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L’ultimo uomo

di Livio Cadè - 22/11/2020

L’ultimo uomo

Fonte: EreticaMente

“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore…”

Il capitano Monod completò con scrupolo anche quell’ultima ricognizione. Sul verbale, alla voce ‘forme viventi’, scrisse ‘nessuna’. Non restavano altri mondi da esplorare. Aveva fatto il periplo dell’universo senza trovare traccia di sopravvissuti. Era come se lo slancio della vita si fosse esaurito. Aveva perlustrato ogni angolo del cosmo. L’energia morfica, da cui l’astronave era alimentata, poteva condurlo in un attimo agli estremi confini dello spazio. Ma per quanto fosse andato lontano, non aveva rilevato alcun segno di vita. L’universo era un ammasso di materia inerte, una tomba sconfinata. Sentì una fitta angosciosa. L’energia morfica poteva condurlo ovunque ma non riportarlo nel passato. Quel che stava alle spalle era perso per sempre, annichilito da un male misterioso.
Era cominciato con una strana epidemia in un piccolo borgo cinese.  Il contagio si era rapidamente diffuso in tutto il pianeta, trasformandosi in una letale e inarrestabile pandemia. Nessuno era riuscito a trovare una cura o un vaccino. Non solo gli esseri umani  ne erano colpiti ma ogni specie animale e vegetale. Si pensò di trasferire i sopravvissuti su altri pianeti. Ma ben presto ci si accorse che le spore di quel male si erano sparse in tutto l’universo, provocando un’apocalittica cosmodemia. Quel germe misterioso sembrava voler far tabula rasa di ogni forma di vita. Monod e il suo equipaggio avevano ricevuto l’incarico di perlustrare ogni angolo dell’universo, alla ricerca di un pianeta o di un satellite incontaminato. Altre astronavi erano partite dalla Terra con la stessa missione.
I suoi compagni di viaggio erano morti uno dopo l’altro, vittime dell’infezione.  Le comunicazioni con le altre navi si erano interrotte da tempo. Dalla Terra non arrivava alcun segnale di vita. Le immagini che riceveva dai visori morfici mostravano miliardi di cadaveri insepolti. Il ricordo di sua moglie e dei suoi due bambini lo tormentava. Conservava dentro di sé un brandello irrazionale di speranza, col quale cercava di nascondersi la verità: era l’ultimo uomo rimasto. Gli pareva di essere un naufrago alla deriva in un immenso silenzioso oceano. Era rimasto solo Zeus, la mascotte dell’equipaggio, un grosso cane di razza indefinita che sembrava condividere con lui una inspiegabile immunità al contagio. Era diventato per Monod il centro dell’universo. Gli parlava, gli spiegava la situazione, sicuro che capisse, che avesse i suoi stessi sentimenti.
Ma anche Zeus era invecchiato e ora, quando Monod lo chiamava, restava sul suo giaciglio, guardandolo con occhi tristi. Una mattina lo trovò steso a terra ansimante. La vita lo stava abbandonando. Si chinò e lo accarezzò. Zeus, con un ultimo sforzo, sollevò il muso e gli leccò il volto, rigato di lacrime. Emetteva guaiti soffocati, quasi cercasse di nascondere a un vecchio amico le sue sofferenze. Monod capì e non volle prolungare quella agonia. Gli somministrò una dose di forte anestetico. Gli occhi del cane si chiusero.  Quando fu certo che fosse profondamente addormentato, gli iniettò del veleno. Il petto del cane si sollevava ritmicamente, come un battere e un levare. Infine si fermò. Monod stette lì più di un’ora a guardarlo, accarezzandolo e parlandogli ancora. Anche quella pulsazione, l’unico segno di un’altra vita, era scomparsa nel nulla, come una fiamma improvvisamente spenta. Dove va una fiamma quando si spegne?
Monod provò una cupa solitudine. Non sapeva cosa fare. Poteva continuare a galleggiare nello spazio, chiuso nella la sua navicella, come su una zattera scampata al naufragio. Aveva scorte di viveri sufficienti per anni. Poteva cercare un pianeta abitabile.  O dirigersi verso la Terra. Ma non voleva passare il resto della sua vita in un mondo popolato da scheletri e fantasmi. Si ricordò di un pianeta nella Galassia NXR-14. Non ospitava forme animali, ma era l’unico in cui alcune piante avevano resistito al dilagare del nulla. L’elaboratore morfico lo materializzò in un attimo davanti a lui. Ma ora v’erano solo alberi secchi, un’immensa distesa arida dove ogni colore era spento. Anche lì era ormai calata la nube nera dell’estinzione. Non aveva altra scelta che restare a bordo, vagando nel vuoto, alla ricerca di  qualcosa che probabilmente non esisteva.
Lo angosciava quell’immutabile silenzio. Non v’era notte né giorno, il tempo era un muro grigio e compatto. Poteva ascoltare della musica, guardare un vecchio film, leggere, fare un po’ di esercizio fisico, rivedere per l’ennesima volta i suoi calcoli. Ma ormai tutto lo disgustava. Guardare  le immagini del passato registrate nella memoria artificiale della navicella – la sua famiglia, gli amici – lo faceva precipitare in un abisso di tristezza. Non riusciva ad alleggerire la sensazione di un peso tremendo che lo schiacciava. L’universo era un infinito corpo senz’anima e lui, da solo, doveva reggere quel vuoto sconfinato.
Cercava di dormire. Nel sonno aveva l’illusione di ritrovare ciò che amava. Abbracciava ancora sua moglie, parlava coi suoi figli, rivedeva la sua vecchia casa, i suoi genitori, giocava con Zeus. Si sentiva felice e tutto gli sembrava straordinariamente vivo. Ma era una fuga pagata a caro prezzo. Quando, svegliandosi, ritrovava quell’opprimente silenzio che lo avvolgeva, avvertiva fitte lancinanti. Quando quei miraggi svanivano il dolore era tale che avrebbe preferito non sognare più.
Poteva iniettarsi una dose di veleno e farla finita. Ma vivere gli sembrava ormai un dovere, una sorta di missione. Custodiva in sé i ricordi della vita come una sacra fiamma. Non sarebbe stato lui a spegnerla. Avrebbe resistito fino all’ultimo. E poi, pensava, ci sarebbero stati ancora meravigliosi tramonti, e albe e cieli stellati, e mari spumeggianti e montagne. E solo i suoi occhi potevano coglierne la struggente bellezza. Da lui dipendeva la meraviglia del creato. Con forza ostinata si opponeva al trionfo del nulla. Era lui l’ultima nota di una immensa sinfonia, e questa nota gli sembrava rimbalzare come un’eco sulle pareti di quell’assoluto silenzio. Si illudeva che qualcuno l’avrebbe sentita.
Com’era possibile che il nulla divorasse ogni cosa? Dio ha dato, Dio ha tolto, aveva detto qualcuno. Ma Monod era uno scienziato. Per lui, il caso aveva creato, il caso aveva distrutto. V’erano delle cause, ma erano solo casuali combinazioni di atomi. Non v’era un metafisico Perché. Tutto era logico e insieme assurdo. Qual era il senso di quella totale distruzione? Nessuno, era un caso come gli altri. Solo Dio avrebbe potuto dare un senso. Monod non poteva fare che ipotesi scientifiche, incolonnare numeri. Da ragazzo, nelle sue acerbe sofferenze, si rivolgeva a Dio, perché sua madre lo aveva educato religiosamente. Ma si chiedeva come potesse Dio ascoltare la voce di ogni creatura. Quel numero incalcolabile di lamenti, suppliche, preghiere che salivano verso di Lui e attendevano una risposta. Poteva Dio sentire distintamente, uno per uno, tutti quei respiri, quel confuso brusio di menti e di cuori? Una miriade di esseri che soffrono e lo invocano. Questa domanda tormentava la sua giovane mente. Poi, con l’età, era divenuto più razionale. Aveva concluso che Dio era una semplice proiezione di desideri umani e aveva liquidato così la questione.
Ma ora che era rimasto solo, sperava che Dio lo vedesse, che potesse sentire i suoi pensieri. Dio non aveva ora che un solo uomo di cui occuparsi. Poteva ben degnarlo della sua attenzione, uscire dal suo silenzio, colmare la sua solitudine. Monod si liberò del suo rigoroso scetticismo, che gli proibiva di credere. Dai fondali della sua anima, come da abissi marini, salivano alla coscienza immagini dimenticate, ansie e speranze della sua giovinezza. Da scienziato aveva creduto solo nell’aldiqua, nei fatti sperimentabili. Ma ora, nei suoi soliloqui con un Dio ignoto, riesumava antiche domande, poneva incognite, ipotizzava un altro universo, invisibile, in cui la vita continuava. In lui riemergeva una fede dimenticata, come un relitto cui afferrarsi, e vi si aggrappava.
Attendeva una conferma da Dio, un segno. Ma per quanto stesse in ascolto, sentiva solo l’interno andirivieni dei pensieri. Cominciò a commiserarsi. Era quello il premio per aver lavorato duro nella vita? Ogni suo sogno era stato inghiottito dalle profondità del nulla. Guardò il nero dello spazio intorno. Tirò linee immaginarie tra le stelle, disegnando forme viventi. Immaginò di vedervi sua moglie e i suoi figli, e Zeus con loro, trasformati in costellazioni. Sorrise e pianse. Prese alcune pastiglie per addormentarsi. Voleva sognare ancora.
Si svegliò dopo un sonno breve e inquieto. L’astronave era ancora circondata da una profonda oscurità. Tenui bagliori di stelle lo raggiungevano da inconcepibili distanze. Miliardi di soli lo fissavano da lontano, silenziosi e indifferenti. C’era qualcosa di freddo e di sublime in quella immensità senza vita. Non v’era nulla che potesse turbare la perfezione dei cieli coi moti disordinati del dolore o del piacere. Una moltitudine di corpi ruotava come sempre in orbite immutabili, come spinta da un imperturbabile meccanismo.
Ormai non v’era più alcuno scopo nel suo viaggio. Non avrebbe neppure saputo dire quale era stato lo scopo reale di quella lunga ricerca. Si era chinato sul cuore dell’universo cercando di coglierne il battito, anche solo un’impercettibile pulsazione. Perché lo aveva fatto? Monod capì che la sua volontà di scoprire esseri viventi non aveva nulla di scientifico. Quella ricerca ansiosa, quel desiderio bruciante e infine quella disperazione, erano corpi estranei conficcati come spine nella pura obiettività della sua mente. La sua razionalità era un vestito stretto, che lo soffocava.
Sotto i panni rigidi della scienza sentiva il tumulto dei sentimenti. Era la violenta ribellione del suo io all’idea che l’universo non avesse un’anima. Mondi che girano nello spazio come carcasse inerti, rotelle di un cieco ingranaggio. Questo non era in contraddizione con i suoi presupposti scientifici. Ma il cuore di Monod ora lo rifiutava. Non accettava che un’inflessibile azione meccanica governasse i movimenti di pianeti e di stelle senza vita. Aveva sempre creduto che tutto fosse retto da fredde e impersonali leggi fisiche. Ora invece sperava che le stelle fossero mosse dall’amore, non da qualche equazione matematica.
“Forse sto impazzendo” pensò. Cercò di guardare dentro di sé. Era cambiato. L’idea della morte non lo turbava più. In fondo morire era preferibile a restare sepolto vivo in quel sepolcro cosmico. Ma v’era qualcosa di più profondo. Si accorse che non riusciva più a credere di poter, morendo, svanire nel nulla. In mezzo a quel silenzio infinito, il suo io si dilatava, si identificava con l’intero universo. La sua anima riempiva il creato. Sentiva di essere il centro, il cuore pulsante di tutto e insieme di contenere ogni cosa dentro di sé. Tutto si rifletteva nello specchio della sua coscienza. “Io contengo il tempo e lo spazio, tutto dimora in me, io ne sono il custode. Non posso morire”. Questa idea metteva in lui radici sempre più profonde. Il cielo, con la sua rete di stelle, pareva aggrapparsi a lui per esistere.
Ma quell’infinito, trovando rifugio nella sua mente, ruotava su sé stesso, creando vortici di solitudine ancor più vasti e dolorosi. Monod non voleva essere lo specchio di un gelido cadavere ma trovare un’anima, un essere in cui anche lui avrebbe potuto specchiarsi. Gli sarebbe bastato un insetto o un fiore. Avrebbe protetto quella vita con tutte le sue forze. Senza un Tu l’universo gli sembrava privo di senso. A che scopo un’infinità di mondi deserti dove non v’era nessuno da amare?
Riprese tra le mani il giornale di bordo. Un ammasso di dati fisici e chimici portava verso quell’unica conclusione, sempre uguale: nessuna evidenza biologica. Quella formula, sterile come la sabbia che ricopriva i pianeti, non evocava alcuna tragedia scientifica. Era una constatazione obiettiva. Tuttavia conteneva per Monod un grido disperato: nulla da amare! Era questo che ora cercava: il calore di un ‘tu’, il suo palpito vitale. Tutta la materia cosmica gli sembrava un immenso fondale oscuro, la cui opacità serviva solo a riflettere gli arabeschi luminosi dell’amore.
Soffriva come si dice soffrano coloro che hanno subito un’amputazione. Sentono il dolore lì dove non c’è più nulla, nell’arto fantasma. Così Monod sentiva il dolore non in qualche parte di sé ma in quel Tu che gli era stato amputato, nel fantasma dell’Altro. Era un dolore sordo e incurabile, per cui non v’erano medicine. Monod si abbandonò al destino, smise di sperare, di immaginare, di lottare. Fu allora che vide la grazia emergere dal nulla, come rispondendo a una preghiera. Una bellezza infinita gli si mostrava, si offriva al suo sguardo per essere amata. Tutto pulsava nuovamente intorno a lui. Meravigliose nubi di stelle si estendevano in ogni direzione. La bellezza delle cose fluiva in lui, nelle sue fibre inaridite e le faceva rifiorire. Aveva già intravisto quella luce, in una fuga di Bach, nel tramonto, nel sorriso dei suoi bambini. Ma ora la vedeva con una chiarezza insolita. Vide che quella bellezza risplendeva anche nel più profondo dolore. Non poteva spiegarlo e non gli sembrava necessario. Forse quella bellezza era Dio. La vedeva, e questo gli bastava.
Trascorse molto tempo in una sorta di stupore infantile. I fili sparsi dei suoi pensieri si intrecciarono formando una visione compatta. Si sentiva avvolto da un immenso Tu. In quel Tu tornavano tutti gli esseri amati e perduti. Lì erano sottratti al nulla e consegnati a una Presenza eterna. I loro volti erano immersi in un’unica luce, eppure Monod li distingueva uno per uno. Sentiva il calore dei loro corpi, rivedeva i loro sguardi, ne udiva ancora chiaramente le voci. Ogni ricordo brillava di luce propria, come una stella nello spazio di quella memoria infinita. Erano tutte particelle di una bellezza senza tempo, gocce di un mare immortale. Sul giornale di bordo scrisse: “La mia ricerca è finita”.
Contemplò gli astri che galleggiavano nel buio. Gli parve che danzassero, uniti da fili invisibili, seguendo il ritmo di una musica inudibile. Pensò che anch’essi erano vivi e avevano un’anima. Forse quei globi luminosi erano schiere di angeli, fuochi spirituali accesi dal fiat divino. Pensò che nel loro imperturbabile moto erano esempi di un amore perfetto, di una totale obbedienza alla volontà di Dio. In passato l’avrebbe detta una ridicola fantasia. Ma ora, guardando quell’adunanza di stelle, gli sembravano occhi che ricambiavano il suo sguardo. Gli parve di sentirne le voci che lo chiamavano, che gli rivolgevano parole d’amore.