in cerca di giustizia, ma una competizione per il bottino, una corsa elettorale agli armamenti in cui i gruppi rivali usano i numeri per dominare anziché deliberare. La democrazia, in un simile stato, cessa di essere una forma di autogoverno. Diventa una guerra civile incruenta condotta con le schede elettorali anziché con i proiettili.

Gli appelli al bene comune perdono ogni sostanza, perché non c’è più una comunanza a cui appellarsi. L’elettorato diventa un campo di battaglia di identità in competizione, ciascuna mobilitata non dalla responsabilità condivisa, ma dal risentimento, dal sospetto e dall’aritmetica tribale. Ciò che rimane non è la governance, ma il conflitto mascherato da partecipazione. Il voto è ridotto a un’arma e la democrazia diventa il linguaggio attraverso cui la divisione si giustifica.
Alla luce di questa disintegrazione, diventa necessario riconsiderare forme più antiche e ordinate di autorità politica. Monarchia e aristocrazia, sebbene fuori moda per la mentalità moderna, possiedono vantaggi strutturali che la democrazia non offre più in modo affidabile. Un monarca capace, dotato di rara virtù e visione a lungo termine, può governare per l’unità e la salute durature della nazione. Come osserva Hans-Hermann Hoppe in Democrazia: il Dio che fallì, il monarca tratta lo Stato come patrimonio: qualcosa da preservare, coltivare e trasmettere alle generazioni future. Ciò coltiva una bassa preferenza temporale, incoraggiando prudenza, moderazione e stabilità a lungo termine. Il politico democratico, al contrario, ricopre la carica per un periodo breve e incerto. I suoi incentivi non sono preservare ma sfruttare, non governare saggiamente ma compiacere la massa, estrarre ricchezza e ricercare l’approvazione.
La stessa logica si applica a un’autentica aristocrazia. Quando il potere viene affidato a una classe composta dai più capaci – coloro che hanno maturato esperienza in guerra, abilità politica o disciplina intellettuale – introduce serietà e continuità nella vita pubblica. Un’aristocrazia non si piega al momentaneo, ma si attiene saldamente agli obblighi ereditati e al bene comune. Non cerca l’applauso, ma la permanenza, non la popolarità, ma la conservazione del suo incarico. Sebbene non sia infallibile, è meno suscettibile alla volatilità emotiva e all’opportunismo che caratterizzano la politica di massa. Dove la democrazia lusinga, l’aristocrazia esige. Dove la democrazia segue, l’aristocrazia guida.
Questi non sono ideali astratti. Sono i principi che un tempo hanno plasmato le grandi civiltà europee, le norme in base alle quali ordine, onore e sovranità sono stati preservati nel corso dei secoli. Se l’Occidente vuole riprendersi dall’attuale decadenza, deve attingere a queste fonti più profonde di tradizione politica, che considerano il governo non come spettacolo o transazione, ma come gestione al servizio di qualcosa di più grande di sé.
Né la monarchia né l’aristocrazia sono esenti da pericoli. Un monarca, pur essendo dotato di lungimiranza, può sprofondare nella tirannia se si distacca dai principi superiori. Un’aristocrazia, pur essendo composta da persone di alto livello, può decadere in una casta isolata, più preoccupata dei privilegi che delle responsabilità. Questi rischi sono reali, ma non sono esclusivi dei regimi non democratici. Differiscono dai pericoli della democrazia non per intensità, ma per natura.
La democrazia è vulnerabile a pensieri a breve termine, mutevoli sentimenti e manipolazioni di massa. Monarchia e aristocrazia, al contrario, sono ancorate all’etica della gestione responsabile. La loro legittimità non deriva da un’approvazione transitoria, ma dalla continuità, dal radicamento e da un senso del dovere che si estende oltre una singola vita. I migliori tra loro governano non per le prossime elezioni o per i titoli dei giornali, ma per la salute e il futuro duraturi della nazione.
Eppure, anche queste forme di governo più antiche richiedono moderazione. Il potere, per quanto nobile possa essere la sua origine, non deve essere lasciato libero di spaziare senza limiti. La comunità politica ideale non concede un’autorità assoluta, ma la canalizza attraverso istituzioni che ne garantiscano il servizio alla collettività. Tali restrizioni devono essere sia interne che esterne, insite nell’anima del regime attraverso la tradizione, la legge e il sacro giuramento, piuttosto che soggette al caos del clamore popolare o della indignazione giornalistica. Non sono le proteste di massa o lo spettacolo mediatico a mantenere i governanti virtuosi, ma una struttura di governo che coltivi il carattere, esiga la responsabilità e allinei il governo privato al bene pubblico.

Questa è la misura di un ordine veramente giusto: non il volume dei voti espressi, ma la saggezza insita nelle sue fondamenta e la serietà con cui onora il suo dovere verso il futuro.
Questa visione di governo ordinato non è priva di precedenti. La storia offre modelli in cui la responsabilità aristocratica e la responsabilità popolare furono armonizzate per preservare il bene comune. Uno degli esempi più chiari è la prima Repubblica romana. Come raccontato da Livio in Ab Urbe Condita (Dalla fondazione della città), le istituzioni repubblicane di Roma non erano né democratiche in senso moderno né interamente aristocratiche. Furono il risultato di un progetto mirato, forgiato attraverso conflitti e compromessi tra le classi patrizie (aristocratiche) e plebee (popolari), e continuamente adattate nel tempo per preservare la coesione interna e la forza esterna.
Al centro di questo sistema c’era un’élite dominante composta dalla nobilitas, uomini la cui distinzione non si basava semplicemente sulla nascita, ma sulla virtus (eccellenza virile), sull’officium (dovere) e sull’accumulo visibile di auctoritas (autorità derivata dal merito personale e dal servizio pubblico). Cariche come console, pretore e censore venivano ricoperte attraverso il cursus honorum, una sequenza strutturata di magistrature volte a sviluppare la competenza politica e militare e, soprattutto, a instillare la virtù civica. Ciononostante, la Repubblica non era rigidamente esclusiva. Permetteva la mobilità sociale a uomini eccezionali. Marco Tullio Cicerone, nato plebeo, ascese alla carica di console eccellendo nell’oratoria, nel diritto e nella dedizione patriottica. La sua ascesa non fu anomala, ma emblematica di una società che valorizzava l’ingegno (talento) e la disciplina (formazione) come condizioni per il governo.
Non si trattava di un governo di massa, né del capriccio di una fazione, ma di coloro che si erano formati attraverso l’esperienza e venivano giudicati dai loro pari. Si tenevano elezioni, ma i candidati non venivano selezionati per divertimento o per sentimento. Venivano valutati in base al loro carattere, al comando militare, alla carriera pubblica e alla capacità di servire la res publica (la comunità). A differenza delle democrazie moderne, dove la popolarità può essere fabbricata e il potere acquistato, l’ideale romano legava l’avanzamento politico al merito dimostrato e all’onore degli antenati.
Fondamentalmente, i Romani capirono ciò che i moderni sistemi liberali spesso negano: che nei momenti di pericolo esistenziale, il consilium (deliberazione) deve cedere il passo all’imperium (comando). La dittatura era una carica costituzionale, invocata solo in caso di gravi emergenze e vincolata da limiti temporali. A un dittatore veniva concessa autorità assoluta, ma solo per sei mesi, e solo per ristabilire l’ordine, respingere un’invasione o salvare lo Stato. Questo meccanismo rifletteva un sobrio realismo. Quando la sopravvivenza di Roma era in gioco, il governo non poteva essere affidato ad assemblee divise o folle emotive. Lo Stato doveva agire con unità, rapidità e forza. In tali momenti, il principio guida era chiaro: salus rei publicae suprema lex esto – che il benessere dello Stato sia la legge suprema.

Nonostante il suo declino, che portò alla guerra civile e all’impero, la Repubblica Romana durò per quasi cinque secoli, non perché lusingasse il popolo, ma perché ne imbrigliava le energie, contenendone le passioni. Le sue istituzioni promuovevano una classe dirigente che non era al di sopra della legge, ma ne era plasmata. I magistrati erano vincolati dal mos maiorum (la tradizione degli antenati), tenuti responsabili dai concittadini e guidati da un comune senso del destino. Il risultato fu uno stato che si espanse da una città a un continente, non per ideologia, ma per dovere e una lucida comprensione della realtà politica.
Un modello del genere non appartiene semplicemente al passato. Offre una visione di ordine politico radicata nell’eccellenza, nella continuità e nel servizio al tutto – una visione che deve essere tenuta a mente se si vuole superare il caos del governo moderno.
Un risultato simile si può riscontrare nella Repubblica di Venezia, che, sebbene meno frequentemente celebrata nelle storie moderne, ha sostenuto uno degli ordini politici più stabili e duraturi della civiltà europea. Per oltre un millennio, Venezia ha preservato la propria autonomia senza soccombere al decadimento interno o ai rivolgimenti rivoluzionari che hanno travolto altri stati. Ciò non è stato il risultato del caso o della geografia, ma di un sistema politico attentamente costruito che ha bilanciato autorità, merito e continuità istituzionale.
Venezia non era una democrazia nel senso moderno del termine. Il potere risiedeva principalmente nella classe patrizia, eppure questa classe non era né completamente chiusa né arbitraria. L’ammissione si guadagnava attraverso il successo commerciale, il comando navale, l’abilità diplomatica o il leale servizio alla Repubblica. La sola ricchezza non era sufficiente. Chi governava Venezia doveva dimostrare competenza e impegno per l’ordine civico. Il governo era distribuito attraverso una complessa rete di istituzioni, tra cui il Maggior Consiglio, il Senato, il Consiglio dei Dieci e l’ufficio del Doge, tutti selezionati attraverso procedure che combinavano elezione, sorteggio e verifica, riducendo così al minimo il rischio di dominazione da parte di una singola fazione o stirpe.
La carica del Doge, spesso fraintesa, non era quella di un monarca, ma di un esecutivo moderato, vincolato dalla legge e circondato da consigli per impedire azioni arbitrarie. Questa diffusione dell’autorità non indeboliva lo Stato, ma lo isolava dalle ambizioni personali e dalle improvvise convulsioni che così spesso affliggono i sistemi populisti o autocratici. Ogni decisione passava attraverso molteplici organi, ogni livello fungeva da filtro per saggezza, esperienza e interessi a lungo termine. La corruzione veniva affrontata non con epurazioni teatrali o agitazioni di massa, ma con la vigilanza istituzionale: scrutini segreti, revisioni giudiziarie e consigli di vigilanza dedicati garantivano che il potere rimanesse concentrato sulle esigenze durature della città.
Sebbene la gente comune non governasse, non era esclusa dall’organismo politico. Era cittadina a pieno titolo, legata alla Repubblica da un rituale ereditato e da un ordine religioso-politico unificante. Aveva il diritto di muovere accuse contro i funzionari corrotti e di partecipare alla vita comunitaria in modi che rafforzassero la lealtà anziché il risentimento. Venezia non era quindi un’oligarchia di sfruttamento, ma uno stato la cui classe dirigente si considerava custode, non padrone.

Il modello veneziano non era animato da teorie utopiche né guidato da sentimenti populisti. Premiava la prudenza sulla passione, la continuità sulla novità. La sua grandezza non risiedeva nella conquista imperiale o nell’innovazione filosofica, ma nella sua capacità di durare, di governare con moderazione e di armonizzare ricchezza, ordine e tradizione. Mantenne l’indipendenza in un mondo ostile coltivando l’eccellenza, premiando il servizio e radicando la responsabilità nelle sue stesse strutture di governo. Che un tale sistema sia durato per quasi mille anni non è un’impresa da poco. È una testimonianza della possibilità di un ordine politico né tirannico né democratico, ma qualcosa di più elevato: un regime fondato sull’esperienza, temperato dalla deliberazione e orientato al benessere del corpo politico.
Sia Roma che Venezia rivelano una verità politica più profonda: i regimi più duraturi e giusti non sono né quelli che cedono l’autorità alle masse né quelli che consolidano le élite senza obblighi. Essi strutturano il potere non come un monolite, ma come un equilibrio di forze, tra l’uno, i pochi e i molti, in modo che nessuna parte del corpo politico governi senza controllo. In questi sistemi, il potere non è mai una licenza per l’interesse personale, ma un peso definito da moderazione, onore e dovere. Il governo non era un premio da rivendicare, ma una prova da superare.
Tali regimi non adulavano le masse né si piegavano ai capricci del momento. La leadership si plasmava nel crogiolo della tradizione, si affinava attraverso l’educazione e si metteva alla prova nel servizio e nel sacrificio. La disciplina era attesa. L’eccellenza, richiesta. La legittimità non derivava dagli applausi, ma dalla capacità di custodire le linee vitali più profonde di una civiltà. Lo Stato non era una merce, né una piattaforma per il risentimento, ma un sacro incarico, qualcosa da sostenere, rafforzare e lasciare in eredità a chi sarebbe venuto dopo.
Al contrario, le democrazie moderne, ossessionate dall’immediatezza e inebriate dall’uguaglianza, riducono la politica a spettacolo. L’emozione soppianta il giudizio, la fazione soppianta la comunità e l’orizzonte d’azione si restringe all’intervallo tra un’elezione e l’altra. I leader non si formano più attraverso le difficoltà né sono formati all’arte dello stato. Emergono dai media, dal mondo accademico, dalla finanza o dalla ripugnante classe politica, premiati non per la saggezza, ma per la visibilità. La cittadinanza, frammentata e sradicata, non condivide più un ethnos (ascendenza) o un ethos (cultura) comuni, ma solo una scheda elettorale comune. Il risultato non è un autentico autogoverno, ma l’illusione di partecipazione a un processo che non serve a nessun principio duraturo.
La vera misura di un ordine politico non risiede nella sua retorica, nelle sue formalità o nelle sue affermazioni di diritto morale, ma nella sostanza del suo governo e nella profondità dell’ordine che garantisce. Essa si basa sulla fedeltà di coloro che esercitano l’autorità a qualcosa di più grande di loro, sulla salvaguardia della civitas come realtà etnoculturale e spirituale e sul mantenimento della continuità di una civiltà sostenuta dalla memoria, dalla lealtà e dal sacrificio. Ecco perché Roma, nonostante tutta la sua violenza, e Venezia, nonostante tutta la sua segretezza, non dovrebbero essere considerate reliquie morte, ma esempi duraturi, le cui forme parlano ancora delle esigenze più profonde dell’ordine politico. Ci ricordano che un governo giusto non nasce dal sentimento o dal consenso, ma dalla forma, dalla disciplina e da un ininterrotto senso del dovere che si estende attraverso le generazioni.

Secondo questo criterio, i sistemi del nostro tempo non stanno semplicemente vacillando, ma si stanno disfacendo. Il loro fallimento non risiede nella tirannia, ma nella mancanza di scopo; non nella severità, ma nell’assenza di qualsiasi nobile richiesta. Non ispirano né elevano più. Persistono semplicemente, vuoti e senza direzione, sostenuti dall’abitudine piuttosto che dalla convinzione. Un ordine politico che non avanza richieste non promuove alcuna virtù. E senza virtù, né la libertà né la stabilità possono durare. Finché quel criterio non sarà ripristinato, finché la politica non tornerà a essere l’arte del governo guidata da uno scopo ed elevata da un principio, nessuna procedura, per quanto inclusiva o “democratica”, potrà recuperare ciò che è andato perduto.
L’era democratica non è la fine della storia. È una fase transitoria, nata da sconvolgimenti e sostenuta dall’illusione, che non può durare indefinitamente. Se il suo crollo lascerà il posto al rinnovamento o alla dissoluzione finale dipenderà non dalla volontà delle masse, ma dalla lucidità e dal coraggio di coloro che sono ancora capaci di costruire ciò che verrà dopo.
Chad Crowley, substack.com — Traduzione a cura di Old Hunter