Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’Iran a noi sconosciuto: ‘Ali Shari’ati, ideologo della Rivoluzione iraniana del 1979

L’Iran a noi sconosciuto: ‘Ali Shari’ati, ideologo della Rivoluzione iraniana del 1979

di Maria Morigi - 18/06/2025

L’Iran a noi sconosciuto: ‘Ali Shari’ati, ideologo della Rivoluzione iraniana del 1979

Fonte: Come Don Chisciotte

Se nella Rivoluzione del 1979 il ruolo politico e carismatico fondamentale fu svolto dall’Ayatollah Ruhollah Khomeyni, il vero ‘motore ideologico’ che portò alla proclamazione della Repubblica islamica, fu ‘Ali Shari’ati Mazinani (1933 – 1977), un personaggio noto in Occidente solo a chi si occupa di pensiero dell’Islam Politico. Sociologo filosofo e studioso del marxismo, uno degli intellettuali iraniani più influenti del 20° secolo, Shari’ati fu incarcerato dal 1973 al 1975, e poi in esilio a Londra, morì a Southampton per un attacco di cuore all’età di 43 anni. Si può dire che Shar‘iati sta alla Rivoluzione Iraniana come Marx sta alla Rivoluzione Russa. Eppure nessuno dei due vide il frutto rivoluzionario della sua ideologia.
Il padre di Shari’ati era un insegnante, fondatore nel 1947 del “Centro per la propagazione delle verità islamiche” a Mashhad e attivo nel Fronte Nazionale, una coalizione di gruppi socialdemocratici, monarchico – costituzionali e islamisti, con un programma sociale popolare- nazionalista. Già a Mashad il giovane Shari’ati conosceva le idee di pensatori come Jamal al-Din al-Afghānī, uno dei padri fondatori del riformismo, il “Risveglio islamico” (Nahda), e Muhammad Iqbal, poeta e filosofo fondatore del Pakistan indipendente, ma conosceva anche le opere di Sigmund Freud e di Alexis Carrel, chirurgo, fisiologo e biologo francese, premio Nobel per la Medicina nel 1912.
Nel 1958, Shari’ati entrò all’Università di Mashad; completato il Master nel 1960, vinse una borsa di studio alla Sorbona per un dottorato di ricerca in sociologia e storia islamica e, a Parigi, si immerse nella filosofia politica radicale partecipando a organizzazioni rivoluzionarie come la Confederazione studentesca iraniana e il Movimento di liberazione dell’Iran, formato nel 1961-1962 da seguaci di Mohammad Mossadeq, si avvicinò al terzomondismo con l’idea che la lotta di classe e la rivoluzione avrebbero portato ad una società giusta liberata dal peso del colonialismo. Fu influenzato da Albert Camus (con l’opera “L’uomo in rivolta”), conobbe Jean-Paul Sartre e Franz Fanon (psichiatra e antropologo terzomondista autore de “I dannati della terra”), e guardò all’Islam rivoluzionario come ad una fusione di elementi tradizionali ed internazionali, di sinistra e religiosi, una possibile via per indirizzare l’intellighenzia iraniana.
Il pensiero di Shari’ati muoveva dal presupposto che l’Islam sciita fosse per natura un’ideologia rivoluzionaria e che la religione fosse forza propulsiva capace di elevare l’essere umano. Insistendo nella ricerca della “Via della Rivolta” per riscattare il Paese e stabilire una società senza classi, esplorò socialismo e marxismo, ma era anche convinto che il marxismo da solo non potesse pienamente fornire i mezzi per la liberazione del Terzo Mondo dall’imperialismo occidentale, il quale poteva essere combattuto dalle masse sciite solo con il recupero dell’originaria identità musulmana.
Su questo tema identitario Shari’ati negli anni parigini tradusse il testo “Abu Zarr. Khodaparast-e Sosiyalist” (“Abu Zarr. I socialisti che venerano Dio”) del romanziere egiziano ‘Abd al-Hamid Jawdat al-Sahar, in cui si ripercorreva la vita di uno dei primi compagni del Profeta che, dopo la morte di Maometto, aveva denunciato i califfi come corrotti e si era ritirato nel deserto per condurre una vita semplice vicino agli affamati e ai poveri. Il socialismo di Shari’ati è venato di spiritualità e slancio mistico, tanto che Abu Zarr può essere definito primo socialista musulmano, “persona primordiale” in cui la logica non ha ancora rimpiazzato la coscienza [2].
Nel saggio Red Shi’sm vs. Black Shi’ism, “Sciismo rosso (la religione del martirio) contro Sciismo nero (la religione del lutto)” Shari’ati discute sul dualismo insito nella religione sciita. Lo Sciismo Rosso, privo di idolatrie e di clero sarebbe la forma pura della religione incentrata su giustizia sociale, riscatto e salvezza delle masse. Lo Sciismo Nero, dominato dalla monarchia dei Safavidi e dal clero reazionario, sarebbe invece la forma deviata della religione, lontana dai bisogni e dalle aspirazioni delle masse. Nel saggio “Islamologia” (1969) Shari’ati afferma che l’Islam è compatibile con la modernità, perché basato sul consenso (shūrā), e dunque sulla democrazia. Egli, a differenza degli sciiti conservatori, criticava aspramente la classe degli ulamā, colpevole di usare la religione come “oppio dei popoli” trasformandola in dogma. Questioni inconsistenti e vaghe come il misticismo e l’escatologia utilizzate dagli ulamā impediscono alle persone di scoprire la profondità della religione e anche di vedere la propria miseria. “Dobbiamo riformare l’Islam rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente…”[3].
Shari’ati credeva nella legge universale del determinismo, certo che evoluzione e rivoluzione fossero inscindibili ed inesorabili, conducendo all’inevitabile fine della storia con la realizzazione dell’utopia in cui uguaglianza e unità domineranno e ci sarà il ritorno del Mahdi, apice e fine della lotta. Secondo Shari’ati, all’origine di tutti i problemi dell’uomo sono la proprietà privata, l’apparizione della macchina e la dialettica basata su conflitto e guerra. Quest’ultima si esprime nel mito di Caino e Abele, metafora della lotta di classe, in cui Caino rappresenta i dominatori che sfruttano le masse povere simboleggiate da Abele. Come i marxisti e i teologi della liberazione, Shari’ati vedeva la causa principale del male nel “sistema” pervertito della società corrotta fondata sull’idolatria della “Trinità”: politica – economia – religione, un idolo a tre facce (Faraone, Creso e Balaam) in cui le masse, drogate dalla religione, sono costrette a sottomissione e sfruttamento. Così Shari’ati interpreta il linguaggio: Ummah è la “società in rivoluzione permanente”, Tawhīd è la “solidarietà sociale”, Imām è la “guida carismatica”, Mujāhid è il “combattente rivoluzionario”, Mustazafin (i “senza scarpe”) sono le “masse oppresse”. Il martirio di Karbalā diventava la lezione morale fondata sul sacrificio volontario dei rivoluzionari. Poiché il Corano ha insegnato che il potere politico, economico e religioso appartiene al popolo e che la società rappresenta Dio sulla terra, significa che, nella gestione del potere, non deve esistere alcun monopolio del clero, e che la fede sciita radicata nelle masse è da solo un movimento progressivo verso l’obiettivo rivoluzionario dimostrando che l’uomo è una creatura volta alla realizzazione di una società senza classi, liberata dalla tirannia, dall’ingiustizia e dall’inganno.
Shari’ati diede anche grande rilievo all’arma rivoluzionaria del martirio che motiva gli uomini a diventare testimoni dei veri valori dell’Islam. L’idea di martirio, legata alla storia e alla tradizione dello sciismo, si diffuse anche fra i movimenti sunniti più radicali. Ma è di questi anni pre-rivoluzionari l’idea che martire non sia solo colui che affronta impavidamente la morte per la causa di Dio, ma anche colui che si dà volontariamente la morte per provocare danno al nemico. Il martirio è una scelta che garantisce l’onore, la fede e il futuro degli impotenti. Trasforma gli sciiti da passivi “guardiani dei cimiteri” a seguaci attivi del Primo Imam ʿAlī.
L’iraniano Asef Bayat, testimone e partecipe della rivoluzione del 1979, racconta che i ritratti di Shari’ati erano presenti durante le marce di protesta dalla metà degli anni ‘70 e il suo epiteto mo’allem-e enqilab (“mentore rivoluzionario”) era scandito da milioni di persone. M. Campanini, uno dei massimi esperti del pensiero politico dell’Islam, sostiene[4] che Ali Shari’ati “può venire considerato non certo il primo, ma sicuramente uno dei più efficaci teorizzatori dello sciismo rivoluzionario; uno sciismo che assume le caratteristiche fondanti di una ideologia (…) Le lezioni, le conferenze, i libri di ‘Ali Shari’ati incisero profondamente nella formazione della gioventù rivoluzionaria iraniana…”

Maria Morigi. Nata a Ravenna, laureata in archeologia e Storia dell’arte greca e romana presso l’Università di Trieste, è stata docente in Istituti e Licei artistici a Udine e a Trieste. Si è dedicata allo studio di storia delle religioni orientali, ricerca archeologica, tutela di beni culturali e patrimonio, specie per l’Afghanistan e per le regioni autonome cinesi del Tibet e dello Xinjiang, con attenzione ai caratteri storici, politici, culturali ed etnico-sociali di quelle aree. Ha svolto catalogazione presso il Museo Archeologico di Aquileja e seguito missioni di scavo in vari paesi (Turchia, Pakistan, Iran, Cina e regione dello Xinjiang).

NOTE
[1] L’articolo è tratto dal saggio di Maria Morigi “Islam tra colonizzazioni e imperialismi. Percorsi su Islam e islamismo dal XIX al XXI secolo”, Ed. Anteo 2025 (Capitolo 3, par.3 pag 73 e segg)
[2] “Qui si racconta che proprio Abu Zarr sostenne di aver incontrato e pregato Dio tre anni prima di imbattersi in Muhammad. Alla domanda in quale direzione si fosse rivolto per pregare Dio, egli rispose: “Nella direzione in cui Lui mi ha reso consapevole di me stesso”. Cit da Daniele Perra “I socialisti che venerano Dio” Arianna editrice 14/05/2024.
[3] Cit. Esposito, ed. Voices Of Resurgent Islam, New York: Oxford University Press. 1983.
[4] Massimo Campanini, L’alternativa islamica, Ed Mondadori, 2012