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La democrazia è finita nel non voto

di Marcello Veneziani - 26/10/2025

La democrazia è finita nel non voto

Fonte: Marcello Veneziani

Ma si può considerare ancora una democrazia se la maggioranza assoluta del popolo italiano non va più a votare? Abbiamo davanti agli occhi tre tornate elettorali in tre regioni assai diverse, le Marche, la Calabria e la Toscana che hanno premiato i governi regionali uscenti: nelle Marche ha vinto la destra col presidente di destra, in Calabria ha vinto il centro-destra con un presidente di centro, in Toscana ha vinto la sinistra, più l’apporto marginale dei 5Stelle, con un presidente di sinistra. Ma in tutte e tre le regioni c’è un filo comune: la maggioranza dei cittadini non è andata a votare. Anche in regioni famose per l’alta affluenza elettorale, come la Toscana.
Ma si può ancora definire una democrazia se il popolo sovrano a maggioranza assoluta diserta le urne? Un tempo l’Italia era uno dei paesi col più alto tasso di partecipazione politica ed elettorale. Si votava per tre grandi ragioni: per convinzione, per convenienza e per impedire la vittoria del nemico. Per convinzione, perché era forte la motivazione ideale e ideologica, oltre che politica. Per convenienza perché era diffuso il voto clientelare di scambio e il voto per interesse. E poi si votava per timore che vincesse il nemico.
Il Paese che andava poco a votare, la metà del suo elettorato non andava alle urne, era gli Stati Uniti, che pure era considerato il paradigma della democrazia. Ma la giustificazione era rassicurante: non c’era il timore che vincesse l’avversario perché si pensava che comunque non era in pericolo la democrazia, non c’era il rischio di fuoruscita dal sistema.
Ma la ragione per cui in Italia, e in Europa, si vota sempre meno, oggi non è quella, ma un’altra: è la persuasione che la politica, nonostante la forte contrapposizione tra le forze in campo, non cambi le sorti di un paese; ci sono poteri sovrastanti ai governi sovrani e il campo di decisione della politica si è molto ristretto. Inoltre la politica ha deboli motivazioni ideali e politiche – il voto per convinzione – e non riesce a garantire vantaggi ai singoli elettori – il voto per convenienza.
Di conseguenza, la gente ha un impulso sempre più debole a votare, prevale l’astensione, il tirarsi fuori dalla contesa, la sfiducia nella politica e nelle sue capacità di governare i processi e avviare grandi riforme o frenare declini, cadute e crisi strutturali.
Da allora il voto tende a diminuire, fino a superare il livello di guardia della maggioranza assoluta, con la sola speranza che questo non accada nelle grandi competizioni politiche, dove seppure più flebili che in passato, sussistono le ragioni di prima, e la forte personalizzazione della politica a cui assistiamo da decenni, dal berlusconismo in poi, genera ancora ondate di simpatia e antipatia che riescono a smuovere un po’ più i cittadini.
Ma torno alla domanda iniziale: si può considerare una democrazia un sistema elettorale bocciato dai numeri, cioè proprio dalla maggioranza degli elettori che in quanto maggioranza dovrebbe essere sovrana? La sovranità non vale anche nell’indicazione di non voto, cioè nel rigetto della partecipazione elettorale?
Possiamo dire che i paesi europei, e l’Italia tra questi, restano ancora, seppure tra molte contraddizioni, cadute e punti oscuri, regimi di libertà. Ma la democrazia è partecipazione.
Intendiamoci, il governo del popolo è una fictio, una finzione politica e giuridica, perché tra il voto e il governo c’è di mezzo l’interpretazione del voto, e poi le alleanze, le mediazioni. Non c’è mai governo del popolo. E nessuna forza, nessuna leadership riesce da sola a ottenere la maggioranza assoluta dei consensi. Quasi tutti i governi sono coalizioni, che a volte nascono dopo l’esito del voto, dunque con una deviazione rispetto ai programmi elettorali e alle scelte politiche con cui si erano presentati al vaglio degli elettori. Anche l’onda populista, assai contrastata dall’establishment e dal mainstream, raccoglie voti crescenti e a volte maggioritari, ma non bastano quasi mai a formare governi, se non attraverso le alleanze. E dall’altra parte, maggioranze fragili, leadership instabili e spesso minoritarie, come accade in molti paesi europei, alla fine ripiegano su governi a forte trazione tecnocratica, cioè con esponenti che non provengono dal voto e dai meccanismi democratici ma vengono in vario modo calati dall’alto, dai poteri forti o da organismi internazionali.
Ma tutto questo alla fine conferma la tendenza di cui si diceva prima: la democrazia si svuota, si ritira, la gente non dà il suo consenso ai governi, al più accetta rassegnato o nel nome di qualche emergenza, provvisorie coalizioni e surrettizie leadership di tecnici, come da noi fu il caso di Draghi (non il solo né il primo).
D’altra parte cosa si può fare per invertire la tendenza o quantomeno per frenare, tamponare l’emorragia di consensi? Si, certo, restituendo qualità e motivazioni alte alla politica, selezionando meglio il personale politico, garantendo una maggiore circolazione delle elites politiche. Ma sono raccomandazioni, auspici, buone intenzioni.
Stiamo tornando a esperienze di voto che precedono l’epoca del suffragio universale, che era poi il compimento della democrazia. Oggi nelle urne si raccolgono i resti della politica e i voti in suffragio della democrazia deceduta.
Dall’altra parte incombono nel resto del mondo le autocrazie più agili nelle decisioni. Siamo in un punto difficile e pericoloso, da cui possiamo aspettarci di tutto.